di Nino Pensabene
Nessuno immagina la ‘rabbia’ e nello stesso tempo l’affettuosa invidia che d’estate provo nel vedere i turisti che, con i polmoni saturi d’ossigeno, se la danno a passeggiare per il centro storico di Copertino godendosi tutte le meraviglie architettoniche e artistiche della città. Loro non dormono in paese: a conclusione dei tours, organizzati o non, si ritirano o nei paesi di mare da dove si spostano per le escursioni turistiche o, se villeggiano in paese, negli alberghi o nei bed & breakfast situati nelle periferie, dicat all’aria aperta, quasi in campagna.
Il centro storico di Copertino, anticamente racchiuso nelle mura di cinta, delizioso nella sua architettura medioevale e caratteristico nella sua proporzionata piccolezza, tanto da sembrare una bomboniera posata nell’aperta campagna, oggi è imprigionato in una morsa di cemento, sprofondato come in una valle irrespirabile per mancanza d’aria, tanto da essere guardato – da chi ci vive stabilmente – come abitato da una folla di martiri che agonizzano in una fossa di leoni.
La campagna che lo contornava, avvolgendolo di aromi e profumi, e facendolo apparire come l’abitazione plurifamiliare in un’enorme villa, è ormai un ricordo lontano, sostituita da grandi e alti palazzoni che non solo tolgono il respiro financo ai tufi o a lli liccìse che decorano la parte nobiledell’antico borgo, ma ne influenzano lo stato di buona conservazione, determinandone, addirittura, affrettatamente, la corrosione attraverso il morboso inquinamento.
Chi scrive ne parla con cognizione di causa, essendo uno dei ‘martiri’ che d’estate, pur trascorrendo le serate (o le notti) sulle più alte terrazze di casa, si trova a non respirare come se vivesse in fondo ad una valle o peggio ancora in una fossa. E inutile sarebbe salire ed affacciarsi alla torretta belvedere, elemento che, neanche a farlo apposta, ha seguito la decadenza di tutte le nobiltà sociali, comprese le aristocrazie civili, militari ed ecclesiastiche. Per via della nuova allargatissima pianta urbanistica della città, la torretta è andata in pensione, perdendo tutte le funzioni che la caratterizzavano fino alla prima metà del Novecento, quando ancora, salendo, la si poteva sfruttare sia nella versione terapeutica respiratoria sia in quella paesaggistica naturale.
Finché è vissuta la Giulietta vi salivamo una volta l’anno, e precisamente l’ultima sera della festa di San Giuseppe, quando l’altezza ci aiutava a goderci meglio lo spettacolo dei meravigliosi fuochi pirotecnici, nella cui fabbricazione gli artigiani salentini sembra siano dei veri maestri specializzati.
Ma chi può immaginare cos’è stata la torretta per le generazioni che ci hanno preceduto, quando appunto, oltre le mura di cinta, Copertino era ancora tutto campagna? Il bisnonno Giuseppe*, tanto per fare qualche esempio, la sfruttava tangibilmente tutte le volte che – tramite messaggio di un servitore arrivato, qualche giorno prima, a piedi o a dorso di mulo – sapeva di stare a ricevere la visita della figlia Amalia (la nonna di Giulietta), la quale, avendo alla fine dell’Ottocento, sposato un signore di Salice (Don Felice Capocelli*) , era andata a vivere in quel paese. Con un bel binocolo in mano, da sopra la torretta ne vigilava così l’arrivo in carrozza; cosa che faceva anche per il viaggio di ritorno, per lo meno fino a Leverano, e – alberi permettendo – anche per qualche altro tratto fuori dal paese.
Torrette, carrozze, binocoli: lussi da signori, nel contesto di un mondo privo di cellulari o telefoni fissi, di mezzi motorizzati o di strade illuminate, non dimenticando oltretutto che siamo in un’epoca quando i briganti derubavano quei pochi che si azzardavano ad affrontare la strada, per cui il viaggio si doveva concludere entro l’imbrunire non solo per motivi logistici ma anche per paure legate alla sopravvivenza. Oggi non abbiamo l’idea di quante difficoltà fosse costellato il vivere in quel tempo, e già mi riferisco a persone privilegiate che potevano appunto permettersi tutte quelle comodità che facilitavano il correre dell’esistenza, prima fra tutte la possibilità di avere altri esseri umani come servitori.
Non mi è stato detto, né credo potesse essere attribuito alla condotta degli appartenenti a questa famiglia, tramandata come dotata di virtù benefiche nei confronti del prossimo, ma parlando di difficoltà esistenziali e differenze di classe il mio pensiero corre alla torretta, al binocolo e ai contadini che lavorando nelle vicinissime campagne potevano essere controllati alla stregua di chi si trovasse a lavorare con il padrone accanto, intimorito e condizionato pure nel desiderio di raccogliere un frutto per mangiarlo.
Non posso non concludere queste note senza fare ancora una volta riferimento ai turisti: è vero, loro di giorno si godono i centri storici e di notte respirano all’aria aperta, ma è pur vero che io, incallito eremita, dalle mie terrazze, mi godo un paesaggio a loro precluso: le tre torri, quella campanaria, quella dell’orologio e quella di palazzo Verdesca Zain (dalla Giulietta ribattezzato “Casa dei Poeti”); tre torri che, stando a pochi metri una dall’altra, fanno quasi da sentinelle (una al centro, una a destra e una a sinistra) all’antica “Piazza” di Copertino, ma che soltanto da pochissime terrazze si offrono in uno spettacolo unico, soprattutto quando – all’imbrunire – le rondini, impazzendo di gioia, ti fanno volare con loro da una torre all’altra, dando conferma – per chi non lo sapesse – che questo è il paese del Santo dei Voli.
* Ho citato i nomi, esclusivamente per dei riferimenti storici: il nonno Felice, così come parecchi appartenenti alla famiglia Capocelli sono citati nei libri di Storia Salicese, così come il bisnonno Giuseppe è citato nel libro “Tre santi e una campagna”.