di Armando Polito
Chi ha, oltre ad una certa età, pure dimestichezza con la lettura di un libro saprà sicuramente cos’è il segnalibro, accessorio in passato immancabile e inserito nel corpo stesso del volume. La sua presenza col tempo divenne sempre più rara e al lettore non restò che rimediare con una striscia di carta destinata a segnalare, per lo più, la pagina alla quale la lettura si era fermata e dalla quale sarebbe stata ripresa. Non era raro, però, vedere intercalati tra le pagine più segnalibri di tal fatta ad evidenziare i passi che il lettore aveva giudicato più interessanti ed a facilitare il loro eventuale approfondimento. Come non ricordare le sottolineature che per gli studenti di un tempo (parlo di me …) più che dettate dalla voglia di mettere in risalto visivamente i punti cruciali erano inspirate dall’inconscio piacere di passare in rassegna (anzi fare fuori) il testo con delle linee che assumevano la funzione di altrettante coltellate (come se, sottolineando il testo mentre lo si leggeva, potessimo comprenderlo e memorizzarne l’essenza). E poi c’erano le note personali che, faccio un esempio, per il latino e il greco consistevano nella traduzione dislocata in punti strategici (non potendo essere interlineare perché anche ad uno sguardo superficiale l’insegnante se ne sarebbe accorto, era posta in testa o in calce alla pagine; quanti di noi hanno rischiato lo strabismo!). I libri di oggi non recano i segni di un profondo vissuto che non sia, tutt’al più, qualche macchia di caffè e in particolare i testi di latino e greco recano in calce la traduzione integrale, per cui lo studente si limiterà a sottolinearla ed a leggerla …1
Siccome, poi, al peggio non c’è mai limite, ecco l’alibi della tecnologia confusa con la moda e con il profitto (è legittimo che quest’ultimo ci sia, ma non ha il diritto di costruire nuovi bisogni per l’Umanità, che già ne ha tanti e autentici per conto suo): ho dato la mia definizione del libro elettronico, l’e-book introdotto ufficialmente nella scuola italiana dove, quando si tratta di indirizzi non scientifici, i laboratori di informatica sono usati, bene che vada, per partorire le solite stucchevoli presentazioni in PowerPoint, magari come saggio di fine anno, tra gli applausi generali e la convinzione fasulla che l’uso del pc ha raggiunto lì l’acme della sua versatilità.
Perderemo inevitabilmente il fruscio-musica delle pagine sfogliate, il piacere fisico del loro contatto, la stessa voglia di lasciare la traccia del nostro passaggio con una sottolineatura, un’”orecchietta”, una nota?
E, perduta questa possibilità, saremo attrezzati a cogliere il fascino che emana da un libro antico ed a capirne, nei limiti del possibile, il perché? E, nel caso in cui da esso emerga qualcosa di estraneo o di strano, saremo capaci di un’analisi che sia degna di questo nome?
Il lettore da tempo si starà chiedendo: – Ma questo dove vuole andare a parare? -. Chiedo scusa per il preambolo, comunque indispensabile anche in questa seconda parte, ed entro subito in argomento.
Non è raro trovare nei libri (e non solo) antichi, insieme con sottolineature e note, elementi del tutto estranei, per esempio una poesia vergata in una delle pagine bianche finali. Della cosa mi sono occupato già in più occasioni2 . Oggi, però, il fenomeno è particolarmente intrigante, soprattutto per i lati oscuri destinati forse, a meno che qualcuno non mi venga in soccorso, a restare tali.
Si tratta di un sonetto vergato, con mano diversa da quella del resto, nel foglio 41r di un’edizione manoscritta dei Trionfi del Petrarca, che passò per le mani di Angilberto Del Balzo, primo duca di Nardò, come ho anticipato nella prima parte3.
Trascrizione prosastica:
Al primo motore (cioè Dio) piacque mandar giù sulla terra un astro più splendente di Apollo (antonomasia per sole), vedendo il mondo patire un gran disastro ed esser spento ogni splendore di luce.
Ohimè, ohimè, dolcissimo Signore, perché il sole molto si grava tutto di nastro (cioè è costretto a bendarsi). Meraviglioso come il primo Maestro pose in una ninfa tanto grande splendore.
Colei è questa e fa ferme le fonti e immobili i venti, spostare i monti scoprendo col parlare quei nivei denti.
Questa col sorriso rompe porte e ponti, seconda Saba ma molto più bella, degna di principi reali e gran conti. Ma è giusto che si adonti, che io debba quell’ingrato e rigido canto nuziale (come) rovo [di cui rogo è variante toscana] ad uno (che è) per la sposa un fauno [oppure (considerando rogo verbo e deo sostantivo, apposizione di fauno): prego quell’ingrato e rigido canto nuziale per uno (che è) per la sposa dio fauno.
Metrica: si tratta di un sonetto caudato o sonettessa: alla terzina finale segue un settenario in rima col suo ultimo verso (conti/adonti) e poi un distico a rima baciata (imineo/deo).
Rientra senza dubbio nei canoni della poesia celebrativa del XV secolo con ricalchi ben dissimulati, come credo di aver documentato nelle note, da Dante, Boccaccio e, soprattutto, Petrarca.
Purtroppo, però, né a noi né a chi verrà dopo di noi saranno note le circostanze della sua scrittura, anche se gli ultimi tre versi, oggetto per me, come appare evidente, di un tormentoso tentativo d’interpretazione, farebbero pensare ad un matrimonio “forzato” o all’invidia di un innamorato respinto; ancora meno sarà noto il nome dell’autore, forse …
___________
1 E l’insegnante? Per come è la situazione attuale forse sarà soddisfatto dalla sola lettura corretta… Io, invece, andrei oltre, chiederei al ragazzo la traduzione alla lettera, visto che quella in nota di regola è libera. Sarebbe troppo lungo spiegarlo, ma voglio far notare come solo la traduzione letterale può far comprendere la struttura di una lingua e in essa la pregnanza di ogni singolo vocabolo; ne consegue che è impossibile cogliere in traduzione la profondità del messaggio se essa prescinde dalla perfetta conoscenza della lingua di partenza e di ogni sua sfumatura espressiva (che si conosca quella di arrivo, nel nostro caso l’italiano, è scontato ma succede sempre più raramente …). Il quadro che ne emerge è desolante ma temo che corrisponda alla realtà.
2 Segnalo a chi ne avesse interesse:
Di seguito una sintetica descrizione del volume, con l’ausilio di alcune immagini. Comincio con la prima di copertina, col dorso, con la seconda di copertina e col taglio.
Nel retto della pagina di guardia compare la nota di possesso: conte de ducente …
… e dopo due fogli bianchi
prima linea: Italian; seconda linea: Les triomphes de Petrarque poete Tuscan
Di seguito l’incipit (visibile in calce il timbro della Biblioteca regia)
4 Primo motore o motore immobile nella Metafisica di Aristotele è la causa prima di ogni trasformazione. Questa idea verrà adottata poi dal pensiero cristiano e troverà la sua consacrazione poetica ne L’amor che move il sole e l’altre stelle dantesco (Paradiso, XXXIII, 145). Tra gli esempi successivi e coevi almeno al manoscritto, cioè alla seconda metà del secolo XV: Se quel primo Motor che ognuno adora (Luigi Pulci, Morgante, canto XXV, ottava 148, verso 3); Perché il primo Motor tanto l’apprezza (Bernardo di Piero Cambini, Poesie, XV, v. 10);
5 Il simbolo principale di Apollo era il sole.
6 L’anastrofe qui è un vezzo stilistico non dettato da esigenze metriche. Se, infatti, la sequenza fosse stata quella normale (et di lume esser spento ogni splendore) il verso sarebbe stato sempre un endecasillabo. Si potrebbe pure interpretare di lume come seconda parte di enjembement ma in questo caso disastro di lume non sarebbe una grande immagine.
7 Tanto o me che ome equivalgono all’odierno ohimè. Nella letteratura del XV secolo è ampiamente attestato omè: Omè, Lazero mio, tutto ‘l mio core (Anonimo, La rappresentazione quando Gesù resuscitò Lazero); Giovanni Gherardi, Poesie, passim; Benedetto Biffoli, Poesie, passim; etc. etc.
8 Avevo letto inizialmente cur e in questa nota avevo scritto: “Parola di difficile lettura, almeno per me. Il primo e il terzo grafema non trovano riscontro nel resto del testo ma sicuramente, per ragioni metriche, la parola consta di una sola sillaba. Il senso in generale, comunque, credo che sia chiaro: il sole impallidisce in confronto allo splendore della donna. Il sole come metafora femminile (anche esasperata, per cui la luce della donna supera quella dell’astro) è ricorrente nel Petrarca (mi limito ai versi più noti): così costei ch’è tra le donne un sole …; s‘ella riman fra ‘l terzo lume e Marte,/fia la vista del sole scolorita,/poi ch’a mirar sua bellezza infinita l’anime degne intorno a lei fien sparte; uno spirto celeste, un vivo sole/fu quel ch’io vidi …; Una donna piú bella assai che ‘l sole (Canzoniere, IX, 10; XXXI, 5-8; XXXVII, 81-82; XC, 12-13).
Il grava mi ricorda di Dante Ma come al sol che nostra vista grava,/ e per soverchio sua figura vela (Purgatorio, XVII, 52-53) e, per il concetto, di Petrarca e ‘l sol vagheggio sí ch’elli à già spento/col suo splendor la mia vertú visiva (Canzoniere, CCXII, 5-6)”.
Ma il troppo benevolo commento dell’amico Sergio Notario mi ha illuminato e una rapida ricerca mi ha fatto scoprire che tuz col significato di tutto/tutti (dunque forma unica corrispondente agli attuali tout e tous) è voce anglo-normanna molto ricorrente; un solo esempio per tutti: il poema, appunto, anglo-normanno del XII secolo Charlemagne pubblicato da Francisque Michel a Londra per i tipi di Pickering nel 1836.
9 Petrarca, Canzoniere, LXX, 42-43: Tutte le cose di che ‘l mondo è adorno uscir buone de man del mastro eterno. La locuzione primo Mastro è in: Jacopo Bonfadio (1508-1550) , Lettere famigliari, VIII, 25: Il primo mastro de le cose belle. Torquato Tasso, Le sette giornate del mondo creato. Prima giornata, v. 96: la qual creata fu dal primo Mastro. Per i probabili riferimenti al Bonfadio e al Tasso vale quanto sarà detto per quest’ultimo in nota 12.
10 Pose. Puosse (come prima persona singolare, ma la terza non dovrebbe cambiare) è attestato nel dialetto napoletano ne La ghirlanda di Silvio Fiorillo, atto V, scena settima, v. 56: Me puosse à fa no chianto sconzolato.
11 Spagnolismo che non so spiegarmi.
12 Petrarca (XIV secolo), Canzoniere, CLVI, 5-8: e vidi lagrimar que’ duo bei lumi/ch’ àn fatto mille volte invidia al sole,/e udí’ sospirando dir parole/che farian gire i monti e stare i fiumi; Torquato Tasso (1544-1595), Gerusalemme liberata, canto II, ottava 84, vv. 1-4: Questa fa piani i monti, e i fiumi asciutti,/ l’ardor toglie alla state, al verno il ghiaccio,/placa del mar i tempestosi flutti,/stringe e rallenta questa ai venti il laccio. Per motivi cronologici, comunque, non può il nostro anonimo essersi ispirato al Tasso, a meno che la poesia non sia stata scritta molti decenni dopo la morte di Angilberto, quando il proprietario del libro era cambiato da tempo.
13 Questa immagine di potenza militaresca evoca più un carro armato ante litteram che una donna, sia pure dal carattere forte. E, se sfondare una porta significa stabilire un contatto e potrebbe contenere un’allusione al successivo paragone con la regina di Saba (promotrice di un incontro tra culture diverse), lo stesso non può dirsi della distruzione di un ponte.
14 La mitica regina di Saba viene citata nella Bibbia come una sovrana ricchissima che fece visita a Salomone per saggiarne la saggezza (nonostante l’affinità fonetica, saggiare la saggezza non costituisce figura etimologica perché saggiare deriva dal saggio1 che è dal latino tardo exàgium=peso, a sua volta dal classico exìgere nel significato di misurare; saggezza, invece, deriva da saggio2, che è dal francese sage, da un latino *sàpius e questo dal classico sàpere=sapere).
15 L’imeneo o imene1 è dal latino Hymenaeu(m), che è dal greco ͭΥμέναιος=Imeneo (una divinità), a sua volta da ͭΥμήν=canto nuziale, poi dio delle nozze invocato nei canti nuziali; Υμήν è connesso con ὕμνος=canto. C’è però, in greco l’omografo ὑμήν=membrana che ha dato vita, invece ad imene2. Quindi tra il concetto di canto (connesso con imene1 e quello di verginità connesso con imene2 non ci dovrebbe essere rapporto; ho usato il condizionale perché ὑμήν (membrana) si ricollega al sanscrito syuman=legame, la cui radice è presente nel latino sùere=cucire ma anche il canto concettualmente può essere considerato come una cucitura di pezzi.
La variante imineo appare già più volte nel Filocolo (1336-1339), nel Teseida (1339-1340) del Boccaccio e in altri autori di epoca successiva.
16 In Italia medioevale e umanistica v. VI, Antenore, Padova, pag. 342, nota 3, in cui è riportato parzialmente il testo, senza alcun commento e tanto meno interpretazione, la lettura proposta è fanno, non condivisibile assolutamente perché da un confronto grafico con le altre n emerge chiaramente che la prima presunta n è senz’ombra di dubbio una u. Ricordo che il fauno era un’antica divinità italica raffigurata con corna, piedi di capra e orecchie appuntite. Se la mia lettura è esatta è da cogliervi una contrapposizione tra la sposa (la bella) e lo sposo (la bestia).
la parola della nota 8, non potrebbe essere “tuz” invece che “cur”, il terzo grafema mi sembra piuttosto una “z” come normalmente la scrivevamo alla nostra epoca quando si raddoppiava la lettera “z”; in quanto al primo grafema se guardi la precedente parola “multo” mi sembra che possa ravvisarsi la stessa “t”…forse ho detto una grande cazzata…mi perdonerai…prendi la buona volontà…ciao Armando e grazie per tutte le delizie che ci fai assaggiare…
Sergio
Caro Sergio, la tua lettura mi ha appena portato a scoprire che “tuz” col significato di “tutto/tutti” (dunque forma unica per “tout” e “tous”) è voce anglo-normanna molto ricorrente; un solo esempio per tutti: il poema anglo-normanno del XII secolo “Charlemagne” pubblicato da Francisque Michel a Londra per i tipi di Pickering nel 1836. Altro che “cazzata”, dunque, visto che tutto sembra tornare graficamente e semanticamente! Ho già provveduto alla rettifica e ti ringrazio di tutto.
[…] Su alcuni libri del primo duca di Nardò e una misteriosa poesia (2/2) […]