di Pier Paolo Tarsi
Con questa vorrei segnalare lo strano e stridente accostamento leccese tra il dirsi “Capitale della Cultura” e un “Capodanno dei Popoli” boicottato, respinto alle periferie, ridotto quasi al silenzio, privato dei profumi dei piatti del mondo, delle luci dei banchetti d’artigianato, delle note delle tradizioni musicali e delle voci della gente, delle possibilità di incontri proficui che quell’evento generava. Nel caos mondano di veglioni, petardi, abbuffate, traffico e nottate nei locali o in discoteca, il capodanno (o Festival Internazionale) dei Popoli era negli anni andati una delle rare occasioni culturali leccesi sensate e costruttive, una festa condivisa, aperta a tutti, a persone di ogni età, ceto sociale, provenienza culturale. L’evento rappresentava con semplicità oltre che un momento di piacevole divertimento anche e soprattutto un invito a concreti e pacifici propositi culturali costruttivi per l’anno che sarebbe iniziato. I suoi valori erano evidenti, schietti e da tutti condivisibili, pienamente radicati nell’ideale universale dell’incontro e in quelli salentini dell’ospitalità per l’altro: ideali incarnati con semplicità e freschezza da una festa che accomunava culture e genti che da ogni dove giungono o transitano in questo porto del Mediterraneo.
Alla festa tutti erano invitati a contribuire, apportando un tassello delle proprie tradizioni culinarie, della propria musica, del proprio artigianato, insomma una porzione qualunque di sé da offrire agli altri in un processo di immediato incontro e conoscenza reciproca, al fine di delineare un mosaico di fratellanza che avrebbe arricchito tutti in modo piacevole ed autentico, senza retoriche, senza bandiere di fazioni e senza tediose teorie dell’integrazione professate da questo o quel cattedratico, da questo o quel politico di ogni colore. Non è certo sufficiente un momento del genere per rispondere a quelle ardue problematiche attuali – se non cronachistiche – che l’incontro interculturale pone. È ovvio. Tuttavia è un grave errore credere che non sia anche necessario.
Proverò a mostrarlo con un semplice esempio. Il I gennaio 2014, al capodanno pur mesto e scuro dei Popoli, mia figlia, che ha solo 13 anni, ha potuto fare la conoscenza di Halima, una giovane marocchina (che di lavoro fa l’ottico); ha così potuto parlare in inglese con qualcuno che non fosse la sua insegnante di scuola, comprendendo, sulla propria pelle e per esperienza in prima persona, quanto sia veramente utile studiare altri idiomi per rapportarsi a chi non parla la sua lingua. Alla fine lei ed Halima si sono scambiate le mail, e forse con ciò la mia piccola ha sperimentato anche il fatto che internet non serve solo a chattare e condividere foto con le proprie amichette sui social networks, potendosene fare spesso pure un uso migliore.
Tutto ciò non sarà certo sufficiente perché lei possa comprendere la rilevanza dell’incontro e della conoscenza dell’altro o la ricchezza posseduta da Halima, ma è un passo necessario, fatto con naturalezza, con la piacevolezza di un momento festoso ed autentico, senza dispositivi pedagogici artificiosi, senza le mie ciance paternalistiche che avrebbero forse solo risuonato come un vociare noioso rispetto alla conoscenza diretta di una persona.
Non si sottovaluti poi l’importanza del connotarsi come momento di festa di un evento del genere, un evento che in quanto simbolico e festoso trascende l’ordinario, il quotidiano.
Gli incontri con l’altro in un mondo globalizzato sono di certo giornalieri, ed è ovviamente nella quotidianità che gli amministratori devono profondere i maggiori sforzi politici per agevolare la maturazione di un processo interculturale costruttivo; tuttavia la dimensione extra-ordinaria di una festa comune predispone ad un contatto di per sé gioioso, senza barriere, incline alla possibilità di una fratellanza di fondo, qualcosa che l’ordinario spesso non può concedere con altrettanta facilità.
Ecco, è senza retorica e con la forza di un esempio piccolo ma, credo, importante che vorrei difendere la rilevanza di un momento come questo, praticamente ormai cancellato dall’agenda “culturale” leccese. Un’occasione di incontro, perché possa essere tale, va fortemente sostenuta dagli amministratori: costoro non possono e non devono pretendere che siano solo i volenterosi a cercarla, hanno il dovere di fare in modo che l’occasione si offra di per sé ai più, se non addirittura fare in modo che i meno disposti al dialogo ci incappino: a questo servono le azioni politiche! Non ha alcun senso pertanto smobilitare dal centro cittadino un evento culturale del genere (culturale, e non puramente festaiolo, ossia privo di contenuti civili, come tanti se ne vedono sotto la pasticciata e abusata etichetta del “culturale”).
Non ha senso relegarlo a condizioni destinate a pochi volenterosi, magari in periferia, per la semplice ragione che proprio chi non è disposto pregiudizialmente al dialogo non avrà così modo di incontrare una Halima. Del resto, non ha senso nemmeno per Halina, me lo ha detto lei stessa, fare nuovamente un lungo viaggio a proprie spese per essere avviata verso un appartamento nella provincia (ad Aradeo) in cui vengono stipati in pochi metri quadri tutti gli artisti e gli assistenti provenienti dal suo Paese, venuti qui per offrire un assaggio della loro antica arte, dei loro costumi tradizionali, dei loro strumenti e canti a sparute persone. Le ho chiesto se sarebbe mai più tornata a Lecce, mi ha risposto che lo avrebbe fatto al massimo come turista, ed un attimo dopo, ripensandoci, ha invitato mia figlia e me ad andare a trovarla con la motivazione che forse sarebbe stato più semplice rivedersi e approfondire la conoscenza reciproca in Marocco!
E come darle torto in quel contesto? Su quali altri fatti evidenti avrei potuto contraddirla in quel momento? Tutto ciò mi è pesato come un macigno, sentendomi profondamente offeso dalla circostanza proprio in quanto salentino, ossia persona orgogliosa della radicata disposizione storica all’ospitalità della mia gente, abitante di una terra che è per definizione ponte tra i tanti popoli che nei millenni vi hanno transitato disseminando tracce confluite nella ricchezza culturale di cui oggi noi possiamo godere. Mi auguro – ed è un augurio di un buon anno di lavoro rivolto a tutti gli amministratori chiamati in causa – che questi vogliano assumersi le proprie responsabilità nell’impegno di non far morire quel che di buono questa città già aveva da offrire. Fa parte del lavoro di coloro che sono al servizio dei cittadini anche questo, così come fa parte del loro lavoro costruire e far nascere ex novo quel che di buono in questa città è sempre mancato. Vivere in una Capitale della Cultura è per noi leccesi una meta al momento remotissima, più remota di quanto lo sia mai stata francamente, non certo una realtà. E il perché di questo può mostrarlo anche un semplice esempio come l’incontro tra Halima e mia figlia, un incontro che molte ragazze leccesi non hanno avuto modo di vivere.
Buon anno di lavoro, cari amministratori, vi sono cose perdute da ricostruire, prima ancora che nuove da edificare.
Concordo con il signor Pier Paolo Tarsi rammarico, avendo ritenuto da sempre che il Capodanno dei Popoli a Lecce rappresenta un momento di conoscenza e di grande integrazione culturale tra le varie etnie che vivono ed interagiscono con la nostra cultura , nonché elemento di novità e di conoscenza. Apprendere che non si realizza più mi lascia dispiaciuto e spero che sia ripreso al prossimo anno. Ma da questo a dire che Lecce non merita il riconoscimento di Capitale della cultura nel 2019 credo che la considerazione sia a dir poco azzardata. Forse più costruttivo e utile a tutti sarebbe evidenziare, come lei ha fatto, l’importanza di tale evento e fare in modo che lo stesso sia ritenuto uno dei momenti qualificanti da inserire nel programma Eutopia, magari arricchendolo con altri eventi squisitamente culturali.Una mia considerazione il Salento con Lecce capofila ha titolo a diventare Capitale della Cultura 2019 sta a tutti noi incoraggiare e formulare stimolanti proposte a chi sta lavorando per raggiungere l’ambito riconoscimento
Gentile Peppino, la ringrazio molto per il suo intervento, che mi permette peraltro di chiarire che in realtà non la penso tanto diversamente da lei: il mio è infatti da intendere come un invito, spero costruttivo, a lavorare per raggiungere proprio quella meta, forse nel 2019, o forse in un futuro un po’ più in là, chissà. Ho solo cercato di mettere in luce uno dei percorsi (non certo l’unico, ci mancherebbe) che vanno battuti con decisione proprio per allinearsi a quell’obiettivo, un percorso purtroppo oggi, paradossalmente, quasi estinto (ed è quanto appunto mi premeva di denunciare).Infine, mi lasci dire (e non è merito mio, ma delle persone che più vi contribuiscono, tra le quali non figuro) che uno degli scopi di questo sito (e della Fondazione tutta in realtà) è proprio quello di lavorare per un’elevazione della cultura nel Salento, più che per i riconoscimenti, che in fondo contano meno della realtà quotidiana in cui viviamo. Un caro saluto, e grazie ancora.
Pier Paolo
Parlare di cultura mi sembra opera sempre più misteriosamente ardua, difficoltosa. Si parla di un diamante con variegate sfaccettature. Tutte da tenere in seria considerazione, tutte da amare, tutte da costruire, in fondo. Non sono mai stato fra i detrattori di Lecce capitale di cultura, ne scrissi a suo tempo. Certo, avrei preferito Salento capitale di cultura, un abbraccio fra Taranto, Brindisi e Lecce per meglio comprendere, leggere, guardare, osservare un insieme tanto diverso e tanto uguale. Così non è stato, pazienza. Ora però mi trovo a voler difendere (da non leccese e non salentino) questa candidatura. Porrei però dei paletti, inclusione innanzitutto, di ogni forza e di ogni persona che voglia fare, dire, proporre. Ascoltare quello che viene dalle associazioni, dai gruppi, da chi vive la città ogni giorno. Ascoltare e soppesare attentamente ogni sensibilità. Se non si riesce ad amalgamare tutto quanto sarà una sonora (un’altra) sconfitta. Se la regia della candidatura guarderà alcuni orticelli lasciando perdere il resto non vale la pena veramente. E parlare di cultura non significa solo dire del barocco e della pizzica, piuttosto dire di una città vivibile, di viabilità, di ambiente, di centri storici senza auto invadenti ed invasive, di trasporti, di raccolta differenziata. Una città capitale di cultura non ha il diritto di esimersi dalla valutazione della vivibilità della città stessa. E c’è il problema citato di Pier Paolo, non è questione di bon ton, anzi, è una caduta verticale. E’ un segnale inquietante che porta spontanea la domanda: saranno in grado di gestire un’operazione complessa come quella di capitale della cultura se partono da questi presupposti? Capitale di cultura non significa fare una bella manifestazione lasciando tutto come stava, una botta e via, significa avere delle culture una visione il più ampia possibile.