di Emilio Panarese
La festa di S. Giuseppe, che a volte precede di poco la Pasqua, è la prima festa di primavera, legata a ricordi di vecchie tradizioni, in parte scomparse, come la taulàte de S. Giseppe* (le tavole col ricco pranzo per nove poveri servito da una padrona devota) e le pagnuttelle benedette con la rituale massaccìciri bbullente/ca fuma de li piatti sbitterrati, consumata la vigilia e chiamata a Lecce cìceri e ttria: taglierini fatti in casa mescolati con ceci e con qualche taglierino fritto spezzettato sopra.
Altra tradizione rimasta è quella delle zzéppule (dal tardo lat. zipula), un dolce fatto di pasta, miele ed olio che ci ricorda le focacce (liba) di farro, miele e olio che il 17 marzo, nelle feste Liberalia, erano vendute per le vie di Roma in onore di Libero o Bacco. Così anche la nostra zzéppula, crespello a base di farina, uova e miele, fritto nell’olio come una volta, o, come si usa oggi, di farina, uova e crema, fritto o cotto al forno, non è se non una reminiscenza, come tante altre, di consuetudini pagane.
*taulàte de S. Giseppe: questa forma di devozione popolare verso San Giuseppe, familiare e protettore dei vecchi, è diffusa in molti paesi del Salento. Il 19 marzo le tavole col pranzo per i nove poveri, apparecchiate con ogni decoro, sono visibili dalla strada in numerose case anche non agiate, in attesa che il parroco passi con l’acqua benedetta e si consumi il pasto servito dalla padrona. Tredici erano le pietanze nelle taulàte de S. Giseppe: pampasciuni all’aceto o con acciuga, massa aromatizzata con la cannella e massa fritta, vermicelli, spaghetti al sugo con pane grattugiato, baccalà al sugo, uova fritte, sarago arrostito, grano pestato cotto, fave nette, pìttule con cavolfiore, fritti di Natale, frutta tra cui mele e arance, tòrtanu (pane rotondo di più di un chilo). Ognuno assaggiava parte delle pietanze oppure la devota donava a nove persone un tòrtanu, un litro di vino, uno di olio e un’arancia.
Le taulàte de S. Giseppe
(di Nicola G. De Donno)
Lu quatru de lu Santu a ccapumenza,
crande la barba ca pare scumazza,
cu llu Ggesubbambinu ca lu mbrazza
e rride su lla santa Pruidenzia;
la fronda ca li nvèrdica la mazza
e lli mprumette sape cce pprisenza
scusa de fiuru a lla casta stinenza;
le porte stampagnate su lla chiazza
de ogne ccasa de piccula ggente,
cu nnove puareddi ncomudati
ntornu a lla massaccìciri bbullente
ca fuma de li piatti sbitterrati:
eccu li presci toi, Santu nnucente,
maritu de parenti altulucati.
***
Il quadro del Santo a capotavola,
grande la barba che pare schiuma di mare,
col Gesù Bambino che lo abbraccia
e ride sulla provvidenza del desco;
la fronda che gli rinverdisce la mazza
e gli promette chissà che presenza
nascosta di fiore alla casta astinenza;
le porte spalancate sulla piazza
di ogni casa di piccola gente,
con nove poverelli accomodati
intorno alla pasta e ceci bollente
che fumiga dai piatti traboccati:
ecco le gioie tue, Santo innocente,
marito di parenti altolocati.
In «Tempo d’oggi», V(5),1978, per gentile concessione di Emilio Panarese e del figlio Roberto. Si ringrazia vivamente la famiglia di Nicola G. De Donno per l’autorizzazione a pubblicare la poesia del loro caro e per tutti noi indimenticabile protagonista della Cultura salentina.