di Ermanno Inguscio
Nel profondo Salento, fino a qualche anno fa, come nella insidiosa “conca di Torrepaduli”, non infrequenti erano le alluvioni, che allagavano anche il santuario di San Rocco, presso cui abitavo, ridotto spesso, nelle testimonianze fotografiche, a una moderna arca con la chiglia nel fango. Memorabile quella dell’ottobre 1981, che mi ha visto giovane protagonista in lotta con le forze della natura e, più volte, con i latitanti consorzi di bonifica, che non intervenivano mai sul territorio. E quella grande piazza, nell’agosto di ogni anno, era il magico contenitore della danza scherma della “notte di San Rocco”.
Di alluvione, dunque, conosco in prima persona le problematiche e mi sento ferito, ancora una volta, alla vista di ciò che le avverse condizioni climatiche hanno scatenato di recente in Sardegna. Terra magica, di tradizione e cultura, a cui l’Università di Lecce (oggi del Salento), aveva offerto, negli anni Settanta, con il mio fresco titolo professionale, un altro intellettuale in cerca di lavoro.
Con la recente alluvione, dunque, l’isola del turismo d’élite, del paesaggio incontaminato, della fascinosa Costa Smeralda, è letteralmente in ginocchio, sommersa dalla tragedia di perdite umane e da colluvie di detriti, che io, in quattro anni di insegnamento, nella scuola secondaria dell’isola, non ho mai visto tutto insieme. Olbia, Torpé, rio Posada, Uras, Golfo Aranci, Tempio Pausania, e tante belle località isolane, ieri terra di turismo e (per chi scrive) di lavoro, sono oggi, invece, di drammatica attualità. Gli elementi di una natura scatenata, improvvisamente divenuta matrigna, hanno flagellato città e territori un tempo sinonimi di esplosione edilizia e alberghiera, dove relax e confort la facevano da padrone.
Esse riempiono in questi giorni gli spazi dei media a ricordare all’uomo comune che la ricostruzione è impegno di tutti. Non di tutti era il privilegio, nel 1973, di lavorare nell’”isola dei ricchi”, anche se con la retribuzione di un docente di scuola, alloggiato in una struttura alberghiera a pensione completa, al servizio di tanta gioventù e a conoscere fieri allevatori dal conto in banca spaventoso, albergatori-banchieri, costruttori di ville e resort che aggredivano con calcestruzzo ogni caletta, da Orosei a San Teodoro, da Santa Teresa di Gallura all’isola di San Pietro e di Sant’Antioco: chilometri di costa mozzafiato e di fondali marini degni di vincoli di un parco marino da istituire tutto intorno all’isola. Ero sbarcato, la prima volta, da Roma al Venafiorita, vecchio aeroporto di Olbia, il mio primo volo, su un fokker di 40 posti ad ammirare dall’alto il mar Tirreno e a sudare freddo ad ogni vuoto d’aria dall’alto di soli tremila metri di quota di rotta. Poi mesi d’impegno scolastico nelle aule, a Torpé, a Budoni, a Brunella, a Macomer. Golfo Aranci e Olbia costituivano gli approdi con traghetto o nave della società Tirrenia, in entrata o uscita dall’isola dei sogni, che garantiva, anche se per concorso nazionale a cattedra, una salda collocazione lavorativa a ripagare, dopo il mirabile contatto con i giovani, anni di studio e di sacrifici.
Non vi era ancora la moderna superstrada Olbia-Nuoro, ma una sinuosa provinciale che la fiammante “500 L” percorreva più volte per condurci al cinema e ammirare le isole di Tavolara, Molara e Molarotto, a giocare a tennis con qualche industriale arabo, a rincorrere il pallone, con italica passione, in partite alunni contro professori. E quei bagni sul litorale di perla del rio Posada, tra San Teodoro e Siniscola, iniziati ogni anno con l’incoscienza giovanile il 19 di marzo, a Pasqua o al massimo il 1 di maggio: si ritornava in Salento con una abbronzatura che scoraggiava amici e parenti a credere che si fosse stati in Sardegna a lavorare. In ambito educativo la scuola costituiva un laboratorio di confronto e di esperienze di ogni tipo: ragazzi provenienti in genere da contesti agricolo-pastorali, genitori laboriosi e legati alle proprie tradizioni, colleghi provenienti da ogni contrada d’Italia: Salerno, Bologna, Bari, Genova, Gubbio, Palermo, Napoli, Roma, Lecce. Sistemazioni logistiche le più varie: chi in abitazioni private, chi in albergo, chi in collina, chi al mare. Nei pomeriggi, almeno sino ai tempi della crisi arabo-israeliana del Sinai che fece impennare i costi del carburante, quante borgate scoperte tra i monti, tra i profumi della macchia mediterranea e la visione di calette, a ingozzarci di ricci di mare o a collezionare pinne giganti, quanti raduni a degustare il porcetto cotto alla maniera dei pastori, le degustazioni di formaggi e prosciutti di cinghiale a Gavoi.Tra le colleghe una sarda, bionda, che si atteggiava ad attrice professionista, per aver fatto da controfigura a Mariangela Melato nel film della Wertmuller, Sperduti per un insolito destino nell’azzurro mare di agosto , con la magistrale interpretazione di un giovane Giancarlo Giannini
L’avevo salutata in nave da Olbia, la Sardegna, senza più tornarci per un trentennio, in un radioso primo di luglio del 1976, in un mare blu, inseguito da centinaia di delfini impazziti, mai immaginando di tradirla, per un’incolpevole assenza di lunghi anni, e una carriera scolastica, come dicono i Sardi, spesa in tutto “il continente”. Per decenni mai un ritorno, né da singolo né con i familiari né con gli amici né per vacanza né per lavoro. Nella primavera del 2011, finalmente, nel magico periodo pasquale, un secondo duplice volo in aereo, dal Continente nella terra dei nuraghi, delle mie due figliole: con la mia auto, in Sardegna per via marittima Civitavecchia-Olbia, recupero la prima all’aeroporto “Costasmeralda”, proveniente da Catania, e nello stesso giorno corro ad accogliere ad Alghero “Fertilia”, la seconda, proveniente da Milano Malpensa. Per loro e per mia moglie è la prima volta che possono ammirare la terra di Grazia Deledda, per me è il primo ritorno, nel quale ammiro ancora una volta gli arenili di San Teodoro, di Posada, le calette di Codacavallo, un po’ meno la noiosa nuova autostrada Olbia-Nuoro. Una (ri)scoperta per noi, la macchia mediterranea di Orosei e di Santa Teresa di Gallura, gli armenti sulle amene montagne, i murales di Orgosolo e i simpatici anziani, dai tradizionali vestiti di velluto scuro e l’immancabile coppola maschile sulla fronte. Ciò mi riporta a scene analoghe vissute nel Salento della mia fanciullezza: donne vestite di nero, artigiani della terracotta e del rame, carretti a trainare botti piene d’uva matura, profumo di fichi dai forni di pietra, merende con fette di pane e olio d’oliva, contadine semicurve tra filari di verde tabacco.
Oggi sgomento stento a credere, davanti a tanta distruzione e terribili disagi, che si tratti proprio della nostra isola di Sardegna, con una sorte da diluvio universale, toccata pure alle lontane isole delle Filippine, e le raccolte di fondi solidarietà si rincorrono, mirabili iniziative tra esseri umani, sul ritmo binario di bip, di sms di milioni di cellulari, di computer, di smartphone e di immagini televisive. Io sono ancora là, con il mio terzo volo, purtroppo solo quello di skype, a deglutire impotente immagini che rimangono in gola. Ma il cuore mi dice che l’orgoglio del popolo sardo cancellerà lutti e ferite e rifioriranno gli aranceti di Torpé, i pascoli di Budoni e di Oristano.Torneranno soprattutto a sorridere sui volti delle donne i coralli rossi-rosa dei fondali di Alghero e di Bosa Marina. Una natura non più matrigna, permetterà solo qualche nottata di maestrale invernale sulle insidiose Bocche di Bonifacio. Ma lentisco, timo ed alloro continueranno ancora a fare compagnia a migliaia di armenti in cerca di erba sulle colline.