di Paola Cattaneo
Questo libro di Paolo Vincenti, La bottega del rigattiere, è uno spazio aperto, percorribile su diverse direttrici, dall’inizio alla fine, dalla fine all’inizio, dove ogni capitolo (per altro autonomo) è un rimando all’altro, perché il cammino intrapreso ritorna circolarmente su se stesso e il senso di una parte si arricchisce della visione del tutto. Il libro è costruito come una sorta di diario canzoniere personal-universale, dove vengono chiamati a raccolta molti dei topoi tipici della letteratura occidentale, il doppio, il diverso, l’apollineo e il dionisiaco, l’essere e il tempo ed esplicitamente si dichiara, quasi in ogni capitoletto, l’omaggio a un poeta o a un cantautore. Immediatamente il lettore viene precipitato in un mondo senza confini o coordinate spazio-temporali, sovrappopolato di fantasmi reali e immaginati, di presenze archetipiche, di riti collettivi, di luoghi simbolo. E così tra le pagine scorre il tempo della poesia occidentale, dalla grecità ad oggi, insieme al tempo sconnesso della vita reale, dove ogni tentativo di ordine e la ricerca di un senso sembra franare nel caos primigenio e tuttora contemporaneo della nostra società. Il testo, nell’insieme, assume le sembianze di un corpo pensante dadaista, surrealista, rapper, che si muove tra le pagine e documenta, nell’oggi, la banalità del caos, la perdita d’orientamento, la fuoriuscita strabordante e artificiale di informazioni ed eventi, denunciando come impraticabile la capacità o la possibilità di argomentare e di elaborare un pensiero coerente e coeso. Siamo ancora quelli “della pietra e della fionda” (Vincenti cita Quasimodo), e qui mi sembra molto ben rappresentata l’immagine dell’Italia e dell’italianità, l’humus di questa terra che ab origine sprofonda e risorge tra alti ideali e basse urgenze, dondolandosi tra slogan pubblicitari e canzoni nazional-popolari, tra Dante e Leopardi e gli spaghetti western. Ma in questa cornucopia di opposte pulsioni e di contrasti quasi drammatici l’autore avverte anche l’urgenza di far ridere, ridere di pancia, a crepapelle, come ad esempio in “Troy”, in “Psico-labile forever”, in “La mia libertà”, monologhi esilaranti, divertentissimi nei continui giochi di parole, nelle assonanze, tra bisticci ed allitterazioni. Tutto il libro esprime il gioco della lingua, le risorse espressive ed allusive di una sorta di scrittura automatica, di delirio organizzato. E’ un libro ben meditato nella sua composizione, dove si alternano diversi toni ed andamenti, con continui passaggi di registro. Andrebbe letto od ascoltato ad alta voce, per assaporarne al meglio la lingua, le sonorità, il ritmo, la pasta e l’impasto delle parole, le sue continue glissades tra alto e basso, aurorale e notturno, antico e avanguardista. La lettura ad alta voce permette infatti di cogliere non soltanto l’aspetto semantico della parola, ma quello ostensivo, “gestuale”, direbbe Merleau Ponty: il gesto vocale fa improvvisamente apparire dal nulla qualcosa di inaudito e quel qualcosa è immediatamente “per tutti”, da tutti percepibile. Le parole, come sapientemente esprime questo libro, non sono soltanto manifestazione di un significato, veicolo di un pensiero, ma sono contemporaneamente emozione musicale, colore, odore, tatto… La bottega del rigattiere è uno scrigno ricco di sorprese, è un atto d’amore per la poesia, dove ognuno può forse riconoscere un angolo della propria storia (e delle proprie letture) ed aprirsi ad accogliere l’invenzione di un orizzonte.