di Armando Polito
L’immagine di testa sarà pure scontata ma preferisco di gran lunga Giotto al G8. E, dopo questo battuta da premio Ignobel, passo subito ai proverbi.
Divenuto obsoleto nell’epoca del cosiddetto benessere e dei correlati consumismo, sperpero, apparire, il detto è tornato ad essere prepotentemente attuale ai giorni nostri. Il nihil sub sole novum (niente di nuovo sotto il sole) e i famosi corsi e ricorsi storici del Vico che qualche cinico, spacciandosi per realista, ha già messo in campo con la rassicurazione di un futuro migliore che sarebbe dietro l’angolo di casa e non, come quello cristiano, del cielo, non servono certo a consolare le vittime della situazione, meno ancora a risolverla. Quel cinico (con valore collettivo …) al quale chi ci ha creduto ha conferito (ammesso che il conferimento ci sia stato e sia stato legittimo …) l’onere di rappresentarlo dovrebbe almeno, in un sussulto di rispetto per gli altri e per se stesso, rinunziare a lanciare i soliti melensi messaggi di ogni fine d’anno. Alle banalità snocciolate una dietro l’altra le persone, quelle serie (e tra queste sicuramente e soprattutto coloro che nemmeno a Natale mangeranno carne), gradirebbero il silenzio.
Il senso letterale dell’ultimo proverbio mi è chiaro, quello profondo meno. L’unica spiegazione di cui sono capace è di natura etimologica (e ti pareva! …). Sabbat in ebraico significa cessazione dal lavoro e i contadini di un tempo onoravano rigorosamente solo la domenica ma lavoravano dall’alba al tramonto (e qualcuno, come vedremo, anche oltre) nei restanti giorni della settimana. Nel leopardiano Il sabato del villaggio questa realtà è impersonata dalla donzelletta che vien dalla campagna in sul calar del sole (e in campagna non si era certo recata mezzora prima a catturare farfalle col retino …), dal riede alla sua parca mensa, fischiando, il zappatore e da odi il martel picchiare, odi la sega del legnaiuol, che veglia nella chiusa bottega alla lucerna, e s’affretta, e s’adopra di fornir l’opra anzi al chiarir dell’alba. Insomma, quando il pane bisognava guadagnarselo quotidianamente, se il Natale cadeva di sabato si era obbligati a non lavorare per due giorni consecutivi; perciò, per poter mangiare, era necessario vendersi il cappotto.
Anche questo detto, purtroppo, è ritornato attuale e, pensando a chi non riesce più a procurarsi giornalmente un tozzo di pane, sono costretto a ribadire le riflessioni ispiratemi dal primo. Sarebbe bello che in tempi brevi entrambi ridiventassero, almeno parzialmente, obsoleti; l’ironia del destino ha voluto, però, che fosse il secondo a diventarlo, forse per sempre, con i nefasti cambiamenti climatici in atto.
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1 Per l’etimo di ccambarare vedi la nota 1 del post in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/26/tre-antichi-detti-pasquali-e-squillano-le-diverse-campane-etimologiche-2/
2 Per l’etimo di muttulosa e per il commento all’intero detto vedi la nota 4 dello stesso post al link prima indicato.
3 Credo che qui cappa (indumento dei nobili e degli ecclesiastici) stia nel senso toscano di cappotto. La scelta può essere stata indotta, forse inconsapevolmente dal fatto che cappotto (in dialetto cappottu) è accrescitivo di cappa e che in un comune giudizio di valore è più facile che prevalga la quantità sulla qualità e non viceversa. Non escluderei anche un’insospettabile ma istintiva raffinatezza metrica per fare in modo che anche il secondo verso fosse, come il primo, un endecasillabo (con dialefe, cioè considerando, così come si vedono, due sillabe distinte la –a di cappa e la successiva e). C’è da dire che il verso sarebbe lo stesso stato un endecasillabo con cappottu al posto di cappa, ma in questo caso si sarebbe dovuto fare i conti con la sinalefe, cioè considerare un’unica sillaba la -u di cappottu e la successiva e, operazione meno semplice e intuitiva della prima.