di Elio Ria
Chi era costui? Un prete esistito nel XVI secolo, in un periodo che va dal 1520 al 1560. Fu arciprete dal 1589 al 1591 nel paese di Lucugnano frazione di Tricase, quasi nel lembo estremo del Salento: luogo che tende la mano al capo di Santa Maria di Leuca, dove le pietre sono l’icona della durezza della semplicità.
Papa Galeazzo era dedito quanto basta alle cose di Dio, con una predisposizione smisurata alla burla, fuori dai canoni, imprevedibile, cinico, giocondo, beffardo. Non si conosce il suo curriculum vitae et studiorum: le notizie riguardanti la sua vita sono scarne. I suoi culacchi sono frutto della fantasia popolare, manipolati e aggiustati nel tempo per renderli piccanti.
Un’invenzione letteraria del popolo salentino – vessato e oppresso – per menare sberle a destra e a manca ai signori e al clero. Dal ritratto del Buia, il nostro arciprete appare con il viso tondo e gonfio, due occhietti spiritati, un naso troppo dritto con narici spesse, baffi all’inglese, mento piccolo, capelli lunghi ondulati. Così come ci è stato tramandato nel disegno pare più un bonaccione che un burlone. Di statura piccola e grassottello, non disdegnava qualche approccio amoroso con la contadina del luogo.
Nei fatterelli, raccontati nel libro, curato da Michele Paone, Il Breviario di Papa Galeazzo, (edito da Congedo, 2001), il gusto morboso della risata accompagna il sentimentalismo populistico con cui sono narrati i vizi, la miseria, la frustrazione e la tipica concezione fatalistica della gente del Sud a tirare a campare, comunque.
L’agire dell’arciprete si stemperava in riparazione di errori commessi dalla gente del luogo, come incomprensioni coniugali e sociali, bisticci e altro. Consolatore degli afflitti con piglio sarcastico, come nel caso della Marchesa di Alessano sofferente per i dolori del parto, stesa sul letto di una stanza, dove su una parete era collocata l’immagine sacra di Santa Liberata. Alle implorazioni della nobildonna, Galeazzo si rivolge alla santa, a mani giunte, proferendo:
Oh, mia Santa Liberata,
Fa che dolce sia l’uscita
Come dolce fu l’entrata,
Oh, mia Santa Liberata.
La marchesa rise così tanto che il marchesino venne alla luce.
Un microcosmo, quello dell’arciprete, in cui si dipanano gli eventi spiccioli che coinvolgono protagonisti e comparse. I racconti sono ridotti alla dimensione di figurine Panini, di soldatini di collezione. Si leggono d’un fiato, alcuni divertono, altri privi di condimento letterario sono insipidi e deludono per l’overdose d’insignificanti aspetti narrativi.
Il prete nei fatti assorbe la centralità per le sue eccentriche e bislacche trovate innestate nell’umorismo campagnolo del Sud, che allora era assoggettato fin troppo alle cose dei preti e agli affari della chiesa. Un vizio che ancora la gente del Sud non riesce a scrollarsi di dosso.
Nei fatti del Breviario non è difficile, comunque, scorgere l’ironia dei valori e dei principi: la religione come arma per sottomettere anime “innocenti” e condannarle alla servitù del culto; i galantuomini che dominano sui cafoni, seppure in una condizione sociale apparente di buonismo trasfigurato in una narrazione favolistica, priva di riferimenti storiografici.
L’arciprete è una caricatura della quale manca il perfezionamento dei tratti somatici da identificare con il simbolo di rappresentatività di un’epoca che nello sfondo dei fatti di cui egli è protagonista è marginale. Spicca invece il suo spirito libero e indomito che gli fornisce gli strumenti per confezionarsi una vita senza troppi problemi perennemente in conflitto tra la realtà e l’irrealtà, tra il vero e il falso. Giocoso, bislacco, icastico irriverente, insomma assomma a sé fin troppe specificità caratteriali che lo rendono nei fatterelli adattabile a situazioni differenti. Tra l’altro era ostile e irriverente all’ortodossia e alla gerarchia ecclesiastica, e questo è inverosimile che un prete, in particolare modo nel sedicesimo secolo, si comportasse in quel modo. Valga a mo’ di esempio, il fatterello dal titolo Le reliquie di S. Cristoforo:
Tra un quarto di secolo e l’altro i Vescovi solevano procedere alla verifica delle reliquie. […] Papa Galeazzo, che non aveva reliquie da presentare[…] non volendo rinunziarvi, pensò di confezionarsi una reliquia, come infatti fece, rivestendo con un vecchio manico marocchino un bel manico di zappa […] tempestato da mille bolli di cera rossa. […]Monsignore […] giunse così all’Arciprete di Lucugnano. – Che reliquia avete portato? Domandò il Vescovo.
– Il … di S. Cristoforo, rispose Papa Galeazzo, reliquia molto miracolosa nei casi di sterilità. Eccellenza.
– I documenti?
– I documenti, Eccellenza? I documenti? Meglio documento di questo!!? rispose subito Papa Galeazzo. Quale Santo. Eccellenza, poteva portare in terra un …, che uguagliasse questo?
Invero, è irrispettoso il comportamento di Galeazzo nei confronti del Vescovo di Alessano; c’è da supporre, come in altri aneddoti che lo riguardano, che la fantasia popolare avesse davvero costruito l’episodio per manifestare il proprio disprezzo nei confronti di un clero arrogante per minarne la credibilità. Tutto questo spiegherebbe l’assenza di uno stile e di una eleganza letteraria negli aneddoti di papa Galeazzo che si perdono in episodi di scarsa vena inventiva, statici e in molti casi dozzinali, con l’unico scopo di rimediare una risata immediata come nelle migliori barzellette moderne italiane; sono pagine in cui l’ironia diventa troppo acre e la volontà di colpire si fa troppo scoperta.
Indubbiamente nelle facezie dell’arciprete vi è il gioco dei valori e dei principi, in cui prevalgono l’affermazione dell’egoismo individuale, la supremazia dei più forti, la scaltrezza della povera gente, il primato dell’utilitarismo, l’egoismo come significazione dell’altra faccia (esasperata) del bisogno. In un contesto sociale così omologato dalle necessità primarie si può comprendere l’assenza di eroi, vi sono rappresentate, invece, piccole furbizie, occasioni di imbrogli, furtarelli di fichi. Galeazzo del sistema sociale è la vittima, mai l’eroe: gli attribuiti affibbiategli dalla tradizione popolare sono troppi ed esagerati… insomma forse sarebbe il caso di reinventarlo.
CONSIDERANDO IL FATTO CHE IL FEUDO DI LUGUGNANO, FU PER UN CERTO TEMPO DI PROPRIETA’ DEL VESCOVO DI NARDO’, COME LASCITO TESTAMENTARIO DELLA NOBILDONNA DEL LUOGO. PERCIO’ PAPA GALEAZZO E I SUOI SUCCESSORI ERANO NOMINATI DIRETTAMENTE DALLA CURIA NERETINA.
FU POI VENDUTO AL COMUNE DI TRICASE IN TEMPI PIU’ MODERNI E ASSOGGETATO ALLA DIOCESI DI OTRANTO PRIMA, E SANTA MARIA DI LEUCA ULTIMAMENTE.
Il feudo di Lucugnano o Lo Cagnano o Lo Cuniano in territorio di Nardò nulla ha a che fare con Lucugnano di Tricase. Sono due realtà distinte, sia dal punto di vista geografico che amministrativo
Alla faccia di sto Galeazzo!