di Paolo Rausa
Nel primo romanzo di Giorgio Cretì, “L’eroe antico”, pubblicato nel mese di giugno 1980, ci sono delineati già tutti gli elementi che confluiranno nella sua successiva produzione letteraria: la fierezza di un mondo contadino umile e semplice, che vive di poco, dai sentimenti elementari; il paesaggio salentino di erbe spontanee che si accompagna alla descrizione del lavoro nei campi frutto di una agricoltura millenaria e rimasta cristallizzata nei gesti e nelle movenze; la fatica del vivere tipica di una cultura povera di tutto ma che trova nella tradizione la forma di sopravvivenza alle condizioni subalterne nei confronti dei proprietari terrieri e delle autorità civili e religiose. Eppure sono proprio le condizioni generali di umanità derelitta a intenerire l’autore che partecipa di quella esistenza, rivendicando i frutti della civiltà legata alla terra, intuendo con anticipo il rischio della scomparsa di quel mondo che si era mantenuto nella sua purezza primigenia nei secoli dei secoli. Concetti che saranno ripresi successivamente nel romanzo ‘Pòppiti’ del 1996, che già nel titolo ricorda la condizione dei contadini, così denominati con un certo disprezzo dai cittadini del capoluogo salentino. L’autore con questa denominazione rivendica un mondo essenziale, di cultura legata alla terra, ne esalta i colori variopinti nella descrizione della natura che provvede con le erbe e malerbe a nutrire spontaneamente e a curare (‘Erbe e malerbe in cucina’ è del 1987). Quella cultura trova conferme nella pubblicazione di saggi e ricettari sulla cucina popolare salentina: un Glossario dei termini gastronomici, compresi i vocaboli dialettali, stranieri e gergali, Il Peperoncino, La Cucina del Sud, Il libro degli ortaggi e delle verdure selvatiche, La Cucina del Salento e infine una incursione nella gastronomia popolare ligure con ‘U prebuggiùn de Tregosa’. Un interesse quello di Giorgio Cretì per il mondo rurale veramente significativo, se già appunto con il primo romanzo il protagonista, Antonio Carotta, meglio conosciuto come Uccio, è l’eroe eponimo di una saga che si svolge tra campagne, uliveti, raccolte del grano e lavorazione nei ‘trappiti’, luoghi infernali ipogei dove si sa quando si entra e non si sa quando e come si esce. La vita si snoda tra levatacce per la raccolta delle olive o tra sieste nei meriggi assolati alle prese con la mietitura sotto l’ombra di un fico o di un olivo o di una quercia, cercando e trovando lo sguardo di una fanciulla innamorata che prelude, ma nulla di più. E poi le migrazioni interne da Capriglia, una masseria sulla costa a sud di Otranto nei pressi di S. Cesarea Terme, sino alle fertili pianure di Sava e di Manduria a nord del Salento per portare cibo, ambasce e resoconti delle famiglie ai lavoranti, ma c’è anche tempo di soste in vecchie osterie dove può accadere di sperare in un caldo abbraccio con l’ostessa, senza possibilità però di costruire un ponte sul futuro. La fatica è inenarrabile. Dentro questa vita, autentica, non vi è neppure la schiarita di un sentimento vissuto nella pienezza, solo la morte e il rimpianto di una esistenza trascorsa nella speranza di un accomodamento affettivo e sociale. La tradizione dei cibi e il rigoglio delle messi e della natura rendono quel mondo magico fuori dalla storia, in cui precipita quando gli avvenimenti esterni incombono e chiedono il loro contributo. ‘Il romanzo ha il sapore, e anche il fascino, delle cose antiche’ dice Donati Valle nella introduzione, a condizione però che si inquadri l’opera di Giorgio Cretì nel progetto di fissare quel mondo in una visione senza tempo, pervasa dalla nostalgia dell’innocenza, ma appesantita dalle condizioni di abbrutimento sociale. “L’eroe antico” di Giorgio Cretì, Edizioni Virgilio, 1980, Milano.