di Oreste Caroppo
un sito che ebbi il grande privilegio di poter scoprire da piccolo, con indescrivibile emozione, durante le mie esplorazioni del territorio! Per decenni era del tutto passato inosservato agli occhi degli studiosi, cultori di “cose patrie” e non solo. Era il 1993, il 16 luglio del 1993, momenti che non si possono dimenticare! Tanto che i due dolmen principali del complesso furono poi battezzati con il mio stesso cognome, sui primi testi che furono pubblicati dopo la grande eco che il ritrovamento ebbe, e non vi è da meravigliarsi data l’ imponenza del più grande dei due dolmen, della sua enorme lastra, o meglio delle sue più lastre litiche orizzontali di copertura disposte adiacenti tra loro, una rarità per tale aspetto, nell’ambito delle manifestazioni del megalitismo salentino, sin ad oggi note.
E queste foto che scattai allora, in analogico, le pubblico per condividerle a tutti, perché son FOTO PREZIOSE, PREZIOSISSIME! Perché? Perché oggi lo spettacolo suggestivo di quel complesso, così come appariva in tutta la sua verginità ai miei occhi, è stato oltraggiato volgarmente! I due Dolmen, almeno quelli, per fortuna son rimasti lì, in piedi, temuti nella loro integrità, e dunque identità, e per questo dai “vandali”, fortunatamente, rispettati, ma tutto il contesto è stato vilipeso, in così pochi anni, certamente a seguito dell’eco della notizia della loro importanza: tutti i massi megalitici intorno ai due dolmen che in queste foto vedete, e che eran sparsi per il sito, taluni anche con interessanti fori, son stati rimossi, asportati, svaniti!
L’enorme banco roccioso affiorante sulla Serra, la collina dorsale tra Maglie e Corigliano, sulla cui cresta sorgeva il complesso (in basso passa l’antica strada rurale Maglie-Corigliano), un banco roccioso a vista, esteso come in pochi altri contesti salentini così, e che accecava per il suo calcareo biancore di pietra leccese, tra le foglie dei fichi, della vite e degli ulivi, piantati in conchette di terra, è stato coperto con terra di apporto, neppure locale, svanite quelle che apparivano come altre ciste dolmeniche, qui documentate nelle foto che aggiungerò; così stesso vile destino per quelle che erano “specchie”, cumuli di pietrame minuto, ma anche talune cumuli ordinati di “chianchette” di pietra naturale lastriforme, giustapposte le une sulle altre orizzontalmente; coperto così con pietre e terra l’evidente ingresso di una grotta, cavità naturale carsica o forse artificiale o semi-naturale, pure qui documentata, che in un simile contesto quanti interrogativi culturali e di ricerca pone per i nostri archeologi!!! Una bacinella rettangolare scavata nella roccia, le tracce di cavatura arcaica lì stesso dei grandi massi e lastroni, coperti! Coperti mi auguro, perché non vorrei che qualche pazzo abbia fatto persino lì muoversi, tra i dolmen, un mezzo meccanico spietratore e spacca sassi!
Un muro di blocchi megalitici informi (tra i fondi “Plao mea” e “Plao mincio”)), sostituito con un muretto cementato di blocchi squadrati; trafugato il coperchio monolitico di pozzo, circolare con foro maniglia passante sul bordo, che era stato impiegato dai contadini per farne uno “ssettaturu”, un sedile e al contempo una cuccia (a copiata tipologia dolmenica) per qualche cane, nei pressi del trullo che ricadeva in quel fondo (nel podere chiamato “Plao mea”); trullo con la croce raggiata incisa all’ interno sulla sua chiave di volta della tholos, ancora almeno quello, come altri prossimi rimasto in loco! Sopravvissute alcune “spase” di pietrame della civiltà contadina per seccare fichi e legumi, la vela di un vecchio pozzo, e i muretti a secco dei poderi e di alcuni caratteristici terrazzamenti! E poi, persino lì, in questa manciata di anni, dopo la pace ed il rispetto di secoli di lavoro dei contadini che han preservato tutta quella magia incantevole di pietre: due abitazioni costruite nei suoi pressi, una accettabile per stile, in pietra, più accostabile ad una “case colonica”, ma l’altra uno squallore di cemento, una bestemmia realizzata scassando il prezioso banco roccioso! Colpe?! Tante! Di tutti! Anche mia che non ho vigilato, che non ho preteso…ma forse perché ero un bambino!
Ma queste foto son, se tutti lo vorremo, e tutti riconosciamo il valore e l’incanto di ciò che mostrano, pietre più dure e più pesanti del blocco monolitico più ciclopico di quel complesso, più dell’intera collina, perché ci dicono ciò che c’era, le suggestioni che abbiamo perso, ma che DOBBIAMO E POSSIAMO RIPRISTINARE, RECUPERARE, RESTAURARE ASSOLUTAMENTE!
NOTA SUL TOPONIMO “PLAO”
Il toponimo “Plao”, richiama il toponimo “Paliceddha”, (italianizzato in Palicella) presente non lontano, in feudo di Maglie, e che di origine griko-salentina, vuol dire piccola “plaka”, piccolo dolmen. La “plaka”, che diventa nel dialetto romanzo salentino, “chianca”, è la lastra di pietra, che puo pertanto, passare ad indicare la tavola di pietra e quindi il dolmen. così a Maglie un grande dolmen è chiamato proprio “Chianca”, come il toponimo della particella in cui insiste, in contrada Poligarita, e un dolmen a Melendugno è chiamato dai locali “Plaka”, in dialetto. La radice “Pla-”, echeggia la radice dei termini greci “Platea”, spazio ampio, di “Platano”, il nostro albero mediterraneo autoctono (il Platanus orientalis) dalle ampie foglie, e in contrada Plao tanto la presenza delle ampie lastre dei dolmen, quanto l’ampia distesa di nuda levigata superficie spianata di roccia calcarea carsica, dove vi erano i megaliti e che ebbi il privilegio di contemplare intatta e scoperta, ben si accordano con il toponimo griko-salentino “Plao”. Il podere Plao, era diviso nel 1993 tra due parenti, di una famiglia di Corigliano, e la porzione più grande nella parte alta della Serra, dove vi erano i due “Dolmen Caroppo”, era chiamato “Plao mea”, in griko “mea”, dal greco “mega”, che vuol dire “grande”; la porzione più piccola posta lungo le pendici terrazzate della Serra, bordata dalla strada antica Maglie-Corigliano, era chiamato “Plao mincio”, dal dialetto locale “mincio”, che vuol dire “piccolo”. L’appezzamento più devastato è stato proprio il “mea”, mentre il “mincio” è tenuto dai suoi proprietari con ben maggiore cura e rispetto per il paesaggio storico-naturale locale! Quando mi avvicinai, nel 1993, con metro, taccuino, penna, bussola e macchina fotografica per rilevare il sito, incontrai l’anziano contadino del fondo “mincio”, che fu ben lieto di condurmi nella proprietà adiacente del parente per farmi vedere i dolmen, quelle “taule de petra”, tavole di pietra, come il trullo presente nel “mea”, ma poi anche il bel trullo presente nel suo fondo, e i terrazzamenti, il lavoro degli avi mi diceva, e poi che forza da giganti, mi diceva, i nostri antenati nel costruire il grande dolmen, e mi mostrava fiero le sue grandi lastre orizzontali molto spesse, “quante persone per sollevarla!? Quanto lavoro e ingegno gli antichi!”, ma l’unico uso che lui aveva visto dai suoi padri per quelle tavole di pietra era fungere da superfici secche su cui seccare al sole d’estate i fichi, per far provviste dolci per l’inverno … quelle pietre enigmatiche avevano trovato un riciclo, un riuso, nella civiltà contadina, ed erano state così rispettate al contempo nel loro enigmatico arcaico mistero, ne avevano aguzzato la fantasia e spinto a simulazioni, laddove possibile, con lastre di pietra però meno mastodontiche di quelle, come nel sedile realizzato vicino al trullo del fondo “mea”!!!
Ci potremmo produrre un calendario pubblicitario da commercializzare, con fini da discutere?