Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò

guglia di Nardò

di Ugo Di Furia

 

Da sempre gli archivi degli antichi notai rappresentano una fonte indispensabile per ricostruire le vicende relative ad artisti e alle opere da essi realizzate e di cui si era persa memoria, permettendo di individuare momenti importanti delle relative carriere, di valutarne la fortuna critica presso i contemporanei e di ricavare importanti informazioni circa i rapporti con la committenza. Per quanto riguarda poi in particolare gli studi di storia dell’arte nel Mezzogiorno d’Italia, si deve aggiungere il formidabile contributo, probabilmente unico al mondo, fornito dall’Archivio Storico del Banco di Napoli che, con il suo patrimonio quasi intatto di volumi provenienti dai sette Banchi principali del Regno rappresenta, grazie alla registrazione di milioni di documenti di pagamento, una vera e propria miniera di notizie in un arco temporale che va dagli ultimi decenni del XVI fino all’XIX secolo.

Proprio grazie a queste fonti documentarie, recentemente è stato possibile individuare gli autori della statua bronzea dell’Immacolata posta a coronamento della omonima guglia della città di Bitonto[1]. Da uno strumento notarile ritrovato da Gian Giotto Borrelli, datato 2 giugno 1733, scopriamo che il padre Michele Gentile della Compagnia di Gesù su incarico di padre Michele Calamita[2] di Bitonto aveva affidato allo scultore ed orefice napoletano Carlo Schisano[3] il compito di realizzare entro il 10 novembre dello stesso anno una statua di rame di sette palmi d’altezza su disegno di Domenico Antonio Vaccaro[4]. Il compenso, condizionato all’approvazione finale dello stesso Vaccaro, ammontava a 550 ducati. Il ritrovamento anche delle polizze di pagamento emesse dal Banco dei Poveri in numero di sette fra il 3 giugno del 1733 e il 13 gennaio 1734 conferma che tutti i termini del contratto vennero rispettati[5].

Ma tra i vari strumenti di indagine a disposizione degli studiosi, oltre agli archivi e le fonti bibliografiche, vi sono anche gli antichi giornali, già ampiamente diffusi nei secoli XVII e XVIII. Pur essendo non sempre facilmente fruibili in quanto dispersi in modo  lacunoso in varie biblioteche, non solo napoletane, essi rappresentano una fonte meno conosciuta di notizie spesso inedite e di grande importanza per la storia politica ed artistica del Regno di Napoli.

Utilizzati inizialmente soprattutto dai musicologi, solo più di recente sono stati oggetto di attenzione da parte degli storici dell’arte. Un esempio della loro importanza è rappresentato dai notevoli contributi ricavati dai cosiddetti Avvisi di Napoli[6], ancora una volta per lo studio di alcune delle diverse guglie erette per devozione popolare non solo a Napoli, ma anche in varie cittadine campane e pugliesi, nel corso del XVIII secolo[7].

Già nel 1976 Teodoro Fittipaldi traeva dal numero 10 di Avvisi dell’8 febbraio 1746 il giorno in cui veniva posta la prima pietra della guglia dell’Immacolata costruita di fronte alla chiesa del Gesù Nuovo di Napoli su iniziativa di padre Francesco Pepe, i cui lavori vennero solennemente iniziati il 1 febbraio di quell’anno[8]; l’interessante documento correggeva così la data erronea del 7 dicembre 1747 dovuta ad un refuso di Pietro degli Onofri che aveva, fino ad allora, rappresentato l’unica fonte per la datazione dell’avvenimento[9].

Più recentemente, sempre dallo stesso giornale, veniva ricavata la notizia dell’inaugurazione del medesimo monumento avvenuta, in perfetta concordanza con i documenti di pagamento relativi alla sua costruzione, tra il 6 e l’8 dicembre 1754[10].

E ancora da un numero di Avvisi veniamo a conoscenza dell’inaugurazione avvenuta nel mese di agosto del 1738 (probabilmente in occasione della festa patronale) della piccola e meno conosciuta guglia di S. Rocco, eretta nella frazione Penta di Fisciano (in provincia di Salerno)[11].

Ma la notizia più interessante sull’argomento e, per certi versi sorprendente, la ricaviamo dal n. 42 del 16 settembre 1749 del medesimo giornale[12]. Essa fa riferimento ai festeggiamenti celebrati alla presenza del vescovo Francesco Carafa per l’arrivo da Napoli della statua marmorea dell’Immacolata Concezione destinata ad essere posta in cima alla guglia eretta in suo onore nella piazza principale di Nardò.

 

particolare con la statua dell'Immacolata
particolare con la statua dell’Immacolata

 

“Dalla città di Nardò siamo ragguagliati, qualmente erettosi nella Piazza principale di quella un nobile, e magnifico Obelisco, in onore della SS. VERGINE IMMACOLATA di pure limosine spontaneamente offerte, e non richieste; giunse ivi ultimamente da questa Capitale una statua di marmo finissimo di palmi nove della stessa   GRAN VERGINE IMMACOLATA, di eccellente Scoltura, da mettersi nella cima di detto Obelisco. Ricevuta processionalmente in una delle porte della Città da Mons. Vescovo D. Francesco Carafa, e da lui Pontificalmente vestito ancor benedetta fu condotta in trionfo per le principali strade riccamente adobbate, seguita dal Capitolo, Mansionarj, e Clero; coll’intervento ancora degli Ordini Regolari, di tutto il Magistrato, Nobiltà, e Popolo innumerevole tra le pubbliche acclamazioni, e continovi Viva di giubilo, tra le armoniche Melodie di ben concertati istrumenti, e tra un continuo sparo di mortaretti, e fuochi artificiali; e giunti nella pubblica Piazza fu depositata la Statua vicino all’Obelisco, ed intonato il Te Deum in rendimento di grazie si proseguirono le Feste di sparo, ed illuminazioni fino alle molte ore della Notte. Detta Statua è stata scolpita da D. Matteo Bottigliero Scultore Napolitano”[13].

 

L’importanza del documento si fonda principalmente su due dati, fino ad oggi ignoti alla critica.

Il primo è che la statua di marmo posta a coronamento dell’obelisco, costruito interamente in pietra di carparo[14], venne realizzata dal napoletano Matteo Bottigliero[15], allievo di Lorenzo Vaccaro nonché figura fondamentale nel panorama artistico napoletano di metà del XVIII secolo, negli stessi anni in cui lo scultore lavorava insieme a Francesco Pagano alla decorazione marmorea della Guglia dell’Immacolata di Napoli[16]. L’artista aveva inoltre già operato in Puglia cinque anni prima per la cattedrale di S. Eustachio ad Acquaviva delle Fonti, come attesta un documento di pagamento emesso dal Banco dello Spirito Santo il 18 luglio 1744 ritrovato da Eduardo Nappi[17], grazie al quale si trae che lo scultore riceve da tal Francesco Molignani, 235 ducati per l’esecuzione, su disegno del pittore Nicola Maria Rossi, delle statue marmoree di Santa Theopista (moglie di S. Eustachio) e dei due suoi figli; la suddetta somma, da corrispondersi solo dopo giudizio favorevole dello stesso Nicola Maria Rossi[18], comprendeva anche il loro trasporto via mare da Napoli alla marina di Bari. Oltre alle sculture di Acquaviva, è stato ipotizzato da parte di Mimma Pasculli Ferrara, sulla base di considerazioni di carattere stilistico, un possibile intervento del Bottigliero anche per i putti capo altare nelle chiese di Santa Croce a Lecce e di San Domenico a Martano[19].

La seconda notizia, non meno importante della prima, riguarda la datazione del monumento che, per quanto in maniera controversa, veniva fino ad oggi ritenuta dalla maggior parte degli studiosi di epoca successiva alla guglia napoletana dell’Immacolata (i cui lavori si conclusero come già si è detto in precedenza nel 1754) sulla base di un resoconto del vescovo Luigi Vetta sui festeggiamenti celebrati a Nardò l’8 dicembre 1854, in occasione dell’introduzione da parte di Pio IX del dogma dell’Immacolata Concezione; questi infatti affermava che in quei giorni “Nella piazza principale faceva vaghissima mostra la guglia, che, innalzata molti anni prima, ad imitazione di quella eretta nel largo della trinità maggiore di Napoli, appariva con un bel disegno illuminata, per gran numero di lumi che splendevano in vetri colorati”[20].

nardò piazza

Per la verità, nonostante l’affermazione del Vetta, che va oggi considerata erronea alla luce dei nuovi elementi a nostra disposizione, i primi autori che si erano occupati del monumento nerentino individuavano nella fine del XVII secolo l’epoca della sua costruzione[21]. In seguito l’unico studioso a dimostrarsi concorde con tale datazione sarà Giuseppe Palumbo che nel 1953 lo definisce «opera del XVII secolo» e ne attribuisce la paternità, sebbene dubitativamente, all’architetto Giovan Bernardino Genoino di Gallipoli, già artefice della cattedrale di Sant’Agata nella sua città natale[22].

Tuttavia nel 1930 Francesco Castrignanò affermerà, senza fornire alcuna prova a sostegno, che la cosiddetta “colonna” venne edificata nel 1769 su iniziativa dell’Abate Francesco Antonio Giulio, sotto il vescovato di Marco Aurelio Petrucelli, come ringraziamento per lo scampato pericolo dal terremoto del 1743[23]. Da questo momento in poi, il 1769 sarà pedissequamente indicato come anno di costruzione della guglia da quasi tutti gli studiosi che ritorneranno successivamente sull’argomento. Fra questi Giovanni Siciliano[24], Michele D’Elia e Luciano Zappegno[25], Pantaleo Ingusci[26], Emilio Mazzarella[27], Benedetto Vetere e Salvatore Micali[28], Mario Manieri Elia[29], Stefano Leopizzi e Giovanni Vernich[30], Mario Mennonna[31], Mimma Pasculli Ferrara[32] ecc. Solo Antonio Castellano nel 1976 posticiperà ulteriormente al 1775 l’anno di costruzione del monumento, anch’egli astenendosi dal riportare prove a supporto di quanto dichiarato [33], mentre Pietro Marti nel 1932 l’aveva definita “opera settecentesca di ornamentazione esuberante fino al delirio”[34].

La data del 1749 riapre anche nuovi scenari circa l’attribuzione dello spettacolare monumento. Se da un punto di vista cronologico la già citata assegnazione a Giovan Bernardino Genoino da parte di Giuseppe Palumbo può essere considerata ancora plausibile, più problematica appare invece l’ipotesi avanzata da Mario Cazzato[35] e sostenuta anche da Mimma Pasculli Ferrara[36], di riferire l’opera all’architetto copertinese Adriano Preite (1724 – 1804) la cui lunga carriera si svolse fra il 1747 e il 1797; facendo i debiti conti dovremmo accettare la difficile anche se non del tutto impossibile eventualità che un’impresa di tale portata fosse stata affidata ad un architetto non ancora venticinquenne e comunque agli inizi della carriera.

La retrodatazione di circa vent’anni della “colonna” nerentina rispetto all’anno 1769 accettato finora come riferimento dalla maggior parte degli studiosi, induce a considerare con maggiore insistenza il possibile coinvolgimento di Ferdinando Sanfelice nel progetto dell’opera. L’importante architetto napoletano, fratello di Antonio, vescovo di Nardò dal 1708 al 1736[37], sarà presente più volte in quegli anni nella città pugliese ridefinendo l’assetto urbanistico dell’area circostante il duomo con una serie di interventi, non solo nella cattedrale, ma anche nei vicini edifici del vescovato e del seminario, nonché nel monastero di Santa Chiara. Non si può escludere quindi, che già prima del terremoto del 1743 sia maturata l’idea di realizzare nel cuore della città un’opera analoga a quella sorta all’inizio degli anni Trenta a Bitonto, il cui duomo, al pari di quello di Nardò, è consacrato alla Vergine Assunta. Un eloquente indizio a sostegno di tale ipotesi, come suggerisce Giovanni De Cupertinis[38], è rappresentato dallo Studio preliminare per una guglia dell’Immacolata, schizzo a penna inserito nel Corpus Sanfeliciano del Gabinetto disegni e stampe del Museo di Capodimonte; il disegno raffigura una struttura a sviluppo verticale che racchiude allo stesso tempo elementi architettonici tipici della guglia e della colonna e che potrebbe essere espressione di un preliminare momento progettuale, poi ampiamente modificato in fase di realizzazione.

Un rinnovato interesse da parte degli studiosi supportato dall’auspicabile ritrovamento di nuovi documenti potranno in futuro fornire una risposta definitiva anche a questo interrogativo.

 

Pubblicato integralmente su Il Delfino e la Mezzaluna n°2.

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6 Commenti a Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò

  1. L’ occhio alato albertiano o del “drone” contemporaneo

    Il testo “Ecclesia Mater” pubblicato da pochi giorni nell’ambito dei quaderni degli archivi diocesani di Nardò – Gallipoli, è una raccolta di documenti utile agli studiosi e agli appassionati della storia del tempio più importante e antico di Nardò. Invece per l’apparato critico e la teoria dell’architettura applicata, altri sono i testi a cui riferirsi. Infatti dopo aver letto l’ “Ecclesia Mater”, per esempio, occorre chiedersi; da dove arriva lo schema compositivo della facciata della cattedrale? Perchè quel tipo di partitura? Perchè è stato adottato l’uso di quei registri? Dove troviamo una probabile somiglianza con la composizione della facciata di Nardò? Quindi, sarebbe necessario un alternativo esercizio intellettuale, sia per l’indagine della critica teorica, parallela alla ricerca storica, che già dal ’75 prospettò la possibile ‘varianza’ dell’impianto compositivo della facciata della cattedrale, inserendola in un discorso progettuale e di evidente transizione del lavoro del Sanfelice. Guai, infatti, a definirne una netta e compiuta conclusione a Nardò, ma bisogna interpretarla come fase di un ‘processo’ di un metodo compositivo. Quella che vediamo è una forma,’in transito’, a Nardò e che venne usata ancora dal Sanfelice per altre destinazioni e funzioni totalmente diverse (chi sa leggere l’architettura saprà seguire il percorso, quello che appartiene alle cose non scritte sui documenti e che solo la competenza critica sa individuare). Interessante sarebbe studiarne, ad esempio, la gerarchia degli ordini classici adottati, oppure potrebbe essere utile fermare l’attenzione alla lettura degli attributi previsti (statue, fregi, decorazioni) e non realizzati o realizzati diversamente dalla visione iniziale e quelli che il tempo poi ha cancellato, quindi, sulla scelta sua ‘antiquaria’. Oppure ricercare la genesi della soluzione dell’ingresso della Cattedrale di Nardò, quel profilo particolare a sesto ribassato, che il Sanfelice forse usò, nella cornice all’interno della chiesa di Sant’Ignazio a Sulmona il cui disegno era già stato approvato nel 1713 (è da notare che la facciata della cattedrale è solo finita nel 1725, ma molto probabilmente, almeno una decina di anni prima lo schema già esisteva). La nostra storia è dunque in “progress”. Come ho già accennato, si sta riscrivendo, proprio in questo periodo. D’altronde, come ha evidenziato il prezioso e inaspettato documento del Di Furia, sulla retrodatazione di vent’anni esatti, della guglia dell’Immacolata a Nardò, occorre ancora indagare e studiare tanto e per strade diverse. A maggior ragione, si auspica che tali testi non rimangano confinati su ipotesi e attribuzioni ‘troppo’ presunte. Ricordo che, anche nel caso della guglia, l’attribuzione al disegno, del Museo di Capodimonte, del Sanfelice, è probabile, ma nello stesso tempo, ritengo sia obbligatoria, l’analisi tra le opere del Fanzago e il Vaccaro, per comprendere poi, il segno del Sanfelice. Il tema della ‘guglia’ è stato infatti un esercizio comune agli architetti del tempo, le manifestazioni religiose i carri allegorici, le scene dei misteri mobili, ed il contesto storico, le prevedevano come ‘struttura mirabile’ (mobile, effimera, pietrificata). La ‘guglia’ del Sanfelice allora è un esercizio ‘alla maniera’ dei suoi maestri o contemporanei (Fanzago,Vaccaro, Picchiatti, Genuino), ed è diversa nella realizzazione di Nardò, ma simile, per la risultante sommatoria dei codici classici giustapposti (comprese le immancabili allungate ellittiche volute ‘gocciolanti’ che la Cantone descrive come “un frutto aperto”. Quelle non esistono a Nardò, ma sono tipiche dell’apparato sei-settecentesco fanzaghiano. Dunque era una pratica molto usata quella di preparare ‘guglie’ come interni di chiese, statue, frontoni spezzati, cartigli, putti o fregi e festoni generici, da adattare a seconda dei casi per l’alta frequenza delle scene da preparare e gli apparati da allestire. Basti pensare che solo la guglia di San Gennaro, acquistò una popolarità tale che gli ordini religiosi più importanti (Teatini, Domenicani e Gesuiti) ne vollero costruire tre, quindi nacquero quella di S. Gaetano, S. Domenico e dell’Immacolata). Vennero ispirate le piramidi di Nicolò Tagliacozzi Canale, del Sanfelice, quella di piazza Graben a Vienna o in piazza del Trionfo a Siviglia. Ritengo che certi studi locali, ancora facciano fatica ad evidenziare la determinante stagione dell’architettura effimera, ponendola in luoghi decentrati, ma che senza la quale, oggi non avremmo, tanto arredo urbano (fontane, obelischi, guglie, facciate chiostri, altari, pulpiti, ecc…), di altissimo livello.
    La tanto auspicata osservazione dei dettagli, nel gioco micro/macro della realtà, nell’interpretazione dell’arte e dell’architettura e, nella descrizione delle cose, “…è il luogo dove si cela il buon Dio”, come diceva Aby Warburg. Ma ora assume un significato più chiaro visto che la sua traduzione è semplificata (per coloro che non conoscevano il fenomeno) dalla funzionalità di un “drone” (una telecamera quadricottera, volante e telecomandata) che si presta a questo processo di conoscenza . Prorio il “drone”, possiamo allora concludere, non è altro che la forma apparente o il vestito tecnologico, dell’ “occhio alato” albertiano, necessario, fondante e anticipato concettualmente nei miei scritti. Ora ne possediamo, grazie alla creatività e alla sperimentazione, la verifica del suo potere ‘volante’ e indagatore. Ciò che il nostro occhio, quello dell’intelletto, della curiosità e della conoscenza, in effetti, ha sempre realizzato ma che il “drone” rinnoverà o… rinominerà.
    proviamo con questo link:

  2. Caro Marcello, come sempre preziosi sono gli scritti tuoi e degli amici che vergano il ostro sito. Rispetto a questo un dubbio solo mi rimane aperto. Se non rammento male la Bolla Ineffabili Deus con la quale Pio IX dichiara il Dogma della Immacolata Concezione viene pubblicata l’8 dicembre 1854. Trovo curioso e molto interessante che venissero erette effigi e statue a tale culto ben prima che ciò venisse certificato da Santa Madre Chiesa, Anche tenendo conto del peso della parola Eresia nei tempi antichi. Esiste qualcuno in grado di coniugare questa aporìa? Ve ne sarei molto grato. Anche per datare le mie “Pittule te la MMaculata”!!!

  3. Infatti nel documento citato (n. 42 del 16 settembre 1749 di Avvisi) si parla ripetutamente di “Vergine immacolata”; il riferimento, dunque, non è al dogma dell’”Immacolata Concezione” (che riguarda l’immunità della Madonna dal peccato originale) ma al concepimento di Cristo senza rapporto sessuale. Inoltre nel post, poco dopo, a proposito del Vetta, il refuso “8 dicembre 1754” va corretto in “8 dicembre 1854”.

  4. Ancora note e approfondimenti ‘intorno’ alla guglia dell’ Immacolata di Nardò da:

    Il Salento delle città apparate: i caratteri sensibili dell’arte e il tono di comunicare la sua storia

    … E ancora, ‘cimasa’ come quella della Guglia di piazza Salandra a Nardò che, dalle ultime notizie, anche quelle del recente documento del Di Furia, parrebbe attinente ai disegni dello ‘slancio’ grafico (quasi un puntale) dell’apice, del disegno del Sanfelice, come diversi autori hanno evidenziato. Sembrerebbe importante, secondo me, non tralasciare, l’esercizio del precedente Fanzago, per il disegno della guglia di San Gennaro dell’Archivio della cappella del tesoro che andrebbe rivalutato, alla luce di un uso particolare degli elementi classici reinterpretati e creativamente rielaborati. Infatti sia il Fanzago prima e il Sanfelice dopo, appongono lo stesso segno ad una struttura già data. Tracciano delle curve, simili (a goccia) disegnate però sul fusto di una colonna, ‘moralizzandola’. L’intento o il salto concettuale credo, non possa risultare leggibile e neanche percepibile, nel caso di Nardò, non esistendo il fusto della colonna (come elemento archeologico ritrovato e da cristianizzare obbligandolo ad un ‘basamento’ e ad un ‘coronamento’ devozionale) come concetto classico e principio compositivo della guglia neritina stessa. Invece ritengo, che tale opera, sia straordinariamente rispettosa, del lavoro sperimentale, nell’uso degli attributi fanzaghiani più che sanfeliciani. Occorrerebbe infatti riconoscere l’importanza e l’incredibile ‘recupero’ della terminologia classica che domina la struttura, sommessamente in sintonia col lineare-architettonico del manierismo tarantiniano (cartigli e riquadri floreali appesi come drappi), presente a poche decine di metri, sulla facciata del S. Domenico, ma dal quale, però poi, decisamente si discosta, per l’uso di una geometria classicista, pesante, ridondante e surreale, inserita nel gioco micro/macro (fuori scala). Una pratica artistica legata strettamente alla consueta applicazione artigianale d’apparato (evidente l’utilizzo ancora una volta ‘della riserva’ di attributi della filologia antiquaria) ad una macchina devozionale. Gioco facile per una guglia derivata dalle fantastiche macchine da festa, ma con un approccio scultoreo e compositivo che la Cantone riferisce giustamente, (per il Fanzago) all’ornatus delle figurae della retorica, qui presenti come parole e pensiero tramutato in immagini scolpite.

    A favore di questa mia ipotesi fanzaghiana, della guglia neritina osserviamo la serie, ai diversi livelli dell’opera, di triglifi decontestualizzati dal fregio, anche se con grandi gocce, allegate e qui, però, trasformate in ‘pendagli’ da baldacchino o da corde di gonfalone o funi di drappo che orna oggetti sacri. Poi si notano volute a cartiglio che si rinchiudono o ancora piccoli obelischi, rosette (che conosciamo già) e, al primo livello, l’enorme fuori scala del cornicione. Il grande ‘toro’ infatti mostra la fusione linguistica tra una gigantesca modanatura ad ovuli e nello stesso tempo, richiama i contenitori dei trasparenti reliquiari e ancora il bordo cesellato dagli argentieri napoletani per le basi di candelabri, dei ceri pasquali, dei leggii, dei turiboli o dei calici. Anche se per alcuni versi la mole della guglia, nella sua base grossolana e possente, riporta alle nostalgiche vedute dei “Capricci con rovine” del Coccorante. Certo, molte cose sono da verificare, ma la predisposizione ad ‘ipotizzare’ seguendo le logiche delle direzioni dettate dal contesto storico del tempo (anche sulla base della storia dell’arte, delle tradizioni devozionali e dell’effimero architettonico piuttosto che dei documenti) affina il percorso di studio nel procedere a costruire altre intuizioni, continuamente rielaborate da studi ricerche e confronti (non dimentichiamo che il Di Furia retrodata di vent’anni la guglia di Nardò, parlando della festa per la presenza della statua dell’ Immacolata, appena arrivata dalla città partenopea, dello scultore Bottiglieri e che avrebbe completato l’apparato. Ma su quale schema di progetto, fu poi realizzata, invece la guglia? Rimane per ora un quesito interessante da affronatre. Se il gesuita (ricordo volentieri che i gesuiti e i domenicani erano i colti ‘gestori’ del lessico devozionale applicato alla città, conoscevano bene l’uso dei ‘segni’, del loro ‘senso’ in relazione al ‘luogo’. Quindi, la guglia diventa segno dislocato e polo sacro d’attrazione lungo le vie dei misteri) Pepe ispira il Genoino a Napoli per la guglia dell’Immacolata, chi sarà stato l’ispiratore per quella forma e quello stile della guglia, a Nardò? Penso che il lavoro e l’esperienza fanzaghiana (conosciuta e diffusamente adottata) sia stata importante per un possibile riferimento formale e stilistico dell’opera neritina e certamente per i suoi ‘colti’ committenti .

    http://culturasalentina.wordpress.com/2013/11/25/il-salento-delle-citta-apparate-i-caratteri-sensibili-dellarte-e-il-tono-di-comunicare-la-sua-storia/

  5. Naturalmente, da quando dedotto anche dal mio lavoro di curatore e studioso di storia, approcciando e ricercando in embrione tutte quelle ‘azioni’ o quegli ‘eventi’ che contribuiscono ad isolare o scoprire inattese forme d’arte, utili ad aprire spazi ed a svelare ‘finestre’ sul nostro patrimonio, si può percepire che, appena permetteremo ad un “drone” di entrare all’interno (opera ed evento concettualmente rivoluzionario) nei nostri templi più preziosi, investiremo di una nuova funzione le sue immagini. Entità architettoniche monumentali esplorate ed osservate in maniera diversa, sicuramente allora, avremo l’adeguato ed opportuno strumento di indagine per avvicinarci ad una realtà sensibile importante. L’architettura e l’arte, esplorate e condivise in questa maniera, di certo apriranno strade alternative alla conquista di uno spazio ancora tutto da comprendere ed interpretare. Struttureremo e rinnoveremo quel discorso antico che aveva già posto le premesse della continuità; incrementare di ‘senso’ il prezioso luogo della “liturgia” elargendo episodi e spazio per il “rito”, grazie all’apparato “simbolico”. Tutte categorie di elementi fondanti, partecipi del percorso moralizzante, della conoscenza verso la verità. Se lo strumento tecnologico contemporaneo de “l’occhio alato albertiano o del ‘drone’ contemporaneo”, realizzasse un percorso che dall’esterno delle vie del tessuto urbano, con le dovute cautele, entrasse nei templi, allora il cammino ‘memorativo’ di matrice immaginifica-meditativa, prettamente pre-medievale, acquisirebbe un’incredibile rilevanza concettuale e pratica. Vie e stradine esterne che diventano navate, piazze o slarghi che diventano le soste prima di contemplare le facciate delle chiese che diventano altari e cappelle, obelischi e guglie che diventano candelabri o cibori appartenenti ai percorsi del ‘rito’. Per questa funzione, tutte queste cose, sono state ideate e create.
    Succede a volte che, cambiando punto d’osservazione può, aprirsi una strada nuova e così, riscriversi la nostra storia, quella di sempre, ma più vicina a noi.

  6. La guglia dell’Immacolata rimane incastrata nella vista della stretta “via duomo”, proprio all’uscita laterale della Cattedrale e dall’uscita laterale, su Corso Vittorio Emanuele II, della Chiesa del Carmine. Il dispositivo è perfetto, non sbaglia mai! L’ Immacolata rivolta al sorgere del sole intercede guardando in alto. Sua madre, S. Anna, chiude, alle sue spalle, il tempo di ogni giorno! Dunque l’accensione della “stella matutina” o del marmo bianco sull’apice della scura guglia, con il primo sole, rimane simbolo di luce nuova, dall’alba del primo giorno dopo la sua collocazione (1749, all’indomani del tragico terremoto del 1743), fino ad oggi. Se sul piano, un punto è individuato da due rette, allora dai due luoghi, (all’uscita della Cattedrale, e all’uscita del Carmine, Ella doveva apparire, magari dopo la prima messa mattutina, brillare di speranza.
    Una scena urbana progettata secondo triangolazioni devozionali ben congegnate e ancora perfettamente funzionanti, un “apparatura” teatrale come testo da leggere e rinnovare per sempre.

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