di Armando Polito
Rassegnarsi alla sconfitta senza lottare non è una buona scelta e questo vale per tutte le circostanze della vita, dalla più seria alla più banale, quale può essere, ad esempio, l’individuazione, almeno attendibile, di un etimo. La parola di oggi mi tormenta da decenni e ho avuto già occasione di parlarne. Chi avesse interesse a sapere cosa nella circostanza ebbi a dire può soddisfarlo al link https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/12/16/lu-spilu-e-la-sciana/; colgo l’occasione per sottolineare come i frequenti rinvii a miei precedenti interventi non sono ispirati da quella che io definisco la sindrome politica per eccellenza, cioè l’autoreferenzialità, ma l’unico espediente a mia disposizione per evitare di ripetere, sia pure in forma più sintetica, quanto già detto.
La nuova proposta etimologica mette in campo per spilu motivazioni che coinvolgono credenze popolari molto antiche alle quali la scienza ha guardato e guarda con sufficienza salvo, poi, non darne un’eziologia certa e riconoscere come psico-somatiche tante malattie, non escluso l’eczema cutaneo.
La voglia, come si sa, è un difetto della pelle visibile solo poco dopo la nascita ma, evidentemente, in preparazione, per così dire, da prima. Il nome stesso trae la sua origine dalla credenza che il difetto del bambino sia causato da un desiderio non soddisfatto dalla madre durante la gravidanza.
Il fatto che il difetto compaia subito dopo la nascita e non più in là nel tempo è sufficiente a non farlo rientrare tra le malattie psico-somatiche, tenendo conto del rapporto strettissimo, credo non solo fisico, che si instaura tra la donna e il feto?
Tutta questa premessa per arrivare a supporre che spilu derivi dal greco σπίλος (leggi spilos). Di σπίλος, però, ce ne sono due: il primo significa roccia, scoglio, scogliera e trovare un aggancio semantico col nostro è impresa disperata; il secondo, invece, significa macchia, chiazza, impurità, vizio e il presunto figlio spilu si presta molto bene ad uno slittamento metonimico retrogrado (quasi si portasse appresso il più o meno inconscio senso di colpa della madre) dall’effetto (macchia, voglia come difetto fisico) alla causa (voglia come desiderio non soddisfatto).
Chissà come stanno veramente le cose. Intanto per oggi m’àggiu lliatu lu spilu (mi son levato la voglia) nel senso che ho voluto fare un altro tentativo e ho soddisfatto, per quanto maldestramente, la mia volontà; non certo nell’altro, negativo, con cui la locuzione è usata nel dialetto neretino (equivalente a ho eliminato in me ogni voglia) anche nell’interiezione certi spili! per stigmatizzare la stranezza o l’irrealizzabilità di certi desideri.