di Armando Polito
Tra gli uomini c’è chi diventa importante per la sua posizione economica (e per questo qualcuno viene pure condannato ingiustamente …), tra i capi (quelli geografici; gli umani, tutti quelli che hanno presunto, presumono e presumeranno di esserlo, si sono rivelati, si rivelano e si riveleranno solo mezze cartucce) quello d’Otranto lo è da molto tempo (e non mi riferisco solo al geologico), per la sua posizione, questa volta, geografica. È, infatti, la parte d’Italia più ad est, record che non solo le è valso nelle convenzioni nautiche il ruolo (irrilevante o quasi da un punto di vista giuridico, almeno finché l’Italia resterà unita …) di punto di separazione tra l’Adriatico e lo Ionio ma anche quello di offrire il privilegio a chi calca il suo suolo di poter contemplare l’alba prima degli altri abitanti della penisola. A chi ama poltrire, probabilmente, questo non interessa minimamente ma vallo a dire a chi trae beneficio, questa volta economico, dalla tradizione invalsa, che attira la notte di San Silvestro anche un numero non trascurabile di turisti, di assistere per primi al sorgere della prima alba del nuovo anno, il che, è superfluo aggiungerlo ma sono costretto a farlo (altrimenti come faccio a dire che è superfluo?), porterà fortuna per l’anno intero!
Capo d’Otranto è chiamato anche Punta Palascìa (nell’immagine di testa il faro sorto dopo che nel 1869 venne rasa al suolo l’omonima torre ormai ridotta ad un rudere). Un giorno, forse, sarà la location di un film, per ora deve accontentarsi di lapidarie apparizioni in questo o quel romanzo: Aveva davanti due ore vuote e non se la sentì di passarle in giro per città, inseguita da ricordi che le andavano di traverso. Così, senza che ci avesse pensato prima, prese un taxi e decise di andare a far visita al vecchio fattore, che ormai si era ritirato e viveva in una casetta poco fuori Otranto, verso Punta Palascia. (Pier Luigi Celli, Il cuore ha le sue ragioni, Piemme, Milano, 2011, pag. 59); La traversata di quel canale, appena 72 chilometri di mare dalle coste albanesi al luogo più orientale della penisola, Punta Palascia, collocato praticamente sulla longitudine di Budapest come ricordammo nella prima conversazione (lo so, ma se un professore non rompe un po’ l’anima ai propri studenti, che professore è?), è ancora più agevole da fare di quei 90 chilometri infestati dagli squali famelici che separano Cuba dalle Key West della Florida. (Vittorio Zucconi, Il caratteraccio. Come (non) si diventa italiani, Mondadori, 2010, s. p.
Va aggiunto che semplicemente Punta si chiama uno sperone rocciso che chiude l’insenatura portuale antistante Otranto. A questo punto è doverosa la citazione dal romanzo L’ora di tutti di Maria Corti, uscito per la prima volta per i tipi di Feltrinelli a Milano nel 1962 e ristampato da vari editori (nell’immagine in basso l’edizione Tascabili Bompiani del 2011): Quelle giornate erano lunghe; giravo per casa, uscivo in cortile, rientravo in casa, uscivo sulla porta verso la strada. Un giorno vi trovai mastro Natale che puliva ricci. – Sono ricci della Palascia – disse, offrendomene uno. – Perché della Palascia’ – chiesi. – Sono diversi? -. – Non hanno sabbia come quelli della Punta – disse – e la carne è più rossa; li chiamano i ricci dell’arciprete e costano due soldi più degli altri alla dozzina, per la rarità -. Io non sapevo nulla di ricci della Palascia e di ricci della Punta, perché Antonio sprezzava la pesca di scoglio e si metteva in mare solo per andare al largo.
La citazione era doverosa non solo perché vi è la contrapposizione, tramite le parole del pescatore, tra Punta e Punta Palascìa ma anche per ricordare a chi non lo sapesse che Maria Corti è stata, oltre che autrice di romanzi, anche una filologa di prim’ordine. Tuttavia, a quanto ne so, credo che mai si sia interessata dell’etimo di Palascìa. Eppure, appena ho letto quelle poche righe, ho sentito a pelle l’eco di una inconscia ricerca etimologica espressa poeticamente. Cercherò di amplificarla passando brutalmente a dire la mia sull’etimo; vi prego, però, di non dimenticarvi di Antonio …
La brutalità non sta bene, perciò rendo più indolore il passaggio alla farina del mio sacco proponendovi prima il fior fiore di quella del sacco (e che sacco!) del Rohlfs (Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976, II volume, pag. 444): deformazione di Παναγία [leggi Panaghìa]=la Madonna?
Secondo il Rohlfs, dunque, la voce sarebbe (quanto mi piace quel punto interrogativo finale! …), per antonomasia, il nominativo femminile singolare dell’aggettivo greco a tre uscite πανάγιος/παναγία/πανάγιον (leggi panàghios/panaghìa/panàghion). L’aggettivo appena citato [composto dall’avverbio πᾶν (leggi pan)=completamente+ἁγία (leggi aghia), femminile dell’aggettivo ἅγιος/ἁγία/ἅγιον (leggi àghios/aghìa/àghion)=sacro] supporrebbe, dunque un’origine devozionale del toponimo.
Dal mio sacco tirerò ora, con la mano tremante di chi è consapevole che potrebbe, alla resa dei conti, aggiudicarsi, nonostante ogni probabile apparenza, il campionato mondiale di ignoranza e stupidità, due conigli, pardon, due proposte:
1) da πελαγία (leggi pelaghìa), femminile dell’aggettivo πελἀγιος/πελαγία/πελἀγιον (leggi pelàghios/pelaghìa/pelàghion)=marittima. Se quel marittima sembra banale e scontato per la nostra torre, ricollegandomi all’ipotesi devozionale, faccio presente che l’aggettivo in questione in greco è l’epiteto di Afrodite (Artemidoro II, 37; Pausania, II, 4, 6) e degli dei in genere (Plutarco 13, 161c). Aggiungo che esso deriva da πέλαγος (leggi pèlagos)=mare aperto, alto mare, passato con lo stesso significato nel latino pèlagus.
2) da πελασγία (leggi pelasghìa), femminile dell’aggettivo πελάσγιος/ πελασγία/πελάσγιον (leggi pelàsghios/pelasghìa/pelàsghion)=dei Pelasgi, da Πελασγός=Pelasgo , mitico progenitore degli Enotri, anche se non è ben chiara l’estensione e la dislocazione della parte del meridione d’Italia da loro occupata e neppure è certo da dove provenissero. Per questo qualsiasi ipotesi può suscitare altre suggestioni; ad esempio, se è vero, come ipotizzavano Gianna G. Buti e Giacomo Devoto (in Preistoria e storia delle regioni d’Italia, Sansoni, Firenze, 1974), che gli Enotri hanno un’origine balcanica proto-illirica, potrebbe, addirittura, non essere casuale il fatto che si chiami Punta Palascìa la parte d’Italia più orientale d’Italia).
Vi ricordate di Antonio e della sua contrapposizione tra i ricci sabbiosi (presumibilmente biondi) della Punta e quelli della Palascia, detti dell’arciprete, soprannome che la dice lunga su certi privilegi che ancora oggi stentano ad estinguersi?
E vi ricordate la narratrice che in prima persona confessa di non intendersene di ricci e di non sapere perché Antonio sprezzava la pesca di scoglio e si metteva in mare solo per andare al largo? Antonio, l’esperto pescatore di ricci, forse, non conoscendo né il greco, né il latino e neppure l’italiano, non poteva sapere che Palascìa potrebbe essere connesso con il πέλαγος (l’alto mare, teoricamente più profondo di quello sotto costa), Maria Corti, forse ignorante di pesca, e non solo di ricci, ma grande filologa, non poteva non saperlo. Così, dall’incontro fra due ignoranze specifiche (o, se preferite tra due conoscenze parziali delle quali solo quella del pescatore si palesa), Antonio/Maria Corti, pur senza dirlo espressamente, magari senza neppure pensarci, ci ha lasciato l’etimo di Palascìa. A questo punto diventerei veramente un monumento vivente alla stupidità se dicessi di non simpatizzare per la prima delle ipotesi espresse, tra l’altro, da me stesso…
Una conferma a questa etimologia sembra venire dalla Breve descrittione del Regno di Napoli di Ottavio Beltrano, opera uscita a Napoli per i tipi di Beltrano nel 1640, in cui a pag. 278 nell’elenco delle sei torri nel territorio della città d’Otranto compare al primo posto Torre d’Orto, seguita da Torre pelagia, Torre di S. Stefano, Torre S. Milano, Torre dell’Arteglio in territorio di Galatea e Torre di Buracco in territorio di Marugio. E cosa sarebbe quel pelagia se non l’italianizzazione di Palascìa?
Articolo interessante.
I nomi delle due ultime torri elencate da Ottavio Beltrano sono evidentemente un errore perchè nell’attuale territorio comunale di Otranto, da nord a sud, ricadono le seguenti sei torri costiere costruite nel secolo XVI: torre Fiumicelli (visibile sulla spiaggia presso l’ex villaggio turistico Valtur di ALimini), torre Santo Stefano (visibile sulla falesia dell’ex villaggio turistico Club Mediterranee), torre dell’Orte (visibile presso l’omonima masseria, circa 500metri a sud-est della Torre del Serpe che aveva funzione di faro del porto di Otranto), torre Palascia ovvero Pelagia (sorgeva a monte del faro omonimo e fu demolita alla fine del 1800 per far posto all’edificio doganale di Torre Palascia ora utilizzato dalla Marina Militare), torre sant’Emiliano (visibile) e torre di Porto Badisco (non visibile perchè il rudere è coperto da un moderno terrapieno sul mare di una abitazione posta cinquanta metri a nord dell’attuale piazzetta comunale Consiglio sotto la quale si trovano i resti della chiesa di santa Maria di Badisco).
L’errore, non è il solo, mi sembrava tanto evidente che non ho ritenuto opportuno allungare il brodo, anche perché la dicitura messa in testa all’elenco “Nel territorio della città d’Otranto” non può essere intesa estensivamente come “Nel territorio della Terra d’Otranto”, tanto più che dopo compaiono altri elenchi col titolo “Nel territorio di Nardò” (in cui, tutt’al più, il Beltrano avrebbe dovuto inserire Torre d’Arteglio, oggi Torre dell’Alto Lido, in territorio di Galatone), “Nel territorio di Brindisi”, “Nel territorio di Lecce”, “Nel territorio di Punice”, “Nel territorio di Castignano (sic!) del Capo”, “Nel territorio di Gagliano”, “Nel territorio di Taranto” (in cui colloca correttamente “Torre di Monte dell’ovo in territorio di Marugio”, mentre aveva ascritto ad Otranto “Torre di Buracco in territorio di Marugio”) … Insomma, un gran casino! La ringrazio per avermi dato l’occasione di aggiungere questo giudizio alla sua sacrosanta osservazione.
Egregio Dottore Polito,
ho letto con interesse la nota che precede e, a proposito dell’etimologia proposta dal Prof. Rohlfs, Palascìa non mi sembra si attagli a Panaghìa, soprattutto perché -secondo il mio modestissimo parere – è più immediato foneticamente “palascìa” da pala-skìà,[dor.pala= lotta, contrasto e skià = ombra, ammorbidito “ski” in ” sci” nella pronuncia italiana] e più appropriato in quanto punto dove, prima che altrove, la luce del giorno nascente ha la meglio sulla notte.
Con molta stima.
Giacomo Cardone
Premesso che in campo etimologico tutto è possibile, riconosco che la sua proposta appare plausibile e, cosa che non guasta ma può essere fuorviante, pure suggestiva, Tuttavia debbo dire che, partendo dalla locuzione πάλα (τῆς) σκιᾶς mi sarei aspettato “Palascià”, con conservazione dell’accento del secondo componente. Ricambio la stima e la saluto. Armando Polito