di Gino Schirosi
Chi è e cos’è dunque “clandestino”? La voce ha chiara origine francese: “clandestin” (lat. “clam”, di nascosto, e aggiunta mutuata dal lat. “destinare”, attaccare). Oltre ogni interpretazione etimologica e semantica, indica non solo chi, fuori dal proprio habitat naturale, cela pubblicamente il vero stato d’identità per simularne un altro, ma soprattutto chi opera senza l’approvazione e contro il divieto dell’autorità costituita, non obbedendo, volutamente o no, a norme vigenti di qualsivoglia diritto. E fin qui, senza dubbio, dovremmo essere un po’ tutti d’accordo.
Clandestino/a si attribuisce a una varietà di situazioni: giornale, foglio, pubblicazione, edizione e tipografia, bisca, lotto, gioco e scommessa, gruppo, movimento, partito e lotta, mercato, commercio e traffico, passeggero e persino matrimonio.
Non esiste però in assoluto l’uomo che sia di per sé clandestino o, se si vuole, irregolare, specie se viene a trovarsi in uno stato di necessità e di pericolo, in particolari contingenze piuttosto tragiche della storia. L’essere umano resta comunque una creatura di Dio, seppur irregolare secondo parametri istituzionali, del tutto convenzionali e variabili. Si potrebbe tuttavia definire irregolare chi, per dolo o profitto, cerchi di vivere in condizioni di clandestinità, ovvero senza documenti o con documenti falsi, all’interno di uno Stato cosiddetto di diritto; ma in ogni modo il termine ha valore relativo, in quanto non sarebbe sempre tale altrove e altrimenti, non essendo omologabili o comparabili le regole e le circostanze. Fatto è che in relazione a varie e molteplici motivazioni storiche, etno-socio-antropologiche, politiche, economiche e naturali possono esistere altre realtà mutevoli della condizione umana.
Chiunque, ufficialmente regolarizzato, acquisisce di fatto la patente di cittadino, ma per varie ragioni potrebbe finire per perdere il diritto della propria cittadinanza e assumere altra identità più o meno definitiva: nomade, apolide, migrante, emigrante, immigrato, rifugiato politico, profugo, confinato, esiliato, deportato. Tutte categorie d’individui sradicatidal proprio vissuto familiare e sociale, condannati, ovviamente contro la propria volontà, a dover affrontare ogni disagio in cerca se non di migliore fortuna almeno di un futuro diverso, migliore e garante della sopravvivenza, il che nessuno può avere il potere e la presunzione di impedire, vietare o negare.
In verità ogni uomo per natura nasce eguale agli altri suoi simili, sia “villano, papa o re”, ognuno cittadino del mondo, cosmopolita appunto, sebbene, a sua insaputa, venga registrato da una anagrafe per essere catalogato e quindi riconoscersi membro del consesso sociale d’origine, distinto da convenzioni precostituite, secondo cui solo per puro caso ciascuno si trova a nascere e/o a vivere lungo un meridiano o ad una certa latitudine, in un emisfero o in un altro, a nord o a sud del mondo, ad avere disparità di pelle, lingua, religione, costume, civiltà, diverso in tutto dal resto della sua stirpe. Per una sola ragione: sin dalla nascita è costretto ope legis dal “contratto sociale”, che identico dovrebbe appartenere a tutta l’umanità, a far parte di una ben definita e consolidata società “nazionale” circoscritta entro precisi confini, ma si trova pure schedato e inquadrato dalla legislazione vigente a convivere entro determinati schemi di una cosiddetta “patria”, che assai spesso, per svariati motivi, è persino in contrasto con concorrenti e rivali limitrofi da cui difendersi.
Non credo tuttavia che, dopo millenni, vi sia oggi qualcuno che possa vantare la sua origine autoctona, a gloriarsi della purezza del suo albero genealogico, della sua discendenza, progenie, razza. Se c’è, va ricordato che proprio la storia dell’umanità ha mutato la geografia del pianeta. È una storia infinita di guerre e di sangue, lutti, sopraffazioni, violenze, rivoluzioni, trasformazioni, perché, tutto sommato, la storia dell’uomo è la ricerca affannosa di spazi vitali, di competizione a conseguire fortune, primato, progresso. Ma è anzitutto una storia di migrazione, una fuga incessante da est verso ovest, da sud verso nord, in una corsa frenetica dalle sacche di miseria alla speranza, a cominciare dai nostri avi e dai loro antenati sin dalla notte dei tempi… A fronte di tale argomentazione ci si accorge facilmente quanto occorra riflettere e meditare con serietà senza essere banali né superficiali.
Ciò premesso, comprendo benissimo che è molto più facile definire clandestino chi, pur potendo vivere felicemente in uno Stato ordinato e tranquillo senza problemi, ad un certo punto per capriccio o per motivi futili o discutibili progetta di lasciare la sua terra, la sua casa, la sua famiglia in cerca di ventura e, solo per fare altre esperienze anche negative per sé e per la comunità ospitante, tenti d’inserirsi “subdolamente” in una nuova realtà esistenziale e sociale.
Ma come si può invece tacciare di essere “clandestino” chi, povero di tutto ma ricco solo di dignità quale essere umano al pari di noi, l’altro da noi, di noi più sventurato, rischia la vita per sfuggire ad una condizione disumana di degrado, malessere e inferiorità, di grave iattura, come tirannide, oppressione, repressione, paura, guerra, morte, miseria, fame, epidemia, precarietà, incertezza, emergenza, tutto il male che noi fortunati qui in occidente non possiamo in alcun modo conoscere né tanto meno immaginare? Costui non può essere un irregolare, perché, al di là dei documenti, va considerato un profugo, quali che siano le ragioni, politiche o economiche. Sciagure che, come spada di Damocle, notoriamente non risparmiano nessuno ed ovviamente possono capitare a chiunque, anche a chi si sente estraneo, immune o al sicuro (“Lu bbinchiatu nu’ crite lu dasciunu”).
Chiamiamoli pure come si vuole, forse più correttamente quali in realtà mostrano di essere, straccioni, indesiderati, persino “rompiballe”, e meglio spiegheremo cosa intendiamo per clandestini. Saremo più onesti e sinceri, tradendo il nostro vero volto di farisaica ipocrisia, vigliaccamente occultando la nostra indole razzista. Ma è proprio questo il punto di demarcazione, il confine che separa due avverse scuole di pensiero, due orientamenti ideologici, storicamente contrapposti. Chi vive tutelando il proprio esclusivo orticello, mentre osserva il mondo dall’alto della propria agiatezza, è indubbiamente malato di egoismo. Ma solo chi, nel benessere, guarda al di là del proprio io, per interessarsi del “prossimo”, può davvero sentirsi appagato e gratificato del proprio ruolo nella società, stando in pace con sé e con gli altri, con la propria coscienza, con l’etica dell’esistere e del consistere tra i suoi simili. Questa si chiama semplicemente carità cristiana, praticata nell’anonimato, ed è l’altruismo, che non è un brutto termine tra quelli negativi del nostro vocabolario.
In conclusione l’insegnamento evangelico non dev’essere una facciata di maniera, si realizza nella pratica quotidiana, non a chiacchiere. Sta proprio in tale interpretazione della vita il senso più profondo e positivo della civiltà. Accoglienza e ospitalità sono concetti nobili e non astratti, propri della filantropia. L’umanitarismo è appunto il fondamento sostanziale della democrazia, che, orfana di solidarietà e tolleranza, è solo demagogia e pura propaganda, deleteria e ingannevole soprattutto quando si definisce cristiana. È ciò che l’umanità dovrebbe perseguire con coraggio, ancorché sembri utopia e forse resti un sogno. Questo è comunque il pensiero di un cristiano e di un democratico, come mi sento di essere, ma non avrei dato giudizi diversi se invece fossi stato ebreo, islamico, buddista o scintoista.
La questione è sorta in occasione dell’esegesi del passo evangelico relativo alla Samaritana, ben noto per chi conosca i rapporti ostili tra Samaritani e Giudei sotto l’aspetto etnico e religioso. Al cospetto della donna straniera e sconosciuta seduta al pozzo di Giacobbe, Cristo, il giudeo, stanco e assetato, appare come un clandestino bisognoso di accoglienza e di soccorso, anzitutto del bene primario come l’acqua. Ma, si è voluto precisare, sulla terra non ci sono né devono esserci clandestini, nella misura in cui deve essere debellata la povertà insieme col bisogno ed ogni discriminazione. La ricerca di altra acqua più duratura e di altro genere di soccorso è problema che compete alla Fede, alla dottrina e al fine escatologico, per antonomasia il mistero apparentemente inesplicabile, il dogma basilare del Cristianesimo.
Protagonista don Salvatore Leopizzi, parroco di S. Antonio da Padova a Gallipoli. La sera di domenica 27-3-2011, durante l’omelia (legata al tema dell’acqua con gli inevitabili risvolti e riferimenti teologici e sociali) ha lanciato un messaggio di verità. Ha gridato con la commozione in gola e con tutta la “rabbia” covata in corpo chissà da quanto: “Cosa significa clandestino? Non ci sono clandestini nel mondo! Nessuno è clandestino!”. L’assemblea dei fedeli, in piena sintonia, è rimasta sensibilmente turbata e ammutolita, mostrando apprezzamento ma soprattutto condivisione. Per tante ragioni l’episodio meritava quanto meno un approfondimento.
La verità è che non è stato tuttora risolto un vecchio enigma, se cioè gli uomini di Chiesa abbiano diritto di curarsi esclusivamente delle anime e non anche del destino degli uomini, specie degli ultimi e derelitti soggetti passivi di un’emergenza umanitaria, occupandosi parimenti di giustizia, libertà, legalità, dignità, dei valori etici calpestati in un’epoca storica in cui è palese l’assenza di esempi positivi che provengano dall’alto. La Chiesa a buona ragione, oggi più che nel passato, allorché si sentiva sollecitata e coinvolta a sostegno di determinate istanze politiche collaterali alla vecchia classe dirigente, deve avvertire l’obbligo morale di fare da supplente a chi è latitante o distratto. Specie se la società e la politica, smarrendosi egoisticamente dietro a risibili e non sempre vaghi disegni e trasgredendo ai propri doveri e alla propria missione, sono impegnate a predicare tutt’altro, anche privilegiando con faziosità il proprio “particulare”, anteponendo gli interessi privati e personali, ma trascurando spudoratamente l’utilità pubblica, il bene comune.
Al riguardo, giusto per offrire un contributo più concreto e una risposta più adeguata al tema trattato, la figura di Don Tonino Bello, il Vangelo della carità senza pregiudizi o remore sperimentato per strada nella realtà dell’impegno sociale, sembra la più emblematica e la più esaustiva, anche perché non ha bisogno di ulteriori commenti. Ma non è più tra noi, come Padre Balducci e Padre Turoldo, altri paladini scomodi del civismo libertario e democratico. Resta la testimonianza coraggiosa di Don Luigi Ciotti, isolato nella lotta contro il malaffare e l’illegalità, a tutela quindi dei principi laici e valori etici di civiltà. Che fare? Lo priviamo della scorta, lo confiniamo all’interno di una chiesa obbligato a dir soltanto messe e a provvedere alla salvezza spirituale dei fedeli oppure lo mettiamo all’indice per il suo disimpegno nella difesa del potere oligarchico e temporale?
Una riflessione intensa e condivisa che pone nella sua grande attualità un problema centrale.
Se chi parla con grande egoismo avesse fatto almeno una volta l’esperienza del clandestino, avesse sentito il cuore in gola per la paura di essere beccato, sicuramente capirebbe e non sarebbe così duro.
Siamo tutti cittadini e siamo tutti clandestini.