La sculòffia

di Armando Polito

 

Bellezza, un sostantivo che in questi ultimi tempi, spesso a vanvera e senza avere noi gli attributi, abbiamo imparato ad unire, più frequentemente di prima, all’aggettivo grande sulla suggestione di un film da Oscar (non Giannino, o, forse, sì …).

Non si può negare, però, che la bellezza in tutte le sue sfumature (da quella platonica ed angelica a quella diabolica e perversa) rappresenta, nel bene e nel male, un condizionamento per noi umani. Forse nemmeno le cosiddette bestie sfuggono a questa legge naturale, se si dovesse scoprire che nel caso in cui scelgano per accoppiarsi l’esemplare più bello (ma qual è il loro criterio di bello?) lo fanno unicamente perché esso è anche il migliore per garantire la migliore continuità della specie.

Ad ogni modo sarebbe da stupidi o da ipocriti non riconoscere che, almeno al primo impatto, la bellezza fisica sfonda più di una porta, anche se, per vestire degnamente i panni della centravanti di sfondamento e per fare goal, prima o poi sarà necessario che essa sfrutti, se ne ha a disposizione e lo sa fare, il cervello.

È questo che ti fa attribuire alla bellezza la giusta valutazione, che ti fa commuovere davanti ad un quadro, una statua, un tramonto, vomitare di fronte a tutte le storture per cui prevale la funzione di richiamo sessuale e, se si è solo sexy, si può, addirittura, con le conoscenze … bibliche adeguate, sedere anche in Parlamento. Ma, se in passato queste storture coinvolgevano come soggetto passivo solo le donne, siamo veramente sicuri che da un decennio almeno a questa parte ciò non valga pure per gli uomini?

Vale, vale, tant’è che ad uno sgorbio come il sottoscritto non rimane altra consolazione di fronte allo spot di George Clooney e del “suo” caffè che uscirsene con un Sì, ma quelle mossettine le so fare pure io; e poi, a furia di ripeterle, più che Clooney mi pare Clonato; e questo suo caffè più che famoso rischia di diventare famigerato.

Sull’altra sponda c’è chi, a proposito di Manuela Arcuri, sarebbe capace di dire Sì, ma ha una pupilla più grande dell’altra di mezzo micron.

Sull’altra sponda ancora … non voglio soffermarmi.

Voglio spendere, invece, qualche parola sugli epiteti più pittoreschi riservati alla bruttezza femminile. Per la par condicio un apposito post sarà dedicato a quella maschile (il tempo di aggiungerne qualche altro ai cinquemila epiteti che ho già collezionato …). A tal proposito voglio raccontarvi un aneddoto di nuovo tipo, un aneddoto … onirico.

Contrariamente al mio solito decido una sera di recarmi a cenare nel ristorante di mio cognato Giuseppe. Non faccio in tempo a varcare la soglia che una voce femminile dà l’allarme:  Armapò [è il mio nome d’arte (?)] è qui!. Fuggi fuggi generale e in meno di dieci secondi il locale è vuoto. Non mi consola il fatto che più della metà degli avventori erano uomini . Il giorno dopo (strano, in Italia i servizi funzionano solo quando ti augureresti il contrario …) mi viene recapitata una raccomandata in cui Giuseppe mi diffida dal presentarmi in futuro nel suo locale e in più richiede un consistente risarcimento danni (e io che avevo pensato ad una cena a sbafo …). Meno male che la sola lettura della cifra ha posto fine a quell’incubo.

È tempo ora di ritornare in argomento e di giustificare la strana voce del titolo. Sculoffia è una delle tante usate per definire una donna grassa e sformata [(alias scarciòppula (=carciofo), giucculatera (=cioccolatiera), culutisporta (=culo di sporta), òccula (di origine onomatopeica=chioccia). Usarla è facile, spiegarne l’origine è tremendamente complicato, anche perché il maestro di questa scienza, il Rohlfs, si limita a rimandare a culòffia dove invita ad un confronto con il calabrese culòfra usato con lo stesso significato.

Credo che la prima cosa che venga in mente, senza essere maniaci sessuali (o, come ultimamente ho sentito dire, sensuali) sia culo e che s– abbia valore intensivo. Insomma, una formazione simile a sculacchiata che a Squinzano è sinonimo di donna volgare (alla lettera: dotata di culàcchiu, cioè di un grosso sedere che non ci pensa su due volte ad esibire), participio passato di sculacchiàre che a Nardò, però, viene usato riflessivamente col significato di abbandonarsi su una poltrona (anche nel senso traslato con riferimento, per esempio, ad un biscotto deformatosi a causa dell’impasto troppo morbido). Sì, ma togliendo s-, togliendo –culo-, mi rimane sullo stomaco un indigeribile, almeno per me, –ffia.

La strada che mi accingo ad intraprendere potrebbe essere definita serpentina … con tutti i rischi del caso.

Nel dialetto siciliano, a seconda delle zone,  Culòvria, Culòrvia, Culòfia, Culòriva, Culòrva e Culòvra è il nome della grossa femmina della natrice o biscia dal collare. Tutte le varianti prima citate terminanti in ia mi sembrano essere deformazione di un latino *colùbria, forma aggettivale (analoga all’attestata colubrìna=di serpente, da cui, attraverso il provenzale colobrina, la voce italiana che, per somiglianza, definisce un pezzo d’artiglieria, il cui calibro, all’inizio ridotto, andò via via aumentando) di còlubra2=serpente femmina. Tra di loro la più vicina foneticamente a sculòffia appare culòfia, cui sarebbe stato aggiunto in testa un s– intensivo (lo stesso di sculacchiare), mentre la geminazione di f potrebbe essere di natura espressiva.

Oltretutto la proposta mi pare in linea non solo sul piano fonetico e semantico ma anche su quello, per così dire ideologico: ancora il nome di una bestia usato da noi umani per stigmatizzare un nostro difetto …

Se tutto ciò che ho fin qui detto a proposito di sculòffia è esatto, chiedo umilmente scusa, anche a nome di qualcuno che sarà inorridito alla vista della prima foto di testa, al simpaticissimo, almeno per me, serpente; a meno che la nostra voce non abbia lo stesso etimo di scartoffia3 oppure sia incrocio tra culo e il toscano loffio=floscio, cascante  (di origine onomatopeica, la stessa di loffa=peto non rumoroso ma, presumibilmente …) e che quindi il culo, cacciato dalla porta, non rientri, con tutti gli onori, per quanto silenziosi ma non senza effetti per l’olfatto, dalla finestra.4

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/19/strinculu-c-metafore-animalesche-o-idiozia-umana/

2 Da còlubra è derivato per sincope il portoghese cobra, da cui l’analoga voce italiana. È questo un altro esempio del retaggio maschilista della lingua: il nome di un serpente velenosissimo trae la sua origine da quello che indicava in latino l’esemplare di sesso femminile. A questo punto, in pieno tempo di quote rosa e di parità di genere  (mi fa imbestialire peggio di un cobra l’idea che in Italia pure l’ovvietà debba essere sancita per legge … perché si continui a non rispettarla), ci sarebbe da chiedersi di che genere era il serpente per colpa del quale (anzi, tanto per cambiare, di Eva) a suo tempo ci giocammo l’Eden …

3 Voce di origine milanese (col significato originario di carta da gioco d’infimo valore), da scartà=mescolare le carte; fare le carte; anche scamòffia (usato pure nel senso di leziosità, ma in questa seconda accezione secondo me è deformazione di smorfia).

4 In Antonio Garrisi, Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino, 1990, al lemma culòffia/culòffa leggo: “forse dal latino culus offae culo a focaccia”. Per spiegare, però, foneticamente la –i– di culòffia bisognerebbe, tutt’al più, ipotizzare la seguente trafila: culi òffula (=piccola focaccia di culo; òffula è diminutivo di offa)>culòffla>culòffia; tuttavia anche così convince poco, data la situazione anatomica del soggetto in questione, proprio il diminutivo.

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