di Massimo Vaglio
Sul cece (Cicer arietinum L.), importante e apprezzato legume, non vi è ancora una convergenza d’opinioni su quale sia stata la sua terra d’origine; infatti in assenza di un progenitore selvatico che ne attesti con una certa affidabilità l’origine, vi sono studi che lo danno originario dei territori dell’attuale Turchia, ed altri che lo vogliono proveniente dall’India. Di certo, è stato uno dei primi alimenti ad essere coltivato e consumato dall’uomo. Oggi vengono ampiamente coltivati in tutte le aree semiaride e subtropicali del mondo, con India e Pakistan che producono oltre l’80 % del raccolto mondiale.
La pianta del cece ha sviluppo cespuglioso e piuttosto contenuto; assai rustica gli si confanno il clima caldo e i terreni fertili, profondi, ma ben drenati. Teme infatti i terreni umidi e quelli molto compatti ed eccessivamente calcarei in quanto la granella viene di difficile cottura. Grazie alle sue caratteristiche di resistenza alla siccità e al caldo, ben si adatta alla coltivazione nelle regioni dell’Italia meridionale e centrale, ove il cece ha sempre costituito una risorsa preziosa ed ha supportato un’interessante tradizione gastronomica.
I semi dei ceci sono completamente edibili, hanno un elevato contenuto proteico lievemente inferiore solo a quello delle lenticchie e dei fagioli secchi, ma sono leggermente più ricchi in grassi, il che conferisce loro una consistenza particolarmente morbida e vellutata e ne fa uno dei legumi con più elevato valore energetico: 100 grammi di ceci contengono circa 350 Calorie. Molto interessante il contenuto di ferro, in quanto, uno dei principi nutritivi più scarsamente presente negli alimenti, mentre il contenuto in carboidrati è simile a quello degli altri legumi. Presenta inoltre buone quantità di sali minerali, fibre e vitamina A e C, ma soprattutto di saponine, sostanze che aiutano l’organismo a eliminare il colesterolo dall’intestino. Il tipo di fibre di cui sono ricchi hanno inoltre la proprietà di rallentare l’assorbimento degli zuccheri e quindi di mitigare l’eccessiva presenza di insulina nel sangue, tipica di chi è fortemente in sovrappeso. Ed infine, ma non ultimo per importanza hanno un ottimo potere saziante.
Nonostante l’apprezzamento, testimoniato da diverse ricette tradizionali, nel Salento, la sua coltivazione, è stata sempre piuttosto ridotta. Infatti la sua caratteristica di dare rese remunerative solo se coltivato su terreni di buona qualità (più convenientemente utilizzabili per colture strategicamente più importanti e redditizie), ne ha sempre limitato la coltivazione, anche in virtù del fatto che a differenza di tutte le altre leguminose, il cece non può essere pienamente considerato pianta da rinnovo, ovvero la sua coltura non migliora la fertilità del terreno, ma lo lascia notevolmente impoverito di alcuni elementi. Tale circostanza portò l’erudito tarantino Giovan Battista Gagliardo (1758-1823) a sconsigliarne esplicitamente la coltivazione nel suo Catechismo Agrario, l’utile Manuale di Agricoltura scritto a Beneficio dei Fattori e dei Curati di Campagna (cui al tempo era demandato anche l’onere di istruire tecnicamente i contadini) portato alle stampe nel 1793. Nelle aree ove abbondavano i terreni adatti, la produzione raggiungeva comunque livelli significativi, anche perchè i contadini pur sacrificando raramente terreno libero per la loro coltivazione, usavano seminarli alle capezzagne dei vigneti o negli interfilari degli stessi, oppure li consociavano vantaggiosamente ad altre colture.
In tutto il Salento, specialmente in passato, venivano molto apprezzati e ricercati per la loro prelibatezza i ceci di Nardò, la cui bontà è tuttora univocamente riconosciuta. Questi ceci hanno per molto tempo costituito una pregiata di merce di scambio, usata da intraprendenti mercanti per concludere vantaggiosi affari.
La loro non comune bontà deriva dal peculiare concorso di due fattori: l’utilizzo di un antico ecotipo locale di cece e le particolari caratteristiche dei terreni che gli vengono riservati. Il particolare ecotipo di cece coltivato nel territorio di Nardò produce semi minuti, di colore bianco sabbia, piuttosto lisci e con rostro praticamente assente o appena accennato. Nonostante i semi siano piccoli, le piante danno buone rese, e la granella, a dispetto dell’aspetto non particolarmente attraente, risulta all’esame organolettico, d’eccellente qualità.
Vengono seminati nella seconda decade di febbraio (i contadini di Nardò, usano seminarli in prossimità della ricorrenza del patrono della città, San Gregorio Armeno, che cade il 20 febbraio) e vengono raccolti all’inizio dell’estate, estirpando le piante, quando la maggior parte dei legumi è secca, lasciando le stesse essiccare bene in andana e quindi battendole, nel caso di piccole produzioni, oppure trebbiandole meccanicamente.
L’ecotipo in questione, ha il difetto di produrre quasi sempre una piccola percentuale di semi bruni o neri (melanici) che, se non eliminati, inficiano ulteriormente la presentazione merceologica della granella e la deprezzano sensibilmente, anche perché questi semi spuri, denominati localmente “ciutei” (aggettivo un tempo molto utilizzato come dispregiativo), solitamente risultano notevolmente più restii alla cottura. Ecco perché, sovente si rende necessaria una minuziosa e laboriosa selezione manuale.
Oltre alle ottime caratteristiche organolettiche, questi ceci offrono garanzia di perfetta cottura, ovvero risultano spiccatamente “cottoi” o “cucìuli”, termini popolari, che con il loro contrario “cutrei” stanno ad indicare una più o meno spiccata tenerezza post-cottura.
La particolare squisitezza dei ceci di Nardò è comunque in buona misura imputabile alla qualità dei terreni su cui vengono coltivati. Si tratta di fertili terre nere d’origine alluvionale, prodotte dalle piene del locale torrente Asso che, con i suoi apporti detritici, in larga misura organici, ha riempito nei millenni un’antica depressione carsica, probabilmente un’immensa dolina, originariamente presente. Mai, come nel caso in oggetto fu più azzeccata la frase latina: “De gustibus et coloribus non est disputandum”, infatti il cece nero, tanto dispregiato a Nardò, viene magnificato in altri contesti: è il caso dei ceci neri tradizionalmente coltivati a Muro Leccese o sulla Murgia Barese, in particolare a Cassano Murge, che sono localmente, e talvolta non solo localmente, ritenuti ottimi.
Notevolmente differenti da quelli precedentemente illustrati, si presentato neri esternamente e bianchi all’interno, tingono fortemente l’acqua di cottura ed hanno generalmente bisogno di due giorni di ammollo perché venga vinta la loro naturale durezza.
In origine sono stati coltivati perché essendo più duri, ma anche più fragili si prestavano bene ad essere macinati con i sistemi rudimentali in uso nelle campagne, per ricavarne mescolandoli ad altri cereali delle sorta di farine da polenta, ancora in auge la farinella, un particolare sfarinato di ceci e orzo, tradizionale di Putignano. Però, anche sotto forma di granella, questi ceci presentano delle peculiarità organolettiche abbastanza interessanti e non ultimo, a seconda delle preparazioni, creano nel piatto dei piacevoli contrasti cromatici, ragion per cui negli ultimi tempi sono stati molto rivalutati e pare che fortunatamente, sia stato definitivamente scongiurato anche il pericolo di una loro paventata estinzione.
Comunque, appare evidente, che fulvi o neri che si preferiscano, per avere degli ottimi ceci, da destinare magari alla preparazione di una delle tante amate versioni di pasta e ceci, non resta che raccomandarsi a qualche produttore diretto delle zone più vocate, prenotandone già dal periodo della semina, una buona provvista, per il susseguente raccolto.