di Pino de Luca
Gianni Ferraris ha scritto un bellissimo pezzo sulla declinazione dei verbi nei dialetti salentini. Notoriamente privi del tempo “futuro”.
Bello e pieno di emozioni, non ultime quelle legate all’arbulu te ulie di Mino De Santis.
E allora se tutto è scritto e tutto è bello perché macularlo con altri tratti, per elongarlo? Per marcar presenza con elogi ed adulazioni?
Nient’affatto, non mi permetterei mai.
È che Gianni ha dimenticato alcuni modi di dire che comprendono il futuro in ieri piuttosto che nell’oggi, “uei, a ce stai?” “moi nà, aggiu rriatu” (A che stai? – Un momento, sono arrivato) nel migliore dei casi “sta rriu” (che sarebbe un sono in viaggio ma tradotto in sto arrivando, una sorta di “Je suis en train” dei francesi.) Tanto che in alcuni dialetti si annuncia il proprio arrivo effettivo con un solenne: “rrivai!!!” è già diventato passato remoto …
La lingua e il pensiero si intrecciano in ciascuno ed in tutti, e nelle parole troviamo le tracce della storia. Come potevamo immaginare un tempo futuro caro Gianni vista la frequenza con la quale cambiavamo dominatori?
Non si faceva in tempo ad abituarsi ad alcune leggi che subito arrivava un altro che le cambiava. E allora era inutile fare progetti, immaginarsi proiettati nella incertezza più assoluta. Non restavano che “li cunti”, i nonni li raccontavano ai nipoti e i nipoti ascoltando le storie dei nonni di un tempo lontano e confrontandolo con quello che accadeva notavano che era proprio attuale, che quello che sarebbe accaduto domani era la stessa cosa, mutatis mutandis, di ciò che era accaduto ieri.
E il futuro si fa passato e passato si fa futuro, alternandosi in un presente che oscilla tra ieri e domani, tra nustierzu e puscrai al massimo, ma con la capacità di tornare indietro oltre che di andare avanti.
E quando al signor Francesco (Lu Cicciu) si raccontava delle “èbbuche de moi” (del mondo moderno) lui, che di “èbbuche” ne aveva viste tante, rispondeva dondolando la testa “càngianu li cauci, ma lu culu è sempre lu stessu.”
E nessuno si meravigli dei Salentini che costruiscono futuro fuori dal Salento, è che in Salento il futuro lo hanno già conosciuto, al di fuori si può declinare, in Salento solo coniugare al passato.
“E duminica ci trase sciamu alla prima missa, ci campamu!!!”
Pino, che dire? Non posso che ringraziarti. A mia (parziale) discolpa sulla conoscenza del dialetto che è abissale posso dire che le mie radici sabaude mi portano a notare solo alcune particolarità che non sono sicuramente dotte e colte in materia di dialetto, che per altro apprezzo moltissimo per la musicalità a volte anche “ruvida”. Ma ti ringrazio per aver colto benissimo questo aspetto, tralasciando la mia ignoranza in materia, quello che ho scritto di getto è solo ciò che l’istinto mi ha fatto scrivere in una piovosa domenica salentina, mentre il mare da qualche parte schiumava rabbia e potenza e il vento si sentiva fuori dalla finestra. In buona sostanza, il Salento lo sto ancora imparando nonostante sei anni di permanenza in queste terre. E ancora mi stupisco camminando per Lecce e guardando in alto, o facendo camminate nelle campagne di ulivi, terra rossa e sassi, ascoltando Notap e, chissà, respirando rifiuti interrati in qualche landa che non è mai desolata.
Gianni, che dire? Avessimo salentini che in una vita imparano quello che tu hai imparato in sei anni … che i salentini, troppo spesso, “nascinu ‘mparatati” e, purtroppo, impiegano la vita per dimenticare. Per le tue radici sabaude ti perdoniamo che, come diceva Alce Nero, non importa dove nasci né dove muori, ma come vivi!!! :-) un saluto
Pino De Luca
qui servirebbe il contributo di un martanese dove il passato remoto impera
P.s. “Non si faceva in tempo ad abituarsi ad alcune leggi che subito arrivava un altro che le cambiava” (Pino De Luca, vedi sopra) – Evidentemente questo Salento che muta leggi ha fatto scuola, cito la vicenda: ICI, IMU, TARES, TRISE, TUC, IUC … Però con il computer non si aspetta il cambio di dominazione, si fa tutto in tempo reale. Ho letto chissà dove un proverbio salentino che diceva ” Quannu la mmerda sale a llu scannu, cchiù ca ppuzza face dannu”