Li fiuri de la Pathria. Recisi combattendo sul Carso, credendo nell’Italia

Fernando Rausa,  Li fiuri de la Pathria (I fiori della Patria),   
Poesie sulla Grande Guerra, a cura di Paolo Rausa,
progetto grafico di Ornella Bongiorni

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Sull’Altopiano di Asiago alle falde del Monte Ortigara, un giorno di luglio alle ore 22, la richiesta della parola d’ordine: “Altolà chi va là?”. “Alpini” è la risposta. “Alpini no basta. Parola d’ordine!” – è la replica. “Traminer, Malvasia, e Vitovska.” – risponde il nuovo arrivato come lasciapassare. “Vito cossa?” – non capisce. “Xe vin de Trieste.” – non può non conoscerlo. “Allora passa, can de l’ostia” – riconosce così il fratello. Nello scambio di battute nei dialetti veneti e lombardi si configura il luogo del dramma della Grande Guerra, che il prossimo anno conta cento anni dall’inizio delle ostilità. Il giornalista Paolo Rumiz ha percorso in lungo e in largo i luoghi della memoria, 600 km di fronte da Trieste al gruppo Adamello, ha trascritto le cronache di questi viaggi immaginando le trincee strapiene di soldati in attesa di essere mandati al macello sotto i colpi delle mitraglie del nemico, mentre il regista Alessandro Scillitani fissava momenti ed emozioni in un video, pubblicato con il titolo  “La Grande Guerra. I sentieri del sangue perduto”.

Il viaggio inizia da Trieste, città natale di Paolo Rumiz, contesa all’Impero Austro-Ungarico, mentre immagina di vedere giungere nel porto le salme dell’arciduca d’Austria e della consorte, uccisi nell’attentato di Sarajevo e traslati sul treno per Vienna, il 2 luglio 1914.

Il giornalista ci tiene a far sapere che questa storia è da Trieste che deve iniziare, ma qui come in Trentino gli avvenimenti prendono corso sotto un’altra bandiera e non nel maggio del 1915, come è stato fatto credere finora agli italiani, ma ‘in quel mattino di luglio del 1914. Un anno in più da raccontare.”

Abbiamo premesso all’opera poetica di Fernando Rausa da Poggiardo (Lecce) la cronaca della Grande Guerra e le riprese nei luoghi della memoria.

A più di mille chilometri di distanza, nel profondo  sud-est dell’Italia, un fervente italiano nel 1972 vergava il suo poema dedicato  ai simboli dell’Italia redenta e a quegli eroi che lì si erano immolati per un futuro migliore per sé e per i propri figli. Resta da capire se ne valeva la pena per i costi in vite umane e per i risultati conseguiti, a distanza di un quarantennio. Il poeta sa che scrive su dettatura dello spirito, del demone che lo possiede, e sa che ricordare chi ha creduto in un ideale fino allo stremo e al sacrificio della propria vita sia un’opera degna di essere compilata per noi e per i nostri figli e per questo lo ringraziamo.

 

 

Fernando Rausa  nasce a Poggiardo il 3 gennaio del 1926 e vive qui, salvo la parentesi come emigrante in Argentina negli anni 1950 e 51, fino alla morte il 25 febbraio 1977. Di  famiglia operaia, edile,  e ultimo di cinque figli, molto legato alla madre, consegue la licenza elementare con successo, titolo che allora era considerato già un notevole traguardo.

Purtroppo per lui (e per noi) la sua continuazione negli studi, seppure caldamente consigliata dalla scuola, si interrompe per le povere condizioni economiche della famiglia. Non poteva permettersi di mantenere un figlio agli studi. Inizia così l’esperienza lavorativa nei cantieri edili. Prosegue  con questa “scelta” la tradizione paterna, venendo a contatto fin da ragazzo con la dura vita lavorativa, che lo forgia, meglio la sua anima. Fondamentale risulterà la lezione di vita appresa con le esperienze di prima mano delle sofferenze sociali.

La saggezza popolare e la sobria educazione gli forniscono gli strumenti per l’impronta di rigore morale acquisita, che si manifesta in atteggiamenti dignitosi  e nella spinta al riscatto culturale dalle infime condizioni sociali. Fiuto, destrezza, professionalità nel mestiere da una parte, consapevolezza della dura realtà unita alla bonarietà e alla solidarietà dall’altra diventano la cifra della sua adesione alla vita con un atteggiamento pervaso di leggerezza ironica.

Questi sentimenti trovano espressione poetica in componimenti, per lo più improvvisati e ispirati a forme grezze ditirambiche e satiriche, tipici della tradizione licenziosa popolare, che vengono recitati nelle forme dei  “brindisi” nelle varie occasioni delle feste familiari, l’esposizione dei panni della sposa, le nozze, il battesimo ecc., e sul lavoro a compimento del tetto della casa, quando il padrone faceva interrompere la fatica della costruzione per offrire vino, formaggio fresco, polpette, pezzetti di cavallo, lupini, taralli, ecc. il tutto annaffiato da abbondante vino stillato di fresco dalle botti d’annata (il “capicanale”).

Il poeta combina insieme poesie ricordate a mente e declamate e altri appunti vergati in varie circostanze. Si accorge a un certo punto che questa produzione poetica non può correre il rischio di essere dimenticata – il tempo passa! E allora si chiede se non sia il caso di mettere nero su bianco e andare verso una prima pubblicazione, scrivendo a macchina i testi e affidando la stampa magari ad un ciclostile. I costi impediscono edizioni di pregio o almeno normali! Ecco che dalle poesie d’occasione si passa a quelle sentimentali e dalla forma ondivaga del verso a quella retta della prosa. Un romanzo d’amore, tuttora inedito, forza le porte della giovane innamorata, Antonietta. Poi ancora poesia, in lingua italiana, così così. In dialetto, lingua ‘ca mamma e tata me ‘mparasti ‘ddicu’ è copia di versificazioni. Escono le raccolte “Poggiardo mia” e “L’occhi ‘ntra mente” nel 1969, poi “Fiuri… e culuri”nel 1972 e infine “Guerra de pace” nel 1976. L’anno successivo muore.

L’oblio dopo trent’anni viene interrotto dalla ripubblicazione delle liriche, rivedute con aggiunte, di “Terra mara e nicchiarica”, introduzione dell’emerito Donato Valli, propugnatore del valore letterario dei geni salentini – bella la sua definizione di Fernando Rausa come “una voce fuori dal coro” e di “L’Umbra de la sira”.

Qui, ora, viene proposta la pubblicazione di una serie di poesie ‘patriottiche’, rimaste finora inedite. L’occasione è l’anniversario della Grande Guerra, il primo centenario, un’occasione per ripensare a questo evento bellico planetario, depurandolo dalla falsa retorica nazionalistica.

Ha senso – ci siamo chiesti – pubblicare in dialetto salentino versi che trattano avvenimenti lontani nel tempo e nello spazio? Ci siamo risposti di sì! Perché ovunque arda l’amore per la propria terra e per l’estremo atto di sacrificio, ovunque ci si ricordi di un Ettore che sotto le mura di Troia non esita ad affrontare il nemico/avversario in una sfida fatale, lì il verso sprona a veder oltre, a lacrimare sulla sventura nelle trincee della vita.

Infine per non far cadere nell’oblìo l’opera d’arte di un poeta, autodidatta, figlio del popolo, e per non dimenticare, nonostante l’eroismo profuso, il significato e il costo, in termini di perdite di vite umane e di abbrutimento generale, della guerra perché sia bandita una volta per tutte dalla coscienza dell’umanità!

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