di Armando Polito
Come annunciato alla fine della precedente puntata, sul melograno testimonieranno ora gli autori latini.
Marco Porcio Catone (III-II secolo a. C.), De agricultura, 7, 51 e 126: ”(Pianta) alberi da frutto, meli cotogni piccoli, meli cotogni scanziani, quiriniani, pure altre specie per preparare conserve, meli (che producono frutti) dolci come il mosto e melograni; lì conviene aggiungere alla radice orina di maiale o sterco, perché diventi cibo delle piante”; “I polloni che nasceranno dall’albero lontani da terra premili sotto terra e togli l’estremità affinché radichi; poi dopo due anni estraili e piantali. Conviene che il fico, l’olivo, il melograno, il melo cotogno e tutti gli altri alberi da frutto, l’alloro, il mirto, le noci di Preneste, il platano, tutti si propaghino dall’estremità e che siano cavati e piantati in tal modo”, “Contro le coliche e le diarree e se danno fastidio tenie e vermi, prendi trenta melagrane acerbe, pestale, mettile in un orcio e versa tre congi di vino nero aspro. Sigilla con pece l’orcio. Dopo trenta giorni aprilo e usane il contenuto; bevine a digiuno un’emina”.
Marco Terenzio Varrone Reatino (II°-I° secolo a. C.): De agricultura, I, 59:“…le melagrane [secondo alcuni vanno conservate] in un contenitore [pieno] di sabbia dopo aver eliminato i loro peduncoli….Le melagrane (si conservano) anche nella sabbia già raccolte e mature e pure acerbe, ancora attaccate al loro ramo, poste in una pentola senza fondo; e se le metti nella terra e sistemi questa intorno al ramo per proteggerlo dall’aria esterna esse non solo si mantengono integre ma diventano pure più grandi di quando stavano sull’albero”; “…[le api] assumerebbero solo il cibo dal melagrano e dall’asparago, dall’olivo la cera, dal fico il miele, ma non buono”.
Giunio Moderato Columella (I° secolo d. C.): De agricultura, XII, 42, 1-3; V, 10; XIII, 46, 2-7; X, vv. 242-243: “Preparazione di un medicamento contro le coliche, chiamato Mediante i frutti: In una pentola di creta nuova o di stagno si cuoce un’urna di mosto di un vigneto di Aminea e venti mele cotogne grandi pulite e melagrane dolci, che sono chiamate puniche, intere e sorbe non troppo dolci divise in due e tolti i semi, che siano pari a tre sestari. Questi ingredienti vengono cotti così che tutti i frutti si sciolgano col mosto; e ci sia un ragazzo che con una spatola di legno o con una canna mescoli i frutti perché non corrano il rischio di bruciare. Poi, a cottura avvenuta, perché non rimanga molto succo si raffredda il tutto e si filtra e tutto ciò che è rimasto nel filtro viene diligentemente tritato perché diventi uniforme e di nuovo viene cotto coi carboni nel suo stesso succo a fuoco lento perchè non si bruci, finché non rimane un sedimento come feccia. Tuttavia, prima che il medicamento sia tolto dal fuoco, al tutto si aggiungono tre emine di profumo di Siria pestato e setacciato e si mescola con la spatola perché si amalgamino con gli altri componenti; infine il medicamento dopo che si è raffreddato viene posto in un vaso di creta nuovo impeciato e questo cosparso di gesso viene sospeso in alto perché non ammuffisca”; “Il melograno si pianta in primavera fino al 1° aprile. Se produce un frutto amaro o poco dolce va posto rimedio in questo modo. Con sterco di maiale e umano e bagna le radici con orina umana vecchia. Questa operazione rende l’albero fertile e per i primi anni il frutto del gusto del vino, successivamente anche dolce e privo di semi. Noi diluiamo nel vino un po’ di succo di silfio cirenaico e con questo strofiniamo le cime dell’albero; questa operazione corregge il gusto amaro dei frutti. Perché le melagrane non si spacchino sull’albero basta collocare presso la stessa radice, quando pianterai l’albero, tre pietre; ma se l’albero è stato già piantato pianta una scilla vicino alla radice. Altro espediente: quando i frutti saranno già maturi, prima che si spacchino, torci i peduncoli da cui pendono. In tal modo si conserveranno anche per un anno intero”; “Alcuni, per cominciare dai frutti con grani, torcono i peduncoli delle melagrane così come stanno sull’albero, perché i frutti non siano spaccati dalle piogge e aprendosi vadano perduti e li legano al ramo maggiore perché restino immobili. Poi con reti di sparto chiudono l’albero perchè il frutto non sia beccato dai corvi o dalle cornacche o da altri uccelli. Altri applicano ai frutti pendenti piccoli vasi di creta e dopo averli spalmati di fango misto a paglia li lasciano attaccati agli alberi; altri rivestono i singoli frutti di fieno o di paglia e li spalmano con uno spesso strato di fango misto a paglia e così li legano ai rami più grandi perché, come dissi, non siano agitati dal vento. Ma debbono fare tutto questo, come dissi, quando il cielo è sereno senza rugiada; tuttavia questi espedienti o non sono da applicare perché gli alberi quando sono piccoli vengono danneggiati o cetamente in modo continuato negli anni, soprattutto dal momento che è possibile pure mantenerle intatte dopo che sono state raccolte: infatti anche in casa in un luogo asciuttissimo vengono fatte fosse di tre piedi e lì dopo aver deposto un pò’ di terra minuta vengono infissi rametti di sambuco; poi quando il cielo è sereno le melagrane vengono raccolte con i loro peduncoli e applicate ai rametti, [poiché il sambuco ha un midollo così aperto e tenero che facilmente accoglie i peduncoli delle melagrane]. Ma bisognerà fare attenzione che non siano distanti da terra meno di quattro dita e che i frutti non si tocchino fra loro; alla fossa fatta viene messo un coperchio e si spalma con fango misto a paglia e si sovrappone quella terra che era uscita dallo scavo. Questa cosa può essere fatta pure in un vaso, sia che uno voglia aggiungere la terra dello scavo fino a metà contenitore sia che, c’è chi lo preferisce, sabbia di fiume e fare per il resto come già detto. Il cartaginese Magone consiglia di riscaldare ad alta temperatura acqua marina e di versarne un po’ su quelle melagrane, legate con corda di lino o di sparto, finché non si scolorano e dopo averle tolte di seccarle al sole per tre giorni, poi di appenderle in un luogo fresco e, quando sarà necessario, metterle a bagno in acqua fredda dolce per una notte e un giorno prima di servirsene. Ma egli stesso suggerisce di spalmare con uno spesso strato di creta da vasaio con l’opportuna pressione i frutti appena colti e quando l’argilla sarà secca di appenderle in un luogo fresco, poi, al momento di servirsene, di immergerle in acqua e di sciogliere la creta. Questa tecnica mantiene il frutto come se fosse stato appena raccolto. Sempre lo stesso Magone consiglia di stendere al fondo di un orcio di creata nuovo segatura di pioppo o di leccio e disporla in modo tale che possa essere pressata; poi. fatto il primo piano [posando le melagrane], di spargere nuovamente la segatura e di disporre allo stesso modo i frutti e di continuare così finché l’orcio non è pieno; quando è stato riempito, di metterci un coperchio e di sigillarlo accuratamente con uno spesso strato di fango. Poi ogni frutto destinato ad essere conservato va raccolto col suo peduncolo ma anche con il rametto, se ciò può avvenire senza danno per l’albero; infatti questo prolunga moltissimo la conservazione“; “Subito quando il melograno si riveste di un fiore color del sangue, che matura con lo splendente rivestimento del granello…”.
Che la melagrana in Roma fosse un frutto particolarmente apprezzato e presumibilmente costoso lo si deduce da due epigrammi di Marco Valerio Marziale (I° secolo d. C.). Nel primo (è il 43° del I° libro) si rimprovera ad un avaro (di nome Mancino), che finalmente ha offerto una cena a trenta commensali, di aver messo in tavola solo un cinghialetto e “non quelle pere che pendono legate con i virgulti di ginestra o la melagrana che imita le rose ancora in bocciolo…”; nel secondo (è il 20° del VII° libro) il protagonista è un commensale ghiottone ed avaro a tal punto che in un lembo della tovaglia, insieme con gli altri resti del pranzo, da lui con l’intenzione di vendere successivamente il tutto “viene messa da parte l’uva passita e pochi chicchi di melagrana…”.
Pur mettendo in conto la tendenza ad esagerare tipica della satira. la conclusione è che, comunque, la melagrana non era un frutto povero.
Aulo Cornelio Celso (I° secolo d. C.): De medicina, II, 24 e 30; IV, 12, 24 e 26; VI, 7, 10 e 11; V, 19: “[Fanno bene allo stomaco] pure le pere, quelle che si conservano, quelle di Taranto e di Signa, la mela rotonda o della Scandinavia (?)1 o di Amelia o la mela cotogna o la melagrana”; “…e [sono astringenti] soprattutto quei frutti che sono chiamati anticolica, le mele cotogne e le melagrane…”; “È un valido rimedio [contro il mal di stomaco] il succo del ravanello , ancora più valido quello della melagrana amara mescolato con una quantità pari di succo di melagrana dolce, con l’aggiunta pure di succo di cicoria selvatica e menta, in minima parte di quest’ultima…”; “[Chi è affetto da elmintiasi] …dopo aver mangiato molti aglio vomiti e il giorno successivo raccolga le sottili radichette del melograno, quante ne può stringere una mano; dopo averle pestate le cuocia in tre sestari di acqua finché ne rimane la terza parte; a questo punto aggiunga un po’ di nitro e beva la pozione a digiuno”; “Al tempo della vendemmia bisogna mettere in un grande vaso pere e mele selvatiche; in mancanza di queste vanno bene le pere di Taranto verdi o quelle di Signa o le mele della Scandinavia (?)1 o quelle di Amelia, o quelle profumate; bisogna aggiungerci mele cotogne e con tutta la corteccia melagrane, sorbe, e altri frutti anticolica più usati, così che essi riempiano la pentola per un terzo; a quel punto essa va riempita di mosto e il tutto va cotto finchè tutti i componenti introdotti non si amalgamino. Il prodotto non è sgradevole al gusto e preso quando è necessario funge da antidiarroico senza alcun danno per lo stomaco…Terzo rimedio [contro la diarrea] che può essere adottato in qualsiasi momento: scavare una melagrana e dopo avere eliminato i grani metterci le membrane che c’erano attorno a loro; poi versare uova crude, mescolare con una spatoletta; poi collocare lo stesso frutto sulla brace in quanto, finché all’interno c’è umore, non brucia; quando comincia ad esser secco è necessario rimuoverlo e mangiare ciò che c’è all’interno dopo averlo estratto con un cucchiaio… E [contro la diarrea] vien dato da bere vino di Signa o vino aspro mescolato con resina o qualsiasi vino aspro. Si pesta una melagrana insieme con la corteccia e i suoi grani e si mescola con tale vino; uno lo può sorbire puro o lo può bere misto ad altro”; “Se nelle orecchie c’è pure pus correttamente va infuso da solo unguento licio o di iris o succo di porro con miele o succo di centaurea con passito o il succo di melagrana dolce riscaldato nella sua corteccia con l’aggiunta di una piccola parte di mirra”; “…se pure esce (dalle orecchie) materia e c’è gonfiore non è fuori posto ripulire con un clistere auricolare a base di vino misto (ad acqua] e successivamente infondere vino aspro misto a olio rosato cui sia stato aggiunto un po’ di ossido di zinco o medicamento di Licia con latte o succo di sanguinella con olio di rosa o succo di melagrana con una piccola parte di mirra”; “(Contro la tonsillite) viene spremuto il succo da una melagrana dolce e nella quantità di un sestario viene cotto a fuoco lento finchè non assume la consistenza del miele”; “Le ulcere della bocca se presentano infiammazione e sono un po’ purulente e rosseggianti si curano ottimamente con quei medicamenti che si ricavano dalle melagrane”.
Impressionante, poi, il numero di ricette in cui la nostra pianta entra, da sola o in compagnia, nella confezione di empiastri per facilitare l’estrazione del pus (VI, 9), contro il mal di denti(V, 20) e nella confezione di pillole (da macerare nell’aceto prima dell’uso) atte alla cura delle ferite recenti (V, 21), e dell’ugola infiammata(V, 22).
È scontato che la serie delle testimonianze non può prescindere da Plinio (I° secolo d. C.) che nella sua Naturalis historia alla melagrana riserva un posto privilegiato. Nel capitolo 34 del libro XIII così scrive: “Ma [l’Africa] vicino a Cartagine rivendica a sè nel nome la melagrana [malum Punicum, alla lettera mela punica2] ; altri la chiamano granata. Li distinse anche in generi, chiamando apirena quella in cui manca il nucleo legnoso ma di natura è più bianca, gli acini sono più dolci e separati da membrane meno amare. Comune è un’altra loro struttura, come nei favi. Cinque sono le specie di quelle che hanno il nocciolo: dolce, amara, mista, acetosa, vinosa. Quella dell’isola di Samo e quella d’Egitto si distinguono in eritrocomi [dalle chiome rosse] e in leucocomi [dalle chiome bianche]. Si usa molto la corteccia di quelle acerbe per conciare il cuoio. Il fiore si chiama balaustio, adatto a preparare medicine e a tingere le vesti, il cui colore ha preso da loro il nome”.
Le proprietà medicamentose trovano la più ampia, continua e specifica celebrazione nei capitoli 57-61 del libro XXIII: “ È estremamente inutile ripetere ora i nove generi di melagrane. Tra di loro le dolci, che abbiamo chiamato con altro nome apirene, sono ritenute inutili per lo stomaco, generano flatulenza, ledono i denti e le gengive. Quelle che dopo queste dicemmo vinose per il sapore e che hanno un piccolo nocciolo sono considerate un pò più utili. Bloccano la diarrea e il mal di stomaco, purché siano in modica quantità e uno non se ne sazi. Ma devono essere date in modica quantità, sebbene sarebbe meglio non darle proprio, in presenza di febbre non avendo alcuna utilità la polpa degli acini né il succo. Se ne deve astenere chi ha conati di vomito o versamento di bile. In queste la natura non fece vedere né l’uva né il mosto, ma subito il vino. Entrambe hanno la corteccia aspra che è molto usata quando sono acerbe. Il popolo ha appreso soprattutto a conciare il cuoio con essa, per cui i medici la chiamano malicorio. Insegnano che con quella si stimola la diuresi e che cotta nell’aceto con galla rende stabili i denti traballanti. È richiesta contro la fiacchezza delle gestanti poiché al solo gustarla muove il feto. La melagrana viene divisa e lasciata macerare per circa tre giorni in acqua piovana. Questa è bevuta fredda dai celiaci e da coloro che sputano sangue. Dall’acerba si ricava un medicamento che si chiama stomatico, utilissimo per le malattie della bocca, delle narici, degli orecchi, contro l’oscuramento della vista, contro escrescenze di carne sulle unghie, ai genitali, contro quelle malattie che chiamano nome [ulcere corrosive] e alle piaghe che si formano sulle ferite. Contro il morso della lepre marina in questo modo: si toglie la corteccia, si pestano gli acini e si cuoce il succo, finchè non si riduce a un terzo, con mezza libbra di zafferano, di allume tagliato, di mirra e di miele attico. Altri fanno in questo modo: vengono pestate molte melagrane acetose, il succo viene cotto in una pentola nuova fino a raggiungere la densità del miele; il preparato serve ai difetti di virilità e alle malattie del sedere e contro tutte quelle malattie che si curano col medicamento licio, contro il pus che fuoriesce dalle orecchie, contro l’influenza incipiente, contro le macchie rosse. I rami dei melograni portati in mano mettono in fuga i serpenti. La corteccia del melograno cotta nel vino e applicata come empiastro sana i geloni. La melagrana pestata in tre emine di vino, cotta fino a ridurla ad un’emina, elimina le coliche e le tenie. La melagrana posta in una pentola nuova e sigillata da un coperchio, arrostita nel forno e poi pestata e bevuta nel vino blocca la diarrea, elimina le coliche. Il primo prodotto di questo frutto che comincia a fiorire dai Greci è chiamato citino, cosa di grande considerazione per molti. Se uno di questi, libero da ogni impedimento di cintura o di scarpa e perfino di anello ne coglie uno con due dita, il pollice e l’anulare della mano sinistra, e così, sfiorati con un tocco leggero gli occhi, lo mette subito in bocca e lo inghiottisce senza che tocchi i denti, si afferma che in quell’anno non patirà nessuna malattia degli occhi. Gli stessi calici dei fiori seccati e pestati reprimono le escrescenze carnose, curano le gengive e i denti; se questi ultimi sono mobili va usato il loro decotto. Gli stessi granelli pestati vengono applicati ad empiastro sulle piaghe che tendono ad estendersi e ad imputridire, allo stesso modo in caso di infiammazione degli occhi e degli intestini e quasi in tutti quei casi in cui si usa la corteccia. Tengono lontani gli scorpioni. Non si ammira mai a sufficienza la cura e la diligenza degli antichi che, osservata ogni cosa, non lasciarono nulla di intentato. In questo stesso calice del fiore ci sono dei fiorellini, naturalmente prima che si formi la melagrana, che abbiam detto essere chiamati balaustio. Avendo fatto delle prove scoprirono che tengono lontani gli scorpioni. Se bevuti bloccano il ciclo mestruale nelle donne, sanano le ulcere della bocca, le tonsille, l’ugola, l’emottisi, i flussi del ventre e dello stomaco, le ulcere che emettono liquido in qualsiasi parte. Così per fare un esperimento li seccarono e scoprirono che i malati di dissenteria erano salvati dalla farina che se ne ricava pestandoli e che la diarrea veniva bloccata. Tostati e pestati giovano allo stomaco, sparsi sul cibo o sulla bevanda. Per stabilizzare l’intestino sono bevuti in acqua piovana. La radice cotta produce un succo che, nella dose di un vittoriato27, elimina le tenie. La stessa cotta nell’acqua offre gli stessi vantaggi del licio. C’è anche il melograno selvatico così chiamato per la somiglianza. Le sue radici dalla rossa corteccia bevute nel vino nella dose di un denario propiziano il sonno. Bevendo il suo seme l’acqua che si è accumulata sotto la pelle si prosciuga. Le zanzare sono messe in fuga dal fumo della corteccia del melograno”.
E poi, come già era successo per Celso, riferimenti sparsi qua e là: (XX, 82): “Il seme (di coriandro) bevuto col succo di melagrana elimina i parassiti intestinali”; (XXI, 42): “Bisognerebbe tenere lontane [le api] dal corniolo. Se assaggiano il fiore muoiono per disturbi intestinali. Il rimedio consiste nel dare loro sorbe pestate con miele o urina umana o di buoi o chicchi di melagrana bagnati di vino di Aminea”; (XXII, 44): “La medesima (la radice del sonco nero) cotta con olio e col calice del melagrano è di aiuto contro le malattie delle orecchie”; (XXII, 48): ”Alle escrescenze del sedere (giova il succo del silfio) cotto in aceto con la corteccia del melograno”; (XXII, 70): “Il decotto (di lenticchia) si applica alle ulcere della bocca e dei genitali, al sedere con olio di rosa o di cotogna; in quei casi in cui c’è bisogno di un rimedio più energico con scorza di melagrana ed aggiunta di un po’ di miele”; (XXIII, 42): “(L’olio di mandorla) giova anche alle orecchie cotto con olio di rose o miele e con un rametto di melograno, elimina i vermetti che ci sono in esse, elimina la pesantezza d’udito, i suoni confusi e i tintinnii, nello stesso tempo i dolori di testa ed oculari”; (XXIII, 63): “(Il latte del fico) con la melagrana (giova) contro le pellicine che si formano intorno alle unghie”; (XXIII, 80): “(L’olio di alloro delfico giova) contro il dolore di orecchi riscaldato con corteccia di melograno”; (XXIV, 37): “(Il succo di salice) riscaldato con olio di rosa in una scorza di melagrana viene infuso nelle orecchie”; (XXIV, 79): “Erasistroto contro il dolore di denti instillò nell’orecchio opposto al dente dolorante cinque semi di questa (dell’edera) pestati in olio di rosa e riscaldati con corteccia di melograno”; (XXVIII, 27): “Tra le medicine che si estraggono dagli alberi c’è un nobile medicamento che chiamano oporice. Si ricava contro la dissenteria e le malattie dello stomaco in un congio di mosto bianco cuocendo a fuoco lento cinque mele cotogne con i loro semi, altrettante melagrane, un sestario di sorbe, un’uguae misura di quello che chiamano sommacco di Siria e mezza oncia di zafferano. Si cuoce finché non ha raggiunto la consistenza del miele”; (XXVIII, 49): “(Dicono che) la vulva (della iena) data da bere con la corteccia di melograno giova alla vulva delle donne”; (XXIX, 39): “Cura i denti pure la colla da falegname empiastrata dopo essere stata cotta in acqua e tolta subito dopo in modo che i denti vengano lavati con vino in cui siano state cotte bucce di melagrana dolce … I Greci lo chiamano onisco, altri tilo. Dicono che è efficace contro i dolori di orecchi cotto in scorza di melagrana e succo di porro”; (XXXII, 37):: “Gli epiletticI, come dicemmo, bevono il caglio del vitello marino con latte di Cavalla o di asina o col succo di melagrana, certi con aceto al miele”; (XXXV, 52) “Se (l’allume) è falsificato lo si scopre col succo di melagrana. Quello genuino, infatti, con quella mistura diventa nero … (l’allume cura] con succo di melagrana cura pure le malattie delle orecchie”; (XXXVI, 27): “Bevono quella (l’ematite) con succo di melagrana pure quelli che sputarono sangue”.
Chiudo con Rutilio Tauro Emiliano Palladio (IV° secolo d. C.), anche se in gran parte nel suo De re rustica ripete quanto detto dagli autori precedentemente citati: (IV, 10): ”Pianteremo i melograni nel mese di marzo o aprile nei luoghi temperati, a novembre in quelli caldi e secchi; quest’albero ama il terreno ricco di creta, magro, ma si sviluppa anche in quello grasso. È adatta per lui la regione che è calda. Si pianta con i polloni strappati dalla radice della madre, ma, sebbene venga piantato in molti modi, è meglio tuttavia che un suo ramo lungo un cubito, il cui spessore sia pari a quello che una mano può circondare3 e alleggerito alle due estremità con una falce tagliente, venga messo interrato obliquamente in una buca; prima però le estremità devono essere spalmate di sterco porcino; la stessa cosa può essere fatta anche dopo interrandolo direttamente a colpi di maglio. Le cose vanno meglio se si prende dalla pianta madre un ramo già gemmato. Ma, se colui che lo mette nella buca avrà l’accortezza di mettere tre pietre sulla radice, i frutti non si spaccheranno. Bisogna fare attenzione a non piantare il virgulto al contrario. Si crede che il frutto diventa aspro se la pianta viene irrigata assiduamente; infatti la siccità ne fa aumentare la dolcezza e la produzione, anche se quando essa è eccessiva va effettuata una modesta irrigazione. La pianta va zappata all’intorno in autunno e in inverno. Se dà frutti amari bisogna versare un pò di succo di silfio pestato nel vino sulla cima dell’albero o, scalzate le radici, inserire un paletto di pino. Altri sotterrano presso le radici alga marina, alla quale parecchi mescolano sterco di asino o di porco. Se non conserva il fiore mescola urina vecchia con una pari misura di acqua e versala sulle radici tre volte all’anno. Per un solo albero basterà il contenuto di un’anfora. Oppure metti morchia non salata o poni vicino alle radici alga e irriga due volte al mese; oppure dovrai cingere il tronco dell’albero in fiore con un cerchio di piombo o avvolgerlo con pelle di serpente. Se i frutti si spaccano metti in mezzo alle radici una pietra o intorno all’albero pianta la scilla. E se, mentre i frutti pendono, ne torci i peduncoli così come stanno sull’albero li conserverai intatti per tutto l’anno. Se sono attaccati dai vermi tratta le radici con fiele di bue e immediatamente moriranno; oppure se li pungi con un chiodo di bronzo difficilmente nasceranno; o rimedierà l’urina di asino mista a sterco di porco. La cenere con la lisciva frequentemente sparsa intorno al tronco del melograno rende gli alberi floridi e fruttuosi. Asserisce Marziale4 che i grani diventano candidi se si mescola a gesso un quarto di argilla e creta e per un triennio intero si applica la mistura alle radici. Dice che diventano di stupefacente grandezza se intorno al melograno viene applicata una pentola di creta ed in essa viene chiuso il ramo col fiore legato ad un paletto perché non si sposti; poi la pentola chiusa va difesa dall’ingresso dell’acqua. Aperta in autunno restituirà un frutto della sua grandezza. Lo stesso autore dice che sul melograno crescono molti frutti se viene spalmato sul tronco dell’albero prima che germogli succo di titimallo e di portulaca mescolato in pari dosi. Afferma che può essere innestato sulla connessione dei rami in modo che il midollo diviso dall’una all’altra parte si congiunga. Si può fare solo dal primo giorno di aprile fino alla fine di marzo. Ma tagliato il tronco il pollone deve essere inserito freschissimo perché un indugio non secchi il poco umore che c’è. Le melagrane si conservano appendendole in fila dopo aver impeciato i peduncoli. Diversamente: raccolte integre vanno immerse in acqua marina o salata bollente perché se ne imbevano. Dopo tre giorni vanno seccate al sole facendo attenzione a non lasciarle di notte all’aperto, poi vanno appese in un luogo fresco. Al momento di usarle vanno preventivamente immerse in acqua dolce. Si dice che così trattate fanno concorrenza a quelle fresche e questo succede anche se vengono interrate separate tra loro con paglia perché non si urtino. La fossa sia lunga e si prepari una corteccia della medesima grandezza su cui si fissano i frutti con i loro spinosi rami. Poi la corteccia rivoltata viene posta sulla fossa perché difenda dall’umidità senza il contatto con la terra i frutti che pendono sotto. Allo stesso modo se si spalmano di argilla e dopo che è seccata li si appende in luogo fresco. Allo stesso modo se all’aperto viene interrato un piccolo vaso che sia pieno di sabbia per metà e i frutti raccolti con i peduncoli vengono fissati ognuno ad una canna o a un ramoscello di sambuco e così separati vengono infissi nella sabbia in modo che ne escano per quattro dita. Ciò può essere fatto anche in casa in una fossa di due piedi e la conservazione è più efficace se le melagrane vengono raccolte con il ramo più lungo. Altrimenti: in un piccolo vaso pieno di acqua a metà si appendono i frutti perché non tocchino il liquido e il contenitore viene chiuso perché non vi entri il vento. Allo stesso modo vengono sistemati in un vaso nell’orzo in modo che non si tocchino fra loro e il contenitore viene tappato. Ricaverai in questo modo il vino dalle melagrane: metti in un cestello fatto con foglie di palma i grani maturi accuratamente puliti, spremili in una coppa e cuocili lentamente finché non si riducono a metà; dopo aver fatto raffreddare il tutto chiudilo in vasetti sigillati con pece e gesso. Alcuni non cuociono il succo ma per ogni sestario mescolano una libbra di miele e lo mettono e conservano nei predetti vasetti”; (VI, 6): “(A maggio) i melograni cominciano a fiorire nei luoghi caldi. Se il ramo con il fiore, come dice Marziale, viene chiuso in un vaso di creta pieno di terra attorno all’albero e viene legato ad un paletto perché non si sposti in autunno produce un frutto proporzionale alla grandezza del vaso”; (VII, 5): “Pure in questo mese (giugno) il ramo del melograno, come prima abbiamo detto, potrà essere chiuso in un vaso di creta perché dia frutti proporzionali alla sua (del vaso) grandezza”; (XIV, vv. 73-76): “Le melagrane, che mai hanno giudicato degno di loro qualche altro sapore e che non si sono associate a chiome estranee, da sè gonfiano le gemme per il seme cambiato e si compiacciono dipinte dal consanguineo rossore”.
Dopo aver esaurito le testimonianze letterarie antiche nella prossima puntata torneremo ancora una volta alle immagini, sempre antiche, delle quali cercherò di mettere in risalto la stessa matrice più religioso-politica che estetica già emersa dalle fonti numismatiche.
(CONTINUA)
Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/18/la-seta-il-melogranola-melagrana-16/
Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/20/la-seta-il-melogranola-melagrana-26/
Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/23/la-seta-il-melogranola-melagrana-36/
Per la quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/10/04/la-seta-il-melogranola-melagrana-55/
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1 Così andrebbe tradotto Scandianum, ma probabilmente si tratta di un errore della tradizione manoscritta, anche perché tutti gli altri toponimi indicano località vicine.
2 A Plinio si rifà Isidoro di Siviglia (VI°-VII° secolo d. C.) (Etymologiae, XVII, 7, 6): “Si chiama mela punica perché la specie fu trasferita dalla regione punica. Si chiama pure melogranato poichè nella rotondità della corteccia contiene una moltitudine di grani. Il nome dell’albero (melo granato) è di genere femminile, il frutto invece è di genere neutro. Il fiore del melograno dai Greci fu chiamato kýtinos [forse da kutos=cavità, coppa], i latini lo chiamano caduco [ci vedo un’allusione al gran numero di fiori che abitualmente cadendo riducono la fruttificazione]. I Greci chiamano poi balàustion il fiore del melograno selvatico, che a volte si trova bianco, altre purpureo, altre color rosa simile ai fiori del melograno [non selvatico]. I medici dicono che le melagrane non danno nessun nutrimento al nostro corpo e che va usato piuttosto per fini curativi che alimentari”.
3 Traduco così crassitudine manubrii sulla scorta di Columella (De re rustica, V, IX, 2): “…ramos novellos proceros et nitidos, quos comprehensos manus possit circumvenire, hoc est manubrii crassitudine…” (…ì rami novelli lunghi e rigogliosi, che una mano afferrandoli sia in grado di circondarli, cioè della grossezza di un manico…).
4 Qui l’autore, come succede nel brano successivo, sbaglia citando a memoria perché nessuno dei dettagli riportati appartiene a Marziale ma molti a Columella, e prima ancora a Varrone, sui cui testi prima riportati chiunque può controllare. Comunque, in riferimento alle melagrane di grosse dimensioni, se qualcuno tenta l’esperimento del vaso da sistemare sull’albero, in caso di successo eviti di regalarne qualcuna. Ecco cosa successe al povero Omiso secondo quanto ci ha tramandato Plutarco (Vite parallele: vita di Artaserse): “Quando pervenne al potere si mise ad imitare la mansuetudine dell’altro Artaserse, di cui portava il nome, accogliendo benevolmente i negozianti, onorando e beneficando oltre il merito, punendo senza offendere e nel ricevere doni, anche di piccola entità, mostrandosi altrettanto lieto che nel darli. Sicché, avendogli donato un certo Omiso una melagrana [nel testo greco ròa] di smisurata grandezza, disse: – Per Mitra, quest’uomo, farebbe diventare grande una città piccola, se gli venisse affidata!-“.
Ho letto tutto con molto interesse ma la domanda alla quale cercavo risposta non è stata soddisfatta. cercavo infatti il significato del nome Locale di “Seta” così come si chiamano i frutti del melograno nella zona del tarantino.
Evidentemente lei ha letto tutta solo questa quarta parte. Troverà la risposta, credo esauriente, alla sua curiosità nei collegamenti conducenti alla terza ed alla quinta parte, che troverà alla fine di questo stesso post.