di Paolo Rausa
‘Aspetti significativi della cucina popolare campana, pugliese, lucana, calabrese e siciliana’ è il sottotitolo del dotto ricettario compilato da Giorgio Cretì con riferimento a “quella parte d’Italia costituita dalle regioni che grosso modo corrispondono al territorio degli antichi regni di Napoli e di Sicilia, poi diventati regno delle Due Sicilie sotto Alfonso d’Aragona”. Questa distinzione geografica nasce da una divisione dell’Italia, non politica o amministrativa, ma dal gusto dolce che separa il centro-nord e in genere i paese freddi dal gusto piccante, ‘maru, che caratterizza i paesi del centro sud.
Giorgio Cretì ha una ‘giustificazione’ più nobile, per così dire, dovuta ai numerosi e qualificati apporti delle varie civiltà che si sono succedute nel Sud e che hanno lasciato tracce significative nell’arte, nella letteratura e nel cibo. ‘Su queste regioni – ricorda Giorgio Cretì – sono passati tanti dominatori’, dai Greci ai Romani, i Bizantini, i Longobardi, gli Arabi, gli Angioini, gli Aragonesi, i Borboni e infine… i Savoia. Gli indigeni, i Messapi, hanno accolto con malcelata generosità questi popoli che hanno tolto la libertà e lasciato qualcosa della loro cultura. Dalle olive verdi al miele i greci, dalla purea di fave alle salsicce e ai sanguinacci i romani, al cuscus arabo, alle spezie dall’Oriente bizantino, alle aringhe e al baccalà nordici, ecc. ‘Cosa abbiano portato i Savoia ancora è un mistero…’ – si chiede con leggera vena ironica l’autore. Ma andiamo con lui in cucina.
La sua premessa è una dissertazione sul gusto piccante, che domina molti piatti napoletani, pugliesi, lucani, calabresi e siciliani tanto che assume nelle varie lingue locali modi tipici di dire: uschiante, scant, forte, vruscente, ecc. Dall’amaro egli passa in rassegna il dolce della pastiera napoletana, dei babà, delle cartiddhrate, delle zeppole, dei bocconotti, ecc.
E poi le paste, le sagne, i maccheroni, il riso portato dagli arabi e accolto con diffidenza perché ‘cu lu risu nn’ura te mmanteni tisu’ (con il riso un’ora ti mantieni in piedi), i funghi della Calabria, le zuppe di pesce alla napoletana, alla tarantina, allacaddhripulina, le braciole alla barese, le salsiccie alla napoletana e alla calabrese, ilsanguinaccio alla leccese, le interiora di agnello, le gnemmariedde, le zuppe di verdure, gli ortaggi e le erbe spontanee, ‘nfucate, con crema di fave ecc., i legumi secchi definiti ‘la carne dei poveri’, Sua Maestà il pomodoro per il ruolo che riveste nei condimenti, la pizza e la pitta con passato di patate, la tavola di San Giuseppe, il 19 marzo, minimo nove portate, i formaggi, le mozzarelle, le contaminazioni nordiche con i piatti alla ‘genovese’ e alla ‘parmigiana’.
Giorgio ormai è lanciato e non si fermerebbe più se nel frattempo non fosse giunto il tempo di sedersi a tavola per gustare questo ben di Dio, frutto di una terra che resta, nonostante tutto, un giardino nel Mediterraneo, un paradeisos, alla greca. Buon appettito!
‘La Cucina del Sud’ di Giorgio Cretì, Capone Editore, Lecce, 2000, pp. 199, L. 23.000.