di Armando Polito
Il laùru1 era un dispettoso folletto che imperversava nei racconti popolari con qualche testimonianza di esperienza diretta fino alla metà del secolo scorso. Invito chi voglia saperne di più sulle sue gesta a leggere il contributo di Rino Duma, pubblicato su Il filo di Aracne2, anno III n. 1, gennaio-febbraio 2008, pp. 15-17, dal titolo Il fantastico mondo del Lauri, ove l’autore mette a confronto questi ultimi, evidenziandone analogie e differenze, con i Lari e i Lemuri.
Debbo, però, muovere al lavoro un appunto di fondo perché Lauro e Lauri sono scritti costantemente senza accento, il che autorizzerebbe a leggere, rispettivamente, Làuro e Làuri. Ora, solo sulle parole piane non c’è bisogno, per convenzione, di segnare l’accento e la sua assenza può essere tollerata anche in casi in cui l’equivoco è impossibile a verificarsi per via del contesto: per esempio, il caso di àncora e ancòra. Con le parole dialettali si può fare a meno di segnare l’accento solo nel caso di parole piane, ma, forse, per quanto dirò, per evitare equivoci e conclusioni arbitrarie e catastrofiche, sarebbe opportuno segnarlo sempre. Nel caso di Lauro/Lauri, infatti, non vedendo, come avviene nel contributo del Duma, alcun accento, io sono autorizzato a leggere Làuro/Làuri considerando au dittongo. In realtà la voce dialettale ad indicare il nostro folletto è laùru che è parola di tre sillabe (au non è dittongo) e che, quindi, potrei anche scrivere lauru perché, in fondo, al pari dell’altra, è piana. Insomma, l’assenza di accento rende impossibile ad uno che non sia di madre lingua dialettale essere sicuro della reale pronuncia; da qui il mio suggerimento di segnare sempre l’accento tonico.3
L’importanza di questo accorgimento emergerà prepotentemente da quanto ora dirò. Il Duma, a proposito dell’etimo di Lauro/Lauri, così scrive: La connessione dei nostri Lauri con i Lari è dovuta più che altro alla somiglianza dei nomi. Infatti, se per sincope, si elimina dalla parola italiana la lettera “u”, si ottiene quella in uso nel mondo degli antichi romani. Ma vi è un altro aspetto, non meno importante, che unisce i due termini. Si tratta dell’alloro (o lauro), pianta sempreverde sacra al dio Apollo, molto venerato dai Latini e, probabilmente, legato alle feste Lemularia. I nostri Lauri, o anche Auri, sono spiritelli, a volte dispettosi, a volte benevoli, che amano vivere in campagna e trovano rifugio tra le fronde dell’alloro, prendendo da quest’alberello il nome. Con il trascorrere dei secoli, però, l’identità dei Lari andò via via scontornandosi, acquisendo caratteristiche ben diverse da quelle originarie di “numi tutelari”. Quasi certamente, con l’avvento del Cristianesimo, la loro sacra figura fu messa al bando, venendo definitivamente soppiantata da immagini sacre di madonne, di santi ed angeli. Furono, invece, mantenute in vita le “energie negative”dell’antica tradizione latina, le larvae. Anche queste, nel tempo e presso le varie genti, subirono continue manipolazioni ed alterazioni sia nella funzione sia nell’aspetto. Fu così che le Larvae si trasformarono da spiriti inquieti (Phantasmata) in entità corporee, sino ad assumere una conformazione umana, molto vicina a quella di un piccolo nano.
Dopo aver corso il pericolo di affermare che i Lari sarebbero dei Lauri dimagriti o che, più probabilmente, questi ultimi sono dei Lari ingrassati, il Duma, per far derivare lauru da alloro, s’inventa la storiella dell’albero tra le cui fronde questi esseri troverebbero riparo e formula l’ipotesi (basata su quale fonte?) che Apollo fosse legato alle feste Lemularia, facendo capire, anche se non lo dice espressamente, che, secondo lui dopo il rapporto anoressico-bulimico tra Lari e Lauri ce ne sia uno, non si sa di che tipo, tra questi e i Lemuri. Per completare, poi, l’orgia di queste entità inquietanti mette in campo pure le Larvae come se alcuni fonemi in comune e generici contatti semantici bastassero a rivendicare collegamenti arbitrari tutti figli della semplicistica, strumentale osservazione iniziale “Se per sincope si elimina dalla parola italiana [làuro] la lettera u si ottiene si ottiene quella in uso nel mondo degli antichi romani [Lari]”4. L’articolo del Duma risale al gennaio-febbraio 2008 (legittimo ipotizzare che sia stato preparato con largo anticipo) ma comincia a dare i suoi frutti perché in un articolo sullo stesso tema a firma di Angelo Nacci del 2/4/2011 all’indirizzo
leggo: … Lu laùru [a conferma, bisogna riconoscerlo, della corretta pronuncia] è uno spiritello dispettoso che agisce esclusivamente di notte mentre di giorno vive nascosto tra le foglie del làuro, dal quale appunto deriva il nome.
In data 20/10/2013 Tania Pagliara, poi, in http://www.iltaccoditalia.info/sito/index-a.asp?id=24641 riprende il dettaglio della derivazione di laùru da lauro o alloro per risolvere a modo suo un paradosso che l’angustiava da anni e per fare, sempre a modo suo (il lettore può giudicare leggendo l’intero contributo all’indirizzo che poco prima ho citato), un fritto misto del nostro folletto, del papavero e della papagna con la botta finale dell’immancabile grande madre.
Ma è possibile che nessuno abbia fatto caso al fatto che il folletto nel dialetto salentino è laùru, l’alloro làuru? Certo, chi si avventura in percorsi etimologici che seguono i crismi della paretimologia (in ultima analisi, senza che da parte mia ci sia intento offensivo, della suggestionabilità e dell’ignoranza popolare) e non della filologia (in ultima analisi della scienza) non può credere che la posizione di un accento sia un dettaglio di estrema importanza; perciò per lui è facile (per giunta è convinto che le cose stiano veramente così e, di conseguenza, si guarda bene dall’usare il modo condizionale o avverbi come forse e probabilmente) affermare che laùru e làuru hanno lo stesso etimo.
Così il Duma s’inventa la storiella dell’alloro-rifugio, il Nacci la riprende e la Pagliara pensa bene, dopo la pestifera pozione confezionata con la papagna in un altro suo contributo, di rincarare la dose associandoli, insieme con l’alloro, al laùru.
Se certe conclusioni restassero limitate all’ambito di appunti personali non farebbero alcun danno (o lo farebbero solo se il loro autore o, dopo la sua morte, qualche erede decidesse di pubblicare siffatte scoperte); oggi, però, c’è la rete che ha moltiplicato in maniera esponenziale le possibilità di ampliare la conoscenza ma anche il rischio di imbattersi in mastodontiche bestialità, per giunta spacciate come verità, da sedicenti studiosi e il copia-incolla, poi, simbolo della passività cerebrale dei nostri tempi, provvederà alla loro diffusione.
Se si dovesse applicare il metodo adottato nei due esempi sopra riportati (che trova l’apice della sua vergognosa celebrazione in quel santuario di banalità (quando va bene!) che è questo o quel social network, dove il mancato rispetto dell’ortografia e della grammatica, la superficialità e il pressappochismo sono elementi assolutamente fondanti, dovremmo giungere alla conclusione, riprendendo l’esempio già fatto, che àncora e ancòra hanno la stessa etimologia.
E allora? Ritengo che in ogni ricerca non si possa prescindere dalle proposte avanzate precedentemente da studiosi qualificati, e non, eventualmente, da dilettanti e ciarlatani (non è detto, poi, che i primi siano in totale buona fede …).
Per il Rohlfs5 laùru è da un latino volgare agurium=augurium. Tra le varianti non letterarie risultano riportati un laùre per Carosino (TA) ed il nesso laùru di notte col significato di pipistrello per Mesagne (BR), nesso su cui tornerò fra poco. Ora debbo aggiungere che agurium è voce attestata nel latino medievale6 e la trafila dovrebbe essere stata aguriu(m)>l’aguriu>l’aùriu (lenizione di g)>l’aùru (scomparsa della i forse per influsso di aucurare)>laùru (agglutinazione dell’articolo). La difficoltà della scomparsa della i può essere superata ipotizzando che laùru sia derivato direttamente da acurare attraverso la seguente trafila: acurare>acùru7>l’acùru>l’auru>laùru.
Torno alla locuzione laùru di notte per dire che essa fa il paio con un’altra: ceddhu ti male aucùriu o ceddhu ti morte (uccello del cattivo augurio o uccello di morte) riservata al cuccumìu8 (barbagianni). E mi piace chiudere col ricordo di questo grazioso uccello vittima, insieme col lupo e tanti altri animali, della nostra stupidità.
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1 Riporto qui gli etimi delle varianti ricordate nella vignetta:
a) SCIACUDDHI per il Rohlfs (Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976, pag. 609, lemma sciaguddi) è da un greco*σκιαούλιον (leggi schiaùlion]=piccolo spettro, diminutivo del greco σκιά [leggi schià]=ombra, fantasma, con influsso di agurium (augurium). La proposta mi sembra un po’ macchinosa, anche se non ho da farne una mia.
b) MONACEDDHU (come MUNACEDDHU, che è la variante di Nardò) è diminitivo di monaco.
c) SCAZZAMURRIEDDHU è composto da s– intensiva+cazzare=schiacciare+il diminutivo del germanico mahr=incubo.
d) CARCAGNULU è diminutivo di carcagnu=calcagno, con evidente riferimento, già semanticamente contenuto nella voce precedente, all’abitudine del folletto di sedersi e premere o calcare coi talloni sullo stomaco del malcapitato di turno (reo, secondo il mio punto di vista, di aver fatto fuori un piattone di peperonata o simili prima di andare a letto …).
2 Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino Athena di Galatina. Esemplare l’iniziativa di digitalizzare la rivista, i cui numeri sono integralmente leggibili all’indirizzo http://www.circoloathena.com/rivista-il-filo-di-aracne/
3 Che la pronuncia esatta comporti la grafia laùri lo conferma Giuseppe Gigli, Superstizioni, pregiudizi, credenze e fiabe popolari in Terra d’ Otranto, Tipografia salentina, Lecce, 1889 dal quale ho tratto l’immagine sottostante. Oltretutto il Gigli fa derivare laùru da Lar (senza minimamente porsi scrupoli filologici di carattere fonetico), operazione che, come vedremo, farà anche il Duma.
La grafia laùru sarà ripetuta dal Gigli un anno dopo in un articolo sul tema apparso su L’illustrazione popolare, del quale riproduco (v. XXVI, E.Treves, Torino, 1890) di seguito la parte iniziale.
4 Se questa metodologia fosse corretta si sarebbe potuto invocare a supporto quanto si legge nel glossario del Du Cange (op. cit., tomo V, pag. 32) al lemma LARVAE, che, corredato della mia traduzione, riproduco di seguito fotograficamente per fare più presto.
5 Op. cit., pag. 288, lemma laùru.
6 Du Cange, op. cit., tomo I, pag. 150, lemma agurium.
7 Augùro è attestato nella letteratura del XIV secolo (Jacopo della Lana, Commento alla Divina Commedia, passim; Niccolò De Rossi, Canzoniere, 317, 2) e del XV (Giovanni de Mantelli di Canobbio, Versi d’amore, 28a, 14).
8 La voce, di indiscussa origine onomatopeica, nella paretimologia viene interpretata, umanizzandola, come tutto mio! (con chiara allusione all’idea della morte da sempre associata agli uccelli notturni).
Leggo sempre con molto interesse i vostri articoli : grazie ci fate conoscere tanti aspetti della nostra terra sconosciuti. Le laure basiliane Hanno attinenza con l’argomento di oggi?
Bravissimo, bel pezzo. Annoto cher anche nel profondo nord, al mio paese, esisteva un folletto caduto in disuso, il Laurè (e finale accentata). Il mondo è piccolo, in fondo.
La voce da lei ricordata, detto anzitutto che si legge làura, non ha nulla a che fare con l’alloro, il laùru e compagni, perché deriva dal latino medioevale laùrea(m) registrato nel glossario del Du Cange col significato di monastero. La voce latina, a sua volta, è in pratica trascrizione del greco bizantino λαύρα (leggi làura) che significava originariamente cammino, poi strada, poi quartiere; da quest’ultimo significato ha tratto il suo il nostro termine con riferimento all’insieme di celle, magari scavate nella roccia, da considerare come il nucleo originario dei futuri cenobi.
La spiegazione di Rohlfs non è macchinosa. Essa tenta di risalire, e con buoni risultati, ad un lemma non attestato in fonti scritte, *σκιακούλιον (ecco perchè il glottologo lo riporta preceduto da asterisco), ma che è rimasto casualmente nella lingua orale. La derivazione da σκιά che vale “ombra, fantasma”, è evidente, con l’aggiunta del suffisso diminutivo -ουλιον. Nel dialetto romanzo dei paesi grichi (parlo con più cognizione per Soleto e Sternatia almeno) la voce “sciacuddhi” è l’unica per indicare il folletto in questione ed è derivata, appunto, dalla parlata greca.
Altrettanto sensata mi sembra l’etimologia del Rohlfs per “laùru” dal mediolatino “agurium”.
Quanto al commento precedente, le laure anacoretiche basiliane non hanno a che fare con i “laùri”. In esse anzi i monaci cercavano di tenersi ben lontani da certe forme di tentazione spiritistica.
La funzione dell’asterisco (che, fra l’altro, il Rohlfs antepone a σκιαούλιον e non a σκιακούλιον, il che la dice lunga sulla forzatura iniziale “nascosta” di cui lo stesso eminente studioso non poteva non rendersi conto) non l’avevo capita …
Altra cosa, però, che continuo a non capire fino in fondo e a non accettare senz’ombra di dubbio è il camaleontismo del suffisso diminutivo -ούλιον che dovrebbe corrispondere al classico -ύλιος/-ύλιον (p. e. βόμβος=rimbombo>βομβύλιος=insetto ronzante) e che trova il suo corrispondente latino in -ùlium (p. e. pecus=gregge>peculium=patrimonio). Ma la presenza di quel -k- (che, come sa, non può certo appartenere al tema di σκιά), anche se a quest’infisso potrebbe essere attribuita una funzione eufonica (ma, per dimostrarlo definitivamente, bisognerebbe addurre almeno un altro esempio …), rende necessario al Rohlfs ipotizzare l’incrocio con agurium (a proposito anche a me appare sensata, ma credo che si capisse dalle integrazioni che a supporto ho aggiunto, la derivazione di laùru da agurium) che, fagocitando il suffisso diminutivo, darebbe vita ad un composto ibrido greco-latino che almeno nel suo sincretismo semantico un po’ di perplessità dovrebbe pure suscitarla. A favore dell’origine greca, comunque, come ha detto lei, depone l’area di uso e diffusione; e questo almeno dovrebbe distogliere da ogni tentazione di cercare altri etimi sulla suggestione di labili dettagli; me ne viene in mente uno pazzesco che una persona di mia conoscenza mi ruberebbe volentieri e che riporto così, per ridere insieme: diminutivo di “shako”, il copricapo militare che, con un po’ di fantasia … perversa, può essere assimilato al cappellino del laùru. Il grande Rohlfs si starà rivoltando nella tomba …
La questione è abbastanza complessa. Siamo dinanzi ad un termine mai attestato in fonti scritte greche. Questo potrebbe voler significare che il lemma sia appartenuto solo alla parlata greca del Salento o probabilmente sia nato nel corso del Medioevo proprio in quest’area linguistica. Rohlfs già lo segnalava con asterisco perchè non ne trovava traccia nei lessici. Io ho fatto una ricerca nel database elettronico TLG, continuamente aggiornato, e non ho trovato alcuna occorrenza né per *σκιακούλιον, tantomeno per *σκιαούλιον. Segnalo solamente che negli Epimerismi di Elio Erodiano è attestato un aggettivo σκιακός, interpretato dallo stesso grammatico come “luogo ombroso”. Con gli spettri, però, non ha nulla a che fare. Questo breve ragionamento, comunque, può essere utile a capire la difficoltà che a volte capita di incontrare nella pubblicazione di testi greco-medievali scritti in Salento. Non mancano, infatti, in essi dei termini propri del “demotico salentino”, per così dire, che non sono altrove attestati.
Quanto al suffisso diminutivo, tengo a precisare che esso è -ιον, molto comune nel greco tardo alla forma neutra insieme a -άδιον, -ίδιον, -άριον, -άκιον (quest’ultimo al maschile -άκης, come dimostra il mio stesso cognome e molti termini ancora rimasti anche nel greco otrantino e passati nel dialetto romanzo). Altri suffissi diminutivi fecero la propria comparsa in epoca tardo-medievale. Si veda, ad esempio, -τζι(ν), -ίτζι(ν).
Un gruppo musicale ben noto ha preso ora il nome di Sciacuddhuzzi, unendo ad una forma già diminutiva (“sciacuddhi”: fantasmino), un suffisso, giustamente di derivazione bizantina -ουτζι, che è ancora operante nel dialetto leccese (si veda ad es. “porceddhuzzi”).
Mi pare che il suo aggiornamento (grazie anche alla fortuna di poter disporre del TGL, quanto la invidio!) confermi la “macchinosità” del suggestivo etimo rohlfsiano (che comunque resta, al momento, l’unico condivisibile), anche se il suffisso da considerare dovesse essere -ιον (peraltro già presente nel greco classico) e non -ύλιον.
Quanto a “porceddhuzzu” io non escluderei l’origine romanza di entrambi i suffissi (il primo diventato, per l’occasione, infisso …) e, in particolare, il secondo lo considererei figlio del latino -ùceu(m); “porceddhuzzu” perciò, sarebbe forma dialettale tipicamente meridionale di “porcelluccio” come “figghiuzzu” lo è di “figlioccio”, “pituzzu” di “pieduccio”, etc. etc. D’altra parte il suffisso latino -ùceum è di natura aggettivale e si presta molto bene a fungere da attributo del diminutivo “porcellus”, per cui ne sarebbe venuto fuori un *porcellùceum che poi ha assunto valore sostantivato, il che comporterebbe per “porceddhuzzu” il significato originario di “cosa relativa ad un piccolo porco” (somiglianza di forma) ; mi riesce, invece, complicato immaginare che al latino “porcellus”, già diminutivo di “porcus”, si sia aggiunto, per superfetazione greca tardo-medioevale, un ulteriore suffisso diminutivo. Di conseguenza non credo neppure all’origine “dotta” di “Sciacuddhuzzi” che, secondo me, avrebbe seguito la trafila, qualcuno direbbe meno nobile, già indicata.
Lavorare su una postazione libera all’interno dell’Unisalento basta per poter consultare il TLG.
A dire il vero, per quanto mi stia sforzando di trovare un esempio grico con diminutivo in -ουτζι, ora non mi viene, ma forse dovrebbero esserci. Molto diffuso è in neogreco, invece, in cui abbiamo, ad esempio, καρπούτζι, che vale “melone”, da καρπός e tanti altri esempi.
Di lauro la testa hai recinto
di fiele la penna hai intinto
sfogando antica, nascosta bile
con Stanlio che dice: “AMABÌLE”..
Mi par di vederti, diavoletto,
disegnato in allegro fumetto
che dice, mentre sospira:
“…eh, se un se le tira, se le tira!!!!”
Sergio
Se le tira? Ma siamo appena agli inizi …