di Rocco Boccadamo
L’odierna giornata di venerdì è nata, andata avanti e terminata, ininterrottamente immersa in un’ovatta color grigio scuro di brutto tempo, sotto la pioggia senza un attimo di tregua, tanto da scoraggiare i progetti di uscita per una passeggiata in giro.
Condizioni climatiche a parte, di buonora, nell’abituale dormiveglia rilassato e rilassante del fango, non so come sia successo, il pensiero del ragazzo di ieri ha avuto per oggetto e obiettivo un amico, R., coetaneo novembrino del 1941, appartenente a una famiglia compaesana numerosa, penultimo di ben sette figli, fra maschi e femmine, l’unico del nucleo ad aver avuto spontanea e precisa predisposizione per lo studio.
Un bravo soggetto, R., educato e compito sin da piccolo, anche se un po’ timido e introverso. Dopo le elementari, frequentate con il medesimo maestro Alfredo, abbiamo proseguito, insieme e parallelamente, anche le medie e i primi corsi delle superiori.
Sennonché, intorno ai diciassette anni, R. rimase vittima di un malaugurato incidente domestico, precipitando dal tetto, sfondatosi, di un vano deposito situato nel giardino di casa e fracassandosi più parti del corpo, con danni gravi, in particolare, al femore di una gamba. Passaggio tristissimo per il buon R., serbo ancora davanti agli occhi l’arto sospeso o appeso in alto, rispetto al letto, per lungo tempo, fra i dolori e le sofferenze del mio povero amico.
La caduta si riverberò talmente pesante, tra iter di guarigione sommaria, rieducazione, eccetera, con vai e vieni ripetuti da casa all’ospedale, da impedire all’interessato di iscriversi regolarmente e frequentare i corsi a scuola, subendo, in pratica, la perdita di un anno.
Per via del buon legame che ci univa da sempre, nella circostanza dell’infortunio, ricordo di essere stato particolarmente vicino all’amico, sovente mi trattenevo accanto al suo letto, quasi alla stregua degli stretti familiari, seguivo tutte le fasi sanitarie e di recupero.
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Dicevo, prima, che R. era un soggetto buono, riservato e introverso. Alla luce di ciò, talvolta finiva con l’essere oggetto di scherzi, critiche o burle maliziose per opera dei compagni pari età.
Ad esempio, in un certo periodo, suo padre gestiva, nella piazza del paese, un esercizio di macelleria, contraddistinto dall’insegna, del resto comunissima, “CARNI SCELTE”. Noi del gruppo di amiconi, tutte le mattine impattavamo in primo piano con detta insegna, giacché attigua alla fermata della corriera per Maglie e Lecce e, ogni volta, restavamo colpiti dalla coppia di parole, invero in netto contrasto, tutt’altra cosa nell’enunciazione, rispetto al corno, di mucca o di bue, che restava abitualmente appeso a un gancio, fissato sul muro fuori dall’esercizio commerciale.
Facile quindi, in occasione degli incontri con R., contestargli, con tono di sfottò, quella contraddizione, osservandogli letteralmente: ”Figurarsi se non si trattasse di carni scelte! Chissà quali schifezze vedremmo appese!”. E via a ridere, lo faceva anche R.
In una successiva stagione, il genitore si occupava della vendita di meloni e angurie, fatti arrivare dalle zone di produzione del brindisino; in questa circostanza, Renato soleva dare una mano all’attività, collaborando alla vendita e, però, noi discoli, se per caso capitava qualche frutto sfatto o ammaccato, non perdevamo l’occasione per rinfacciargli la bassa qualità della merce.
In un’altra fase, ancora, gli affari di famiglia erano incentrati sulla conduzione di un bar, comprendente fra il resto, la produzione artigianale di piccoli quantitativi di gelato, attraverso un recipiente di metallo cilindrico, immerso in un tino pieno di ghiaccio, che si faceva ruotare per mezzo di una manovella, sino a ottenere il congelamento della materia prima, in una piccola serie di gusti, approntata e immessa nell’aggeggio in precedenza.
Anche intorno a quest’ultimo business, non mancavano gli amici bontemponi, magari per cercare di rimediare qualche mezzo cono di gelato, pronti in ogni caso a prendere bonariamente di mira il buon R.
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Superate, per fortuna, la parentesi e le conseguenze della brutta caduta, R. andò a frequentare la penultima classe delle superiori, mentre io, contemporaneamente, iniziavo la quinta e ultima classe. Analogamente al passato, egli non fece il pendolare con la corriera delle Sud Est, ma restò in pensione presso una famiglia di Maglie. Quella volta, anch’io decisi di regolarmi allo stesso modo e, così, divenni compagno di pensione di R. nella cittadina, in via Vittorio Emanuele, 223.
Si badi bene, eravamo ospiti in un piccolo appartamento: già vi abitavano la padrona di casa e la sua bimba di pochi anni e, perciò, i due pensionanti studenti erano sistemati con due lettini in una stanza all’interno verso il giardinetto di casa, dove trovava posto anche un tavolino per la consumazione dei pasti e per studiare; insomma, certamente niente da Grand’Hotel e neppure da moderno bed & breakfast, ma, in compenso, eravamo più comodi per andare e tornare da scuola.
R., chiaramente, era abituato a quel genere di soggiorno a Maglie, conosceva la località a fondo, era solito recarsi sovente a vedere qualche film in uno dei due cinematografi, il Moderno e l’Oriente, rammento che era un fan dell’allora giovane, bellissima e anche brava attrice italiana Sofia Loren.
Io, invece, appena arrivato dal paesello, non era affatto un assiduo frequentatore di cinematografi e, però, attraverso qualche rotocalco che mi capitava di sfogliare, conoscevo e ammiravo due giovanissime attricette, le cosiddette “cognatine” Lorella De Luca e Alessandra Panaro, le quali avevano interpretato qualche pellicola popolare e commerciale insieme a una coppia di attori giovani, Renato Salvatore Maurizio Arena, nel ruolo di fidanzatine dei medesimi.
Così, talora, mi avventuravo a intavolare discussioni con R., sostenendo che, a mio avviso, le “cognatine” non erano da meno della Loren e, di sicuro, la sopravanzavano in fatto di avvenenza fisica. Il mio interlocutore, ovviamente, non ci stava, sicché l’esercizio dialettico sul tema, con l’intento del sottoscritto di stuzzicare, si rinnovava frequentemente.
Il mio forte e consolidato legame con il paesello natio, ogni qualvolta arrivava la fine della settimana, non mi lasciava prendere pace, per il giorno di vacanza volevo ritornare a ogni costo a Marittima, per poi rientrare a Maglie la domenica sera. Non solo, ma insistevo con R. affinché mi facesse compagnia, in genere l’amico mi rispondeva di non volerne sapere, ma poi si arrendeva.
Con pochi spiccioli in tasca, ci toccava arrangiarci per ciò che riguarda il viaggio: un furgone o un autocarro di passaggio e, in extremis, qualche traino, bastava che si riuscisse a coprire il percorso di diciotto chilometri, senza alcuna importanza se con un’oretta di tempo in più.
Sempre per celiare con l’amico, io avevo addirittura la sfacciataggine, mentre il mezzo di trasporto che avevamo trovato arrivava a superare Sanarica e si andava avvicinando a Poggiardo, di tirar fuori l’esclamazione: “Renato, a questo punto, credimi, ho già l’impressione di respirare l’aria di casa”, e lui sistematicamente a replicare stizzito: “Dai, sei proprio fissato, non cercare di coinvolgermi con le tue manie”.
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L’anno scolastico dei due pensionanti, intanto, andava passando. Mi sovviene che R. aveva un’amica nei paraggi della nostra temporanea dimora magliese, una ragazza occhialuta, timida forse più di lui, e che ogni tanto andava a trovarla. Per la piena verità, più frequentemente era lei che veniva a incontrare R. fra le mura che ci ospitavano.
In seguito, quel legame inizialmente sommario e un po’ impacciato ha finito col consolidarsi, R. ,una volta diplomatosi e entrato nel mondo del lavoro, si determinò a sposare la ragazza in questione, insieme hanno fatto una figlia e hanno una nipote ormai già adulta.
R., col titolo di ragioniere, trovò un impiego presso la più grande Cassa di Risparmio italiana, a Milano, lì occupandosi per lunghissimi anni di credito fondiario; ovviamente, a suo tempo, ha messo casa nel capoluogo lombardo, dove tuttora risiede.
Ad ogni modo, d’estate, non manca di rimpatriare per qualche tempo nella natia Marittima, cosicché, ci capita d’incontrarci e di scambiarci qualche sorriso di allegria, nel ricordo delle antiche e spensierate frequentazioni. Mi piace, in ogni occasione, ricordare a R. che, prima di trasferirsi a Milano, quasi mezzo secolo addietro, egli si trovò a partecipare al mio matrimonio e, inoltre, guidando la macchina di un suo fratello, una Fiat 1500, accompagnò i novelli sposi, nel pomeriggio, alla stazione ferroviaria di Lecce, per l’inizio del loro viaggio di nozze.
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Annotavo, in apertura, che oggi, qui ad Abano, è stata una giornata da lupi, accompagnata da incessanti scrosci d’acqua: ciononostante, alcuni ospiti dell’hotel, forse tedeschi, non hanno voluto rinunciare alla nuotata nella piscina termale all’aperto, mentre lo scrivente, più italianamente, si è limitato a scattare un’istantanea della medesima vasca, senza in alcun modo bagnarsi, dal balconcino della propria camera.