di Gianni Ferraris
Indicativo, congiuntivo, imperativo, infinito, gerundio, presente. Nel dialetto salentino manca il futuro, non esiste, si deve comporre.
Per il futuro semplice si ricorre al presente accompagnato da qualche avverbio di tempo appropriato : tra nnu picca allucisce (fra poco albeggerà).
Per il futuro anteriore si usa il passato prossimo dell’indicativo: me pigghiu a ttie dopu ci lu rre è addentatu surdatu rasu (ti sposerò dopo che il re sarà diventato soldato semplice)[1].
Al di là della questione squisitamente etimologica e grammaticale, la mancanza del futuro potrebbe sottendere ad una mancanza di futuro? Leggendo ed ascoltando l’impressione è che nella lingua salentina ci sia una sorta di pudore, un modo di stare con i piedi ben piantati per terra, nel qui ed ora. Se dico: “Io farò un caffè”, è una certezza che non lascia spazio al dubbio, io lo farò costi quel che costi. Ed è, tutto sommato, un azzardo. Non tiene conto della possibilità che nel tragitto fra la poltrona dove sto seduto e la cucina possa squillare il telefono ed io debba uscire precipitosamente per qualche impegno imprevisto ed improvviso rimandando il bisogno impellente di drogarmi di caffeina, addirittura scordandomene poco dopo.
Costruendo come si fa nel dialetto salentino futuro che, proprio in quanto tale, non esiste, sembra si possa lasciare un piccolo spazio all’imprevisto, all’improvviso. Al dubbio? Forse, chissà. E‘ meno perentorio, almeno, così sembra essere, perchè sappiamo che il re non potrà mai diventare soldato semplice, al massimo potrà essere decapitato o finire fuori dai palazzi del potere. Tuttavia nell’immaginario di chi ascolta si può escludere categoricamente che una rivoluzione incruenta costringa il potente di turno a ripartire da zero? Dire invece: “io non ti sposerò mai” è tranchant, definitivo, non lascia spazio al ripensamento.
Gli altri tempi invece ci sono tutti, soprattutto i passati: remoto e prossimo. Quello della storia e delle storie che stanno nelle pietre e nei monumenti, nei dolmen e nei menhir. Quando ascolto parlare dei martiri d’Otranto quasi mi guardo attorno per vedere se qualche turco sta girovagando in Piazza Mazzini, quando leggo di Maria d’Enghien mi pare di vederla camminare per le vie di Lecce. Il passato sta nella storia delle pietre che parlano e dell’arbulu te ulie (albero di olive) cantato magistralmente da Mino De Santis. Storie che si rincorrono guardando un “banalissimo” albero pieno di storia, di amori passati là sotto, di sofferenze e lavoro. Forse una delle più belle canzoni del giovane cantautore salentino.
No, il futuro non esiste, occorre costruirlo, la saggezza antica lo chiede, e lo fa con i tempi verbali che si toccano, si palpano voluttuosamente, si accarezzano teneramente, anche nella loro ruvidezza.
D’altra parte il salentino sa che: Ci vae ti ggiustu passu rria a ddo’ ole (Chi procede col passo giusto arriva dove vuole)[2]
E rimane la certezza che:
Il dialetto è sempre la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, familiare. Come diceva Pirandello, la parola del dialetto è la cosa stessa, perchè il dialetto di una cosa esprime il sentimento, mentre la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto[3].
[1] Antonio Garrisi – Grammatica el dialetto leccese – Congedo editore marzo 2005.
[2] https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/02/19/proverbi-salentini-e-un-verbo-neretino-tra-passato-presente-e-futuro-ulire-volere/
[3] Andrea Camilleri e Tullio De Mauro – La lingua batte dove il dente duole – Editori Laterza – 2013
Invero, la costruzione del futuro nel nostro dialetto è molto più precisa che nell’italiano. “io andrò a Lecce” non è così preciso come le espressioni: “Io, un giorno o l’altro, vado a Lecce” (andrò ma non so dirti quando), oppure “domani vado a Lecce” (andrò di sicuro e ti dico esattamente quando).
Meditando sulle parole di Gianni e sull’osservazione di Angelo dal canto mio non saprei dire se questo nostro modo di esprimerci tradisca (nello stesso tempo!) un’assenza di speranza nel futuro, figlia dell’atavica (così dicono …) rassegnazione meridionale e, quindi, del masochistico e comodo (così dicono …) abbarbicamento al passato (per cui il futuro nella fattispecie regredisce a presente), nonché una serietà d’intenti (per cui la parola data dovrebbe essere sacra e per chi ha preso l’impegno questo fa già parte del suo presente). Purtroppo mi pare che oggi la rassegnazione resti e che la serietà d’intenti sia andata a farsi fottere …
Non so se questo interessante discorso sul futuro dialettale è una metafora per descrivere il carattere dei nostri popoli, l’assenza di “perentorietà”, l’incertezza del nostro carattere, la “rassegnazione meridionale”, ma è sicuro che il FUTURO della lingua salentina ESISTE ed è reso in modo ancora più perentorio che nella lingua italiana, anche se si nasconde dietro ad una circonlocuzione. In dialetto la volontà futura non si esprime con un quasi generico “futuro semplice”: non si dice “lavorerò”, ma l’intenzione viene espressa con una decisa perifrastica passiva “aggi’a fatia’ (ho da lavorare)”: frase che non lascia spazio a dubbi ed incertezze!