di Armando Polito
Belico e bellico sono attestati in italiano già nel XIV secolo, in prosa e in poesia: Guglielmo Maramauro, Expositione sopra l’”Inferno” di Dante Alligieri: E questo che morse al belico fu miser Guercio …; Niccolò de’ Rossi, Canzoniere, 195, 1: Fesso fos’eo enfin a lo belico; Leonardo Frescobaldi, Viaggio in Terrasanta: … colla scimitarra gli diè un colpo attraverso di sopra al bellìco che tutto il tagliò; Jacopo Alighieri, Chiose all’Inferno: … esser trafitti nel luogo prima disposto al vitale nutrimento, cioè nel bellico …; … cioè dal bellico infino alle gambe …
Il diagramma iniziale vuole solo fornire una schematica sintesi del rapporto strettissimo esistente tra vocaboli antichi e moderni ma un suo approfondimento mi consente riflessioni meritevoli quanto meno di discussione. Tra i significati che il greco ὀμφαλός assume compare anche quello di centro della terra. È questo l’epiteto dato a Delfi1, sede del famoso tempio di Apollo, dove al centro vi era una pietra (nella prima immagine l’esemplare attualmente visibile tra i resti del tempio; nella seconda una copia di epoca romana custodita nel Museo Nazionale di Delfi). Credo che la forma fallica della pietra non sia casuale ma strettamente connessa con il culto di Gaia, cioè la madre Terra, indicata dalla stessa Pizia come la prima profetessa2.
Voglio chiudere con una nota seriosa. Qualche anno fa imperversava tra le adolescenti (e non solo …) la moda (peraltro, come spesso succede in questo campo, non originale perché inventata alcuni decenni prima da Raffaella Carrà) dell’esibizione dell’ombelico, favorita anche da gonne o pantaloni dalla vita così bassa che, almeno al sottoscritto, più che ispirare pensieri lascivi, faceva sorgere dubbi sulla legge di gravità. Adesso il solito malizioso dirà che in realtà speravo che, nei casi in cui ne valeva la pena (pochi, per la verità …), la gonna o il pantalone cadesse giù …
Spero, comunque, che ora nessuno veda nell’ombelico un semplice dettaglio anatomico, cicatrice residuale del taglio del cordone più prezioso, quello che permette da sempre lo sviluppo della vita e, da qualche anno a questa parte, grazie alle cellule staminali, pure di salvarla.
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1 Pindaro Pitiche IV, 73-74: ἦλθε δέ οἱ κρυόεν πυκινῷ μάντευμα θυμῷ/ πὰρ μέσον ὀμφαλὸν εὐδένδροιο ῥηθὲν ματέρο (giunse al suo animo assennato un responso dell’oracolo pronunziato presso l’ombelico, posto al centro, della madre ricca di piante); Sofocle, Edipo re, 899: οὐκέτι τὸν ἄθικτον εἶμι γᾶς ἐπ᾽ ὀμφαλὸν σέβων (né mi reco al sacro ombelico della terra per onorarlo).
2 Eschilo, Eumenidi, 1-8: Πρῶτον μὲν εὐχῇ τῇδε πρεσβεύω θεῶν/τὴν πρωτόμαντιν Γαῖαν· ἐκ δὲ τῆς Θέμιν,/ἣ δὴ τὸ μητρὸς δευτέρα τόδ᾽ ἕζετο/μαντεῖον, ὡς λόγος τις· ἐν δὲ τῷ τρίτῳ/λάχει, θελούσης, οὐδὲ πρὸς βίαν τινός,/Τιτανὶς ἄλλη παῖς Χθονὸς καθέζετο,/Φοίβη· δίδωσι δ᾽ ἣ γενέθλιον δόσιν Φοίβῳ (In primo luogo con questa preghiera venero tra gli dei Gaia, la prima profetessa; dopo di lei Temi che, come si dice, seconda rispetto alla madre, sedeva su questo oracolo; al terzo posto, volendolo lei e senza costrizione di alcuno, una titanide altra figlia della Terra sedette, Febe; essa diede a Febo il dono natale [quello della profezia]).
In piemontese l’ombelico si chiama “amburì” e c’è n’Andvinaja, un indovinello che dice. ” Pì i lo goardo davzin, pì a dventa picinin, picinin” “Più lo guardo da vicino più diventa picccolino” certamente veniamo anche noi dall’Umbilicum
Sergio Notario
in milanese barburin
in francese nombril
Tutti discendenti, con l’intervento di fenomeni fonetici diversi, del latino “umbilicus”. In particolare: la forma francese più antica è “nomblil”, attestato nella versione in versi del Roman de Troie fatta da Benoit de Sainte-Maure tra il 1160 e il 1170; il milanese “barburìn” (penso che sia questa la pronuncia) presenta prostesi di b- rispetto al piemontese “amburì”.
Per quanto riguarda il vocalismo (u>a) di queste due ultime forme e la prostesi della voce milanese mi piace sottolineare (altro che secessione! …) che tale fenomeno compare anche nel Salento nella variante “vaddhicu”, che a Parabita ha il normale significato di ombelico ed a Gallipoli, in più, in una sorta di pittoresca umanizzazione del vegetale, quello di cuore di lattuga.
Grazie a Sergio e a Giuseppe!