Amleto Sozzo mi ha fatto leggere, su mia richiesta, 101 fogli di poesie, più un abbozzo di copertina dove è scritto: Un uomo è bello nel perdono.
Premessa doverosa: non sono critico letterario, sono solo una persona a cui piace leggere poesie quindi non farò una lettura ermeneutica delle sue poesie ma ne farò un florilegio, una scelta personalissima di versi e immagini.
Appena ho letto quelle pagine ho pensato che in quelle pagine era l’uomo Amleto. Lo conosco da circa un anno, l’ho incontrato in una situazione anomala, cioè quella di un café-philo. Non so se ha studiato filosofia a scuola,ma ho visto che ha sicuramente una sensibilità filosofica, perché filosofia non è conoscenza di sistemi e di cattedrali del pensiero, ma è ricerca di senso. Tra l’altro, potremmo avere in quei versi anche alcune indicazioni di fonti filosofiche: «figli di parmenide e zenone/ cantati da euripide e sofocle/ quanta bellezza avete creato/ con le vostre vanghe». Filosofia e lavoro, filosofia e scrittura e lavoro materiale, lavoro sulla natura. Ma, per non farsi scambiare per filosofo, Sozzo ci avverte subito che «l’ironia è la parte nobile della filosofia».
Lo stesso autore, quindi, spiega le proprie motivazioni: «canto per chi è triste/ e canto anche per me/ canto per chi ha paura/ e questo vale anche per me». Come si vede, questa poesia non nasce con presunzioni sacerdotali ma nasce con funzioni laiche e, perché no?, liberatorie per lo stesso soggetto che la declina.
Anche il dialetto è usato, ma con estrema discrezione e misura, quasi come una cadenza che serve a ricondurci in contesti esistenziali antichi e, talvolta, si coniuga in composizioni che in gran parte sono nell’idioma italiano.
Nei suoi versi ho ritrovato la sua casa, che è il suo mondo, il suo amore per i viaggi, non come divertissement, ma come occasione per conoscere le altre terre, le altre culture, gli altri uomini, anzi: l’uomo. Quelle pagine sono un’autonarrazione. Anche per questo mi hanno sorpreso e le ho apprezzate perché io sono convinto che l’esistenza di ognuno di noi sia un’autonarrazione.
Non manca, in queste composizioni, la presenza della sua compagna spesso a cui si allude talvolta in maniera diretta: «Dirò a tutti quanto sei bella/ dirò a tutti quando vedrò una stella/ del nostro mandorlo in fiore».
Una formula che Amleto usa spesso è la ripetizione o di singoli termini in sequenza o di assonanze. Diamo solo due dei molteplici esempi che si dovrebbero fare: «terra piena» che introduce tutti i nove versi di Terra della mia infanzia e beddha che apre i quattro versi della poesia che ha lo stesso aggettivo per titolo, come Quando che è titolo e primo termine dei sei versi.
Ma qual è il ruolo della scrittura? Chi scrive? Perché si scrive? Leggiamo: «poesia e fiocchi di neve sul davanzale/ scrivere è una professione/ il poeta non sa scrivere/chi percepisce ha tanti modi per comunicare/ verso il finire della giornata». Qui il racconto, l’autoracconto è un consuntivo della singola giornata come dell’intera esistenza. In questa logica è anche Nessuno mi detta, dove leggiamo, tra l’altro: «verso tanto per dire/ parole ne ho già sentite tante/ quasi sempre ero assente/ assenteista di professione». Ma assente da che, da cosa? Non certo da una vita piena di poche amicizie ma vitali, di colori, di presenze di animali e di piante, di pochi affetti ma profondi e decisivi.
C’è sicuramente l’esigenza di una confessione o autoconfessione laica che non può non richiamare, in chi legge filosofia, l’impegno della spagnola Maria Zambrano che dedicò buona parte del proprio impegno alla «Confessione come genere letterario».
E qui, in queste poesie, il tessuto e la trama sono un modo per «capire chi siamo in un solo momento! distrarsi per chiacchierare con un amico/ vicino o lontano o se arriva con qualcuno/ tanto per non stare a digiuno/ seguire i consigli di chi è nato per parlare».
Troviamo spicchi di saggezza umile, termine che non vuoi catalogare la qualità dello scritto, ma lo uso perché non ci sarebbero quei versi se non parlassero della terra, cioè dell’humus che la costituisce e ci costituisce: «ho visto terre umili piene di poesia/ curate dai nostri padri/ ho percorso sentieri di rovi fioriti/ che hanno rallegrato i miei pensieri».
Il rapporto con gli altri, mediato dalla propria coscienza, è fondamentale e riconosciuto: «bussa continuamente/ porta dopo porta/ speranza dopo speranza// bussa continuamente/ coscienza dopo coscienza/ strada dopo strada».
Come idea finale io metterei questa che dice tutto dell’uomo Amleto Sozzo: «ma come faccio a dire a mia madre/ che invece di poesie produco melagrane?/ lei amava tanto vedermi sistemato come un poeta». Naturalmente il «sistemato» sta ad indicare la condizione economica. Ma anche Quasimodo, premio Nobel per la letteratura, aveva scritto una poesia/lettera a sua madre e aveva parlato della povertà dei poeti: «So che non stai bene, che vivi/ come tutte le madri dei poeti, povera/ e giusta nella misura d’amore/ per i figli lontani».
La povertà dei poeti può essere povertà materiale, ma è soprattutto quella humilitas di cui la poesia di Amleto ci ha fatto parlare prima.
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