di Marcello Gaballo e Armando Polito
Sgombriamo il campo, senza perdere tempo, da ogni possibile equivoco; i cumitàti, cioè gli oggetti di creta (dai vasi ai fischietti alle statuine del presepe), protagonisti, insieme con il santo, di una fiera un tempo attesissima da ogni famiglia per rinnovare soprattutto il corredo di stoviglie, non hanno niente a che fare con comitati, voce alla quale il pensiero subito vola in un paese (e ci riferiamo all’Italia) che prolifera di delegazioni, commissioni e chi più ne ha più ne metta, le quali, dopo aver proliferato, prolificano poco, anzi, il più delle volte abortiscono (e forse è un bene, visti, quando ci sono, i risultati…).
Cumitàti è una di quelle parole che nel corso del tempo hanno subito un vero e proprio terremoto; e questo fenomeno, si sa, colpisce più violentemente le zone vicine all’epicentro, nel nostro caso Nardò.
Se paragoniamo la nostra voce ad un edificio lo troveremo perciò meno malridotto man mano che ce ne allontaniamo. Fuor di metafora, lo studio delle varianti è fondamentale per risolvere il problema etimologico che ci siamo appena posto.
Gli artigiani che lavorano la creta sono cumitàri a Manduria (Ta) e cotumàri a Latiano (Br); le stoviglie di creta sono per il Tarantino còmiti a Manduria e còtumi ad Avetrana; per il Brindisino còtime a Brindisi e a Francavilla Fontana, cuètimi a Carovigno; per il Leccese còtume a Gagliano, cotime a Castro, Gallipoli, Minervino, Maglie, Otranto, Sogliano, Tricase, Ugento, còtimi a Novoli, Taurisano, Vernole, còtame a Galatina; còtimu a Salve, còtima a Calimera, a Lucugnano e a Zollino.
Tutte le voci precedenti designanti le stoviglie sono secondo il Rohlfs da un greco dialettale *kòtumon.
Le voci ricostruite ma delle quali non esiste attestazione rappresentano per il filologo l’ultima spiaggia, in attesa che qualche fortunato ritrovamento testuale (proprio come succede, con risvolti più ampi, in archeologia) confermi la sua ipotesi di lavoro. Crediamo che in questo caso per la conferma non bisogna neppure attendere: l’etimo ce lo suggerisce una parola di uso corrente nel greco classico: kotùle, che ha il significato di piccolo vaso, tazza, coppa e indica pure un’unità di misura corrispondente circa a un quarto di litro; kotùle, a sua volta, è diminutivo di kottìs o kotìs=testa.
È indubbio che ci sono rapporti strettissimi tra il ricostruito *kòtumon e l’attestato kotùle, ma altrettanto chiaro che bisognerebbe, poi, rendere conto del passaggio –l->-m-; kotìs, che è il padre di tutti, ci toglie d’un sol colpo da ogni difficoltà se pensiamo che il suffisso –mos/mon in greco è frequentissimamente usato per conferire al nuovo vocabolo (aggettivo o sostantivo che sia) un rapporto di affinità con la voce di base1. Dunque non un *kòtumon che nasce come voce indipendente ma come figlio di kotìs grazie all’aggiunta del suffisso –mon.
A questo punto è chiarissimo che cumitàri di Manduria è forma aggettivale sostantivata da *kòtumon e che il cotumàri di Latiano è derivato per metatesi dalla voce di Manduria attraverso la trafila cumitàri>*cutimari>cutumàri.
Ancora più chiaro, poi, a questo punto, che il neritino cumitàti è deformazione di deformazione, forse per influsso di comodo (già presente nel còmiti di Manduria) e, forse, pure con un ulteriore passaggio per metonimia dall’artigiano al suo prodotto.
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1 Un esempio per tutti, oltretutto perfettamente in linea con l’argomento …: etimo deriva dal neutro sostantivato (ἔτυμον) dell’aggettivo ἔτυμος/ἔτυμον=vero, dunque alla lettera significa cosa vera, significato vero; ἔτυμον a sua volta deriva dal neutro (ἐτεόν) dell’aggettivo ἐτεός/ἐτεά/ἐτεόν=vero, genuino, esatto+il suffisso –μον.