di Armando Polito
Ricordo che circa vent’anni fa assistetti all’operazione chirurgica detta slupatura1 su uno dei miei alberi di olivo relativamente giovani effettuata dall’anziano mondatore Antonio Manca e resasi necessaria, a suo dire, per la salvezza dell’esemplare. In men che non si dica, deposta momentaneamente la sega utilizzata per la monda in corso, con una piccola accetta asportò dal tronco il marciume finché non giunse al tessuto sano; risultato finale: da parte a parte quasi un buco nel tronco, ma l’albero allora sopravvisse, oggi è un campione di vigoria. Capii, allora, l’origine dell’aspetto tormentato, vissuto e vivente, dei nostri patriarchi, dovuto non solo alla loro origine selvatica (l’irregolarità d’impianto dei vecchi uliveti ne è la prova2) ma proprio agli interventi terapeutici come quello appena descritto.
Il resto è favola ma, poiché le antiche leggende nascondono un pizzico di verità, per quanto difficile da cogliere, e sognare ogni tanto, ma restando sempre con i piedi ben piantati per terra, non può fare che bene, ecco a voi dalla notte dei tempi la leggenda che segue nella versione di un autore greco prima ed in quella di un autore latino poi.
Una piccola premessa di natura filologica: le opere antiche che noi leggiamo le conosciamo o per tradizione diretta (grazie all’opera preziosa di copia degli amanuensi medioevali) o per tradizione indiretta, cioè per citazione fatta da altri autori (e, siccome la citazione non può essere che parziale, si parla di frammenti; quando, invece, la citazione consiste nel riassunto dell’originale essa si chiama epitome).
Sul fascino del frammento non spendo neppure una parola (mi basta fare, pensando al sesso, il parallelismo col vedo/non vedo) sulla sua capacità di evocazione fantastica; quest’ultima, però, risulta amplificata quando il frammento non ci è pervenuto per tradizione diretta (anche un codice può essere mutilo) ma indiretta.
È il caso di Nicandro di Colofone (II secolo a. C.) del quale ora riporto (come al solito nella mia traduzione, il che vale anche per gli autori che seguiranno) ciò che Antonino Liberale (II sec. d. C.) così ci ha conservato nella sua raccolta Metamorfosi: MESSAPI. [Racconta Nicandro nel secondo libro delle Metamorfosi] Dall’autoctono Licaone nacquero i figli Iapige, Daunio e Peucezio. Questi dopo aver radunato un esercito giunsero presso Adria d’Italia; dopo aver scacciato gli Ausoni che vi abitavano essi vi si stabilirono. La maggior parte dell’esercito per loro era costituito da coloni, gli Illiri di Messapio. Divisero poi insieme l’esercito e il territorio in tre parti e li chiamarono, in base al nome che ciascun di ciascun loro capo aveva, Dauni, Peucezi e Messapi; e il territorio da Taranto fino alla parte estrema d’Italia fu dei Messapi, dove è sita la città di Brindisi, il territorio contiguo a questo al di qua di Taranto fu dei Peucezi, più all’interno di questa i Dauni ebbero la regione costiera, chiamarono Iapigi l’intero popolo. Ciò avvenne molto prima della spedizione di Eracle. Allora la vita da loro era tratta dall’allevamento e dalla pastorizia. Raccontano dunque che nella terra dei Messapi presso le cosiddette Pietre sacre apparvero delle ninfe epimelidi3 danzanti, che i figli dei Messapi, abbandonate le greggi per guardarle, dissero che essi danzavano meglio. Queste parole infastidìrono le ninfe e per un intero giorno si fece una gara di danza. I ragazzi, poiché non pensavano che la gara fosse con divinità, danzarono come se stessero gareggiando con coetanee mortali e il loro modo di danzare era rozzo qual è quello dei pastori, mentre quello delle ninfe raggiungeva il massimo della bellezza. Ed esse trionfarono sui ragazzi e dissero loro questo: “O ragazzi, avete voluto la gara contro le ninfe epimelidi; o stolti, non avendo certamente vinto, pagherete il fio”. E i fanciulli divennero alberi proprio dove stavano, presso il tempio delle ninfe. E ancora oggi di notte si sente dal bosco un suono come di persone che si lamentano; il luogo si chiama delle ninfe e dei pastori.4
Apro qui una parentesi , anche iconografica, dedicata alla Collina dei fanciulli e delle ninfe (immagine tratta da https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/08/04/strani-movimenti-sulla-collina-dei-fanciulli-e-delle-ninfe-tra-giuggianello-palmariggi-e-minervino-di-lecce/) in territorio di Giuggianello ed alle più significative delle Pietre sacre (immagini tratte da wikipedia).
Piede d’Ercole5
Furticiddhu6 (fuso) della vecchia
Letto della vecchia
Si chiude qui la parentesi iconografica. Ora ecco come il mito di Nicandro viene ripreso da Ovidio (I secolo a. C. -I secolo d. C.) “A stento certamente io, suo genero, con una minima parte dei miei occupo queste sedi e gli aridi campi dello Iapige Dauno”. Fin qui parlò il nipote di Oineo7 e Venulo lasciò i regni di Calidone8 e i golfi peucezi e i campi messapi. In essi vede delle caverne che ora, oscure per la folta selva e grondanti di leggere gocce, abita il semicapro Pan e che un tempo abitarono le ninfe. Un pastore pugliese le atterrì facendole fuggire da quella regione e le turbò in un primo momento con un improvviso terrore; subito, quando rientrarono in loro e non si curarono di chi le inseguiva, con il movimento dei piedi intrecciarono danze seguendo il ritmo; il pastore non approva e imitandole con rozzi saltelli aggiunge ruvidi insulti a parole oscene; né cessò di parlare prima che un albero nascondesse la sua bocca. Infatti è un albero ed è possibile riconoscere la sua indole dal sapore. Di certo l’olivastro nelle sue bacche amare mostra traccia della sua lingua: in esse è finita l’asprezza delle sue parole.9
Il lettore avrà notato che il generico albero di Nicandro è diventato nell’autore latino l’olivastro e che quest’ultima essenza, evocata attraverso il mio ricordo personale della varietà addomesticata nel termite della nota 2, costituisce l’ultima (? …) superfetazione del nucleo originario. Per questo mi sento quasi in colpa, anche se conosco chi anche su questa leggenda riuscirebbe spudoratamente a costruire un castello fatto di tarante, dee delle paludi, papavero, laùri e … chi più ne ha più ne metta10.
Poi, però, la mia coscienza torna ad essere tranquilla al pensiero che son riuscito a tenere distinti dalle mie riflessioni, discutibili o meno che esse siano, i due livelli, anche cronologici, delle fonti originali11.
Non è poco in un’epoca in cui il conflitto d’interessi da reato è diventato un istituto di fatto legalizzato e a tal proposito mi chiedo, in riferimento al folle progetto della realizzazione in zona di un impianto eolico, quanti personaggi siano riusciti a tener distinto l’interesse privato da quello pubblico, visto che qualcuno deve pur aver propiziato questo sublime periodo (l’intero testo è leggibile all’indirizzo http://www.giustizia-amministrativa.it/DocumentiGA/Consiglio%20di%20Stato/Sezione%205/2009/200907244/Provvedimenti/201002756_11.XML) contenuto nella decisione del Consiglio di Stato n. 02756/2010 (depositata il 10/05/2010) sul ricorso n. 0724472009: A prescindere dal fatto che tali miti e leggende non risultano essere stati individuati da un provvedimento legislativo, non si vede come l’impianto degli aerogeneratori possa interferire su tale patrimonio culturale …
Anche ad uno totalmente digiuno di scienza giuridica quale sono io le argomentazioni appaiono perfettamente in regola con quello che dicono le carte, perciò credo che la decisione sia giuridicamente ineccepibile, pur potendo apparire a qualcuno come frutto di burocratica ottusità; debbo, però, aggiungere che purtroppo siamo in un paese in cui ciò che veramente conta (compresa la tutela del paesaggio sancita, addirittura, dalla Costituzione) non compare nelle carte e, nonostante episodi scandalosi come questo, nulla si fa per risolvere a monte l’inconveniente, perché chi è deputato a farlo ha perso, insieme con l’onestà, anche il più elementare buonsenso; non cito nemmeno il rispetto della cultura, mai posseduto, perché per rispettare e proteggere il patrimonio culturale, come qualsiasi bene, anche dalle offese altrui bisogna anzitutto conoscerlo e poi amarlo.
Notizia risalente al maggio 2013 (http://www.ilpaesenuovo.it/2013/05/14/impianto-eolico-a-giuggianello-definitivo-il-sequestro-ai-danni-di-maestrale-green-energy/): la società che doveva realizzare l’impianto non gode di ottima salute e difficilmente potrà onorare gli impegni assunti. Un cristiano direbbe che si tratta della conferma che la divina provvidenza esiste; un pagano, invece, non escluderebbe l’intervento, ancora una volta, delle Ninfe …
Pagano o cristiano, l’importante è che, vista la pioggia di ricorsi e controricorsi succedutasi fin qui con la vittoria dei paleolofili [vano cercarlo sul vocabolario, l’ho inventato io e significa amanti (in mala fede) delle pale mosse da Eolo], l’intervento sia risolutivo e senza appello, a mo’ di maledizione, pure per i nuovi barbari che dovessero subentrare ai vecchi …
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1 Da slupare, voce composta da s– estrattivo (dal latino ex)+lupa (con allusione alla voracità dell’animale è così chiamata per traslato la carie del tronco dell’olivo). Il corrispondente maschile lupus, con riferimento anche qui agli effetti della malattia, è il nome di dermatosi con ulcerazioni cutanee più o meno estese. Nel dialetto neretino llupatu (alla lettera. colpito dalla lupa o dal lupus) si dice il frutto del pomodoro la cui parte basale si inspessisce ed annerisce per l’azione di un batterio; la voce ha il suo corrispondente formale nell’italiano allupato sul cui significato più usuale non mi dilungo …
2 Non a caso l’oliveto in dialetto salentino è chiamato chisùra (corrispondente all’italiano chiusura): all’origine gli olivastri nati spontaneamente sul confine furono lasciati a delimitare (chiudere) la proprietà, poi anche quelli nati all’interno vennero utilizzati come portainnesto. Una specie di olivo selvatico è il tèrmite, parola che è dal latino tèrmite(m)=ramo staccato, ramoscello; tale parola non evoca solo una probabile parentela con terminus=pietra di confine e con la sua divinizzazione Tèrminus (=Termine, il dio che presiedeva ai confini), ma anche una probabile connessione con la riproduzione per talea.
3 Protettrici delle greggi (la voce è composta da ἐπί=sopra+μῆλον=pecora o capra o montone o, estensivamente, toro.
4 ΜΕΣΣΑΠΙΟΙ. [Ἱστορεῖ Νίκανδρος ἐτεροιουμένων β΄] Λικάονος τοῦ ἀυτόχθονος ἐγένοντο παῖδες Ἱᾶπυξ καὶ Δαύνιος καὶ Πευκέτιος. Οὗτοι λαὸν ἀθροίσαντες ἀφίκοντο τῆς Ἰταλίας παρὰ τὴν Ἀδρίαν· ἐξελάσαντες δὲ τοὺς ἐνταυθοῖ οἰκοῦντας Αὔσονας αὐτοὶ καθιδρύϑησαν. Ἦν δὲ τὸ πλέον αὐτοῖς τῆς στρατιᾶς ἒποικοι, Ἱλλυριοὶ <οἱ> Μεσσαπίου. Ἔπει<τα> δὲ τὸν στρατὸν ᾰμα καὶ τὴν γῆν ἐμέρισαν τριχῇ καὶ ὠνόμασαν ὡς ἑκάστοις ἡγεμόνος <ὄνομα> εἶχε Δαυνίους καὶ Πευκετίους καὶ Μεσσαπίους· <καὶ> τὸ μὲν ἀπὸ Τάραντος ἄκρι πρὸς τὴν ἐσχατιὰν τῆς Ἰταλίας ἐγένετο Μεσσαπίων, ἐν ῇ πόλις ᾤκεται Βρεντέσιον, τὸ δὲ παρὰ τὴν <χώραν ταύτην> ἐντὸς τοῦ Τάραντος ἐγένετο Πευκετίων, ἐνδοτέρω δὲ τούτου τῆς θαλάσσης ἐπέ<σχον ἐπὶ> πλέον Δαύνιοι, τὸ δὲ σύμπαν ἔθνος ὠνόμασαν Ἱαπύγων. Καὶ ἐγένετο ταῦτα πολὺ πρὸ τῆς Ἡρακλέους στρατείας. Ἦν δὲ τοῖς τότε βίος ἀπὸ θρεμμάτων καὶ νομῆς. Μυθολογοῦσιν οὖν ἐν τῇ Μεσσαπίων γῇ παρὰ τὰς λεγομένας ἱεράς πέτρας φανῆναι νύμφας ἐπιμηλίδας χορεούσας, τὸυς δὲ παῖδας τῶν Μεσσαπίων καταλιπόντας τὰ ποίμνια καὶ θεομένους εἰπεῖν, ὅτι βέλτιον αὐτοὶ χορεύουσιν. Οὗτος ὁ λόγος ἤλγυνε τὰς νύμφας καὶ τὸ νεῖκος ἐπὶ πλέον ἐγένετο περὶ τῆς χορείας. Οἱ δὲ παῖδες, ὅτι μὲν ἦν αὐτοῖς ἅμιλλα πρὸς δαίμονας ἠγνόουν, ἐχόρευον δ’οἷα πρὸς ὁμἠλικας θνητὰς καὶ ὁ τρόπος αὐτοῖς τῆς ὀρχήσεως ἅτε ποιμένων ἄμουσος ἦν, ταῖς δὲ νύμφαις πᾶν ὅσον [ἢ] πλεῖστον ἐπέδωκεν εἰς κάλλος. Καὶ ἐπεκράτησαν χορεύουσαι τῶν παίδων καὶ ἔλεγον πρὸς αὐτοῦς τάδε· “Ὦ κοῦροι, τὸ νεῖκος ἔρασθε πρὸς ἐπιμηλίδας νύμφας, οὐκοῦν, ὦ ἄφρονες, νικώμενοι δώσετε δίκην”. Καὶ οἱ παῖδες, ἵναπερ ἑστήκεσαν παρὰ τὸ ἱερὸν τῶν νυμφῶν, ἐγένοντο δένδρη. Καὶ ἔτι νῦν ἀκούεται φωνὴ νυκτὸς ἐκ τῆς ὕλης οἷα θρηνούντων, ὁ δὲ τόπος ὀνομάζεται Νυμφῶν τε καὶ Παίδων.
5 Il primo a collegare questa pietra con Ercole fu François Lenormant nella sua opera La grande Grèce, Lèvy, Parigi, 1881, v. I, pag. 455 (e non in A travers l’Apulie et la Lucanie : notes de voyage, A. Lèvy, Parigi, 1883, come si legge in wikipedia, per giunta in riferimento al fuso della vecchia di cui parlerò nella nota successiva, all’indirizzo http://it.wikipedia.org/wiki/Giuggianello): L’auteur du traité des Récits merveilleux, si faussement mis sous le grand nom d’Aristote, parle d’une empreinte gigantesque du pied d’Hercule, que l’on montrait auprès de “Pandonia de Japygie” et qui était l’objet de la vénération publique. Ce renseignement ne peut avoir trait à la Pandosia lucanienne qui touchait presque à la frontière du territoire de Tarente, c’est-à-dire de la Japygie, dans laquelle on en quelquefois compris Métaponte. Et ceci se confirme par la tradition du passage d’Hèraclés dans ces cantons, qui fut certainement pour quelque chose dans le choix du nom d’Hèraclée, donné par les Tarentins à la colonie qu’ils fondèrent entre le Siris et l’Aciris (L’autore del trattato dei Racconti meravigliosi falsamente attribuito al grande nome di Aristotele, parla di un’impronta gigantesca del piede di Ercole che si mostrava nei pressi di “Pandosia di Iapigia” e che era oggetto di venerazione pubblica. Questa notizia non può riferirsi alla Pandosia lucana ma alla Pandosia lucana che toccava quasi il confine del territorio di Taranto, cioè della Iapigia, nella quale si è compresa talora Metaponto. E questo si conferma con la tradizione del passaggio di Ercole in questi luoghi, che fu certamente per qualche motivo nella scelta del nome di Eraclea dato dai Tarentini alla colonia che fondarono tra il Siri e l’Aciri).
Ecco il testo dello Pseudo Aristotele, De mirabilibus auscultationibus, 97, cui si rifà il Lenormant: : Περὶ τὴν ἄκραν τὴν Ἰαπυγίαν φασὶν ἔκ τινος τόπου, ἐν ᾧ συνέβη γενέσθαι, ὡς μυθολογοῦσιν, Ἡρακλεῖ πρὸς γὶγαντας μάχην, ῥεῖν ἰχῶρα πολὺν καὶ τοιοῦτον ὥστε διὰ τὸ βάρος τῆς ὀσμῆς ἄπλουν εἶναι τὴν κατὰ τὸν τόπον θάλασσα. Λέγουσι δὲ πολλαχοῦ τῆς Ἰταλἱας, Ἡρακλέους εἶναι πολλὰ μνημόςυνα ἐν ταῖς ὁδοῖς ἅς ἐκεῖνος ἐπορέυτε. Περὶ δὲ Πανδοσίαν τῆς Ἰαπυγίας ἴχνη τοῦ θεοῦ δείκνυται, ἐφ’ἅ οὺδενὶ ἐπιβατέον (Dicono che presso il Capo iapigio, da un luogo nel quale avvenne, come favoleggiano, per Ercole la battaglia contro i Giganti, scorra molto sangue marcio e tale che il mare in quel posto non è navigabile a causa dell’intensità della puzza. Dicono che in molti luoghi d’Italia vi sono molte memorie di Eracle sulle strade che egli percorse. Presso Pandosia di Iapigia si mostrano le orme del dio sulle quali per nessuno è lecito camminare).
6 Furticiddhu è da un latino *vurticillum, variante del classico verticillum attestato in Plinio col significato di fusaiolo (piccolo disco di materiale pesante, in cui si infila l’estremità inferiore del fuso per regolarizzarne la rotazione). Verticillum, a sua volta, è dal verbo verto/vertis/verti/versum/vèrtere; le varianti arcaiche vorto per verto, vorti per verti e vorsum per versum spiegano l’origine antica del vocalismo della voce dialettale.
Anche per questa pietra come per quella della nota precedente si è creduto di trovare un riferimento in un altro passo (98) della stessa opera dello Pseudo Aristotele: Ἒστι καὶ περὶ ἄκραν Ἰαπυγίαν λίθος ἁμιαξῖαιος, ὅν ύπ’ἐκείνου ἀρθέντα μετατεθνῆναι φασιν, ἀφ’ἐνὸς δὲ δακτύλου κινεῖσθαι συμβέβηκεν (C’è anche presso il Capo iapigio una pietra enorme che dicono che, sollevata da quegli [Ercole], fu cambiata di posto; avvenne che fu mossa con un solo dito).
Non posso a questo punto non riportare come emblematico della storpiatura delle fonti quanto leggo in wikipedia (stesso indirizzo indicato in nota 4): Infatti secondo lo studioso francese François Lenormant, è possibile identificare l’enorme masso con il “Masso oscillante d’Ercole” della leggenda di cui parla Aristotele nel “De Mirabilis Auscultationibus” (“Le Audizioni Meravigliose”). Il filosofo, infatti, sostenne che nella parte estrema della Japigia esiste una pietra tanto grande che sarebbe stata impresa impossibile trasportarla persino su un enorme carro. Ma Ercole, sollevatala senza alcuno sforzo, la gettò dietro le sue spalle ed essa si posò nel terreno in maniera tale che anche la semplice pressione del dito di un bambino sarebbe stata in grado di rimuoverla.
Non solo viene messo confusamente in campo il Lenormant (vedi nota precedente) ma rispetto al testo originale dello Pseudo Aristotele si costruisce una favoletta aggiungendo arbitrariamente e criminalmente dettagli fuorvianti della cui gravità pure un bambino si renderebbe conto confrontando i due testi. E la cosa è tanto più grave perché la storiella del Masso oscillante d’Ercole risulta abbondantemente clonata in rete anche se, guardando la pietra in questione, al di là di qualsiasi avventura identificativa, pare evidentissimo che la lastra superiore non si sposterebbe di un millimetro neppure se un adulto si sedesse su qualsiasi punto del suo orlo. E poi, vogliamo veramente credere che una pietra siffatta potesse restare in bilico, con buona pace di Ercole e dei suoi miracoli, per molto tempo? Non vorrei che tutto fosse nato per semplice suggestione del nome della Pietra pendula di Torno (CO) … (nell’immagine che segue tratta da wikipedia).
7 Diomede, che aveva raccontato a Venulo come si era stabilito presso Dauno, la cui figlia aveva sposato.
8 Calidone era la capitale dell’Etolia, di cui Diomede era stato re prima che scoppiasse la guerra di Troia.
9 Metamorfosi, XIV, 510-526: Vix equidem has sedes et Iapygis arida Dauni/arva gener teneo minima cum parte meorum”./Hactenus Oenides, Venulus Calydonia regna/Peucetiosque sinus Messapiaque arva relinquit./In quibus antra videt, quae, multa nubila sulva/et levibus guttis manantia semicaper Pan/nunc tenet, at quondam tenuerunt tempore nymphae./Apulus has illa pastor regione fugatas/terruit et primo subita formidine movit,/mox ubi mens rediit et contempsere sequentem,/ad numerum motis pedibus duxere choreas;/improbat has pastor saltuque imitatus agresti/addidit obscenis convicia rustica dictis,/nec prius obticuit, quam guttura condidit arbor;/arbor enim est, sucoque licet cognoscere mores./Quippe notam linguae bacis oleaster amaris/exhibet: asperitas verborum cessit in illas.
10 Emblematico a tal proposito il festival delle sciocchezze, le più cospicue delle quali da me commentate, che il lettore potrà visionare all’indirizzo http://www.iltaccoditalia.info/sito/index.asp?s=4&t=82
11 A tal proposito va detto che è scontato che colui che scrive un saggio utilizzi correttamente le fonti (il che significa riportarle fedelmente) e colui che ad esso fa riferimento per una riflessione o citazione se lo sia letto attentamente. Non so dire chi abbia derogato a quest’obbligo quando leggo, per esempio, il post dell’indirizzo http://www.brindisireport.it/cultura/2013/08/04/sulle-magiche-tracce-della-tarantola/ dove Barbara Moramarco, nel fare riferimento al saggio Viaggio nel Salento magico di Federico Capone, Capone editore, Cavallino, 2013, fa capire, se l’italiano ha un senso, che i giovani pastori salentini risulterebbero tramutati in ulivi dalla forma contorta già in Nicandro. Nel nostro caso o la Moramarco ha capito male quello che avrebbe dovuto leggere attentamente o Federico Capone, preso dall’empito di nobilitare a tutti i costi con l’aiuto del mito la nostra essenza tipica, ha pensato bene di attribuire pure a Nicandro quel dettaglio dell’olivastro che sarebbe comparso quasi quattro secoli dopo in Ovidio. Io non ho avuto né voglia né tempo di controllare sul testo del Capone: dico solo che, se dovesse valere la seconda ipotesi, saremmo in presenza di un’operazione che, purtroppo, non è rara (vedi le altre superfetazioni che ho messo in luce nelle note) né tipica dei nostri tempi (il conterraneo neretino Giovan Bernardino Tafuri nel XVIII secolo fu addirittura un campione con la creazione di false fonti); tale operazione, anzi mistificazione, se è in buona fede è frutto di ignoranza, se è in mala fede rappresenta un’offesa per la conoscenza e per la stessa terra che si voleva truffaldinamente esaltare.
Che piacere rivederti in piena forma e poter godere delle tue sapienti, acculturate e deliziose proposte. Mi ci sono immerso e mi sono lasciato trasportare e nel passato e nel presente, facendomi abbracciare da quei poderosi alberi-esseri viventi che ho rivisto danzare nelle loro movenze sgraziate, ma autentiche, come autentiche sono tutte le invenzioni della cultura locale, siano esse, canti, fiabe o appunto danze.
Poi le tue avventure linguistiche salentine, come sempre, eccitano le mie piemontesi e anche questa volta è successo questo miracolo filologico. Due riferimenti. Il vostro “tèrmite” ha richiamato il nostro piemontese “termin” o meglio ancora “termo” che è la pietra di confine di proprietà, pietra di confine,ma facilmente precedente albero di confine. Mentre il “Masso oscillante” d’Ercole, mi ha richiamato un nostro famoso luogo sito in valli cuneesi, che è un vero bosco, molto esteso di alberi di pietra chiamati “Ij Cicio dël Vilar”. “Cicio” significa burattino e sono forme di pietra erosa site in questa valle a Villar San Costanzo nel cuneese. Come vedi, qualcosa che ci accomuna si trova sempre.
Buon lavoro.
Sergio
Egregio professore Polito, tanto di cappello di fronte al suo sapere ed alla sua dotta dissertazione che, nella nota 11, ha sfiorato, onorandolo, anche il mio libro che non ha “avuto né voglia né tempo di controllare”, basando così la sua presunzione su una recensione, a firma della brava Barbara Moramarco, apparsa su Brindisi report.
Innanzitutto mi preme rassicurarla e tranquillizzarla: in ‘Viaggio nel Salento Magico’ i racconti di Nicandro di Colofone e di Ovidio sono ben distinti e, in ogni caso, in nessuno dei due si accenna ad ulivi contorti. Un po’ di confusione nel caso specifico, mi permetta, la crea Lei ritenendo l’olivastro ovidiano contorto e gli ulivi di Nicandro no. Per me potrebbe essere il contrario, o potrebbero essere entrambi contorti o entrambi ritti… cambierebbe qualcosa nell’economia della storia?
Ora, mi consenta, sommessamente così come mi hanno insegnato ci si debba rivolgere ad uno che ha 29 anni di esperienza in più, un appunto: non vi è alcuna evidenza scientifica che il luogo dei “sassi sacri”, come Lei dà per scontato, sia da identificarsi nei pressi di Giuggianello, è la tradizione che lo vuole, la stessa che si tramanda da bocca in bocca, da scritto in scritto, da sito in sito… variando. Parafrasandola potrei affermare che ad esser “preso dall’empito di nobilitare a tutti i costi con l’aiuto del mito i nostri luoghi” è stato lei e non chi Le scrive.
Mi appaga invece il fatto che, tutto sommato, siamo in sintonia d’idee per quanto riguarda le pale eoliche, tanto più che nel mio ‘Viaggio’, scritto e pubblicato ben prima del suo articolo (ma Lei non lo conosceva da qui la “sintonia d’idee”), azzardavo un paragone quando asserivo che la leggenda “[…] di Nicandro è foriera di un messaggio più che mai attuale per gli sprovveduti salentini: come allora pagarono a caro prezzo il voler sfidare un nemico presentatosi sotto mentite spoglie e furono tramutati in ulivi, così oggi, accogliendo la grande imprenditoria, straniera e non, si stanno lasciando trascinare in una sfida già persa in partenza. A farne le spese, stavolta, potrebbero essere non solo gli uomini, ma anche gli alberi e, più in generale, il territorio, coperto da colate di cemento e da schiere di pannelli fotovoltaici, costretto a dare alloggio a rifiuti, per vedere infine i suoi abitanti tramutarsi in pale eoliche […]”.
Distinti saluti. Fc
Ps: magari la prossima volta, al posto di presumere, legga le fonti originali che, nel mio caso, può trovare libreria.
Egregio signor (sono allergico ai titoli e avrei preferito che nemmeno lei avesse usato nei miei confronti “professore”) Capone, le sue (coerentemente scrivo “sue” con l’iniziale minuscola e lo stesso farò per qualche eventuale “lei”) parole confermano il mio giudizio circa la confusione contenuta nella recensione del suo libro e la sua difesa a spada tratta mi sembra ispirata solo dalla rabbia per chi ha candidamente dichiarato di non aver voluto e potuto leggere il suo lavoro.
Scendendo nel dettaglio:
1) Nicandro parla solo di generici “alberi”, Ovidio di “olivastri” ed è evidente (ma mi sembrava di averlo detto chiaramente) che proprio la superfetazione ovidiana ha contribuito a creare la leggenda di Giuggianello, il cui padre credo di aver individuato nel Lenormant della nota 5 (se lei conosce un probabile padre più antico, onomasticamente certificato, me lo faccia sapere). Per il resto sapevo e so benissimo che non ci sono evidenze scientifiche che corroborino tale individuazione (avrei citato qualcun altro oltre allo studioso francese).
2) Lei ha mai visto un olivastro? Ne dubito fortemente, perché, a parte il suffisso abbastanza eloquente, se l’avesse visto, saprebbe che la sua struttura, proprio per essere rimasto libero di crescere come voleva, rarissimamente non è contorta.
3) Lei si è sentito offeso perché coinvolto in una delle due ipotesi prospettate da me, si badi bene, l’una escludente l’altra. Ora sappiamo che la colpa è della brava signora Barbara Moramarco, il cui intervento difensivo lei neppure può immaginare quanto io desideri.
4) Mi pare fuori luogo rivendicare la paternità delle considerazioni che le due leggende avrebbero ispirato anche al loro più sprovveduto lettore, soprattutto in concomitanza con gli ultimi eventi che hanno coinvolto il simbolo della nostra terra e che hanno riversato su questo portale, e prima ancora su “Spigolature salentine”, un numero impressionante di interventi, molti dei quali ben anteriori all’uscita del suo libro.
5) Mi pare ridicolo, perché totalmente infondato, il suo suggerimento di leggermi le fonti originali, cioè lei, anziché gli autori latini e greci, che ho riportato, o ostrogoti, la cui citazione ho rimandato alla prossima volta … A proposito di fonti: ho riportato correttamente i testi antichi e va tutto liscio nella mia traduzione? O gli “alberi” di Nicandro dovevano essere resi con “olivi”, anche perché, direbbe il senatore Razzi, se un albero può essere olivo, certamente l’olivo è un albero?
6) Mi pare, infine, di pessimo gusto l’invito a leggere il suo saggio non in biblioteca ma in libreria, naturalmente dopo averlo acquistato …
Armando Polito