di Armando Polito
Nell’ordine: (I secolo d. C.) pinax (quadretto affrescato) rappresentante una forma di pane e due fichi da Ercolano e forma di pane carbonizzato da Pompei, entrambi custoditi nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli (quest’ultimo chiuso, con altri reperti particolarmente delicati, dal 2009 in una camera climatizzata del laboratorio di ricerche applicate della Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei). Per la terza immagine si prega di continuare a leggere.
Le prime due immagini costituiscono uno dei casi in cui due reperti archeologici sono l’uno la conferma schiacciante dell’altro ed entrambi ci presentano qualcosa che appare come l’antenata della rosetta (unica differenza: gli “spicchi” nell’affresco sono sette, nel pane autentico otto, nel modello di rosetta dei nostri giorni cinque).
Nell’era del robot da cucina che impasta, forma, inforna e sforna (i dolori cominceranno quando imparerà pure a mangiare tutto ciò che ha preparato …) quest’immagine appare decisamente anacronistica, anche perché sperare di trovare oggi una ragazza che sappia fare quello che si vede nella foto è come sperare di trovare un politico onesto. Eppure, in casa mia ancora oggi è mia moglie (purtroppo non è più ragazza, ma nemmeno io lo sono, anzi, visto quel ragazza, non lo sono mai stato …), anche se non sistematicamente, a fare pane, biscotti, taralli, focacce, pizze & c., tutti manualmente.
Il piano di lavoro e il forno non sono quelli del disegno ma quelli della foto sottostante; bisogna adeguarsi ai tempi, ma vuoi mettere la capacità di industriarsi, il calore, perfino l’estetica degli ambienti di una volta?
Due ingredienti, però, non sono cambiati: la farina ricavata dal grano prodotto dai miei cognati e lu lliatu (il lievito, quello naturale, detto anche acido o pasta madre o pasta crescente, ottenuto dalla fermentazione spontanea di un impasto di farina ed acqua) che dopo la prima volta, come vedremo, si riproduce da solo …
Non è cambiato neppure il processo di preparazione, ha solo subito un sottodimensionamento, anche negli attrezzi: non dovendo produrre la provvista settimanale una vasca di plastica ha preso il sopravvento sulla mattra (madia) e in essa si mescolano l’acqua calda, la farina e il lievito e lì si lascia che il tutto, coperto da un panno, fermenti. Dopo di che bisogna timpirare1, cioè impastare la massa e poi scanarla2, cioè lavorarla e dividerla nei pezzi che andranno infornati dopo che hanno stazionato per un tempo adeguato protetti da una manta3 (coperta).
Ci sono parole la cui etimologia è indiscutibile, mentre ambiguo può essere il processo che le ha portate ad assumere un certo significato; e lliatu è una di queste: nel dialetto neretino è participio passato del verbo lliare che, come il corrispondente formale italiano levare, è dal latino levare=sollevare (a sua volta da levis=leggero, lieve) con passaggio –e->-a-, sincope di –v– e raddoppiamento di l-4, che credo, in questo caso, di natura espressiva, senza pensare al composto adlevare (levare>*livare>*liare>lliare).
Ma lliatu è usato, come ho detto, anche nel senso sostantivato di lievito. Questo slittamento semantico appare chiaramente in linea con la voce latina, poiché la lievitazione comporta un aumento di volume, un rigonfiamento e un sollevamento della massa che la subisce5. Lo stesso italiano lievito suppone la derivazione da un latino *lèvitum invece del classico levàtum, participio passato del citato levare e va detto che, almeno in questo caso, la voce dialettale è più fedele al latino letterario di quanto non lo sia la voce italiana che appare, invece, derivata dal latino parlato6.
Ma lliatu come participio passato sostantivato usato nel senso di lievito è totalmente sganciato dall’idea di togliere con cui levare oggi (sono ormai lontani i tempi di Leviamo lieti i calici …) è per lo più usato? Direi di no sulla base dell’osservazione che l’impasto al quale si è aggiunto un pezzetto di pasta madre è quasi un embrione, cioè una vita che può continuare o finire. Nel caso dell’embrione tutto ancora dipende dalla decisione della coppia o della sola madre, nel nostro tutto dipendeva dalla massaia o dal fornaio. Ho usato l’imperfetto perché la pratica di fare il pane in casa usando come lievito un pezzo di pasta madre levato all’impasto precedente è un ricordo del passato (che in casa mia si rinfresca7 quasi solo in occasione delle feste più importanti) e solo poche panetterie usano questa pratica per pani definiti, giustamente, speciali, non tanto, forse, per il sapore, quanto per il prezzo …
E allora a me piace pensare che lliatu partecipi quasi contemporaneamente dell’idea del levare (che non è un atto di violenza ma d’amore perché garantisce la perpetuazione del pane) ma anche del sollevare che è poi quella più appariscente, materiale, ma non per questo più profonda, del lievito.
Non so quanto questo possa aiutare un giovane a capire meglio perché in passato era un sacrilegio buttare un pezzetto di pane, anche se raffermo (No ssi mena la crazia ti lu Signore=non si butta la grazia del Signore!); non si buttava neppure il pane ammuffito, anzi si diceva ai bambini che mangiando quest’ultimo gli sarebbero spuntati i denti d’oro. Dubito che gli antichi avessero intuito prima ancora di Fleming le proprietà benefiche di certi funghi (nella fattispecie la muffa del pane) …, ma ho quasi la certezza che i funghi e le muffe del pane di oggi producano ben altri effetti, per cui buttarlo in questo caso non sarebbe un atto riprovevole né tanto meno, se ciò fosse previsto dall’ordinamento, perseguibile, perché dettato dalla necessità di salvezza del corpo (status necessitatis); l’anima, anzi l’animo, può aspettare.
Chi e che cosa mi hanno ispirato alla fine questo profondo (!) excursus giuridico (!!) sull’agibilità, anche se non politica, filosofica (!!!) del mio ragionamento, lo lascio indovinare a chi ha avuto la pazienza di seguirmi fin qui … certo è che il pane è stato lasciato a lievitare pure troppo, è tempo di infornarlo; ma, attenzione!, bisogna estrarlo quando è carbonizzato, come quello di Pompei, però ho il dubbio atroce che i fornai nella fattispecie siano all’altezza …
E chiedo scusa alla crazia ti lu Signore per averla usata in una similitudine; in fondo, metaforicamente parlando, no ll’aggiu minata (non l’ho buttata).
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1 Ha il suo corrispondente formale e semantico nell’italiano temperare.
2 Scanare per il Rohlfs è dal latino explanare. Questa voce latina è composta da ex intensivo e planare=spianare, da planus=piano. La proposta del fiologio tedesco è ineccepibile, anzi perfetta, sul piano semantico ma a prima vista non pare convincente su quello fonetico perché l’originario gruppo latino –pl– ha come esito in italiano –pi– e nel dialetto salentino –chi– (esempio: planum>piano>chianu). Si può, tuttavia, immaginare che scanàre invece di schianare si sia sviluppato per analogia con quanto successo con scattare (=scoppiare) rispetto all’italiano schiattare.
3 La voce, in passato usata pure in italiano, è dallo spagnolo manta. Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/10/la-manta/
4 Sul fenomeno del raddoppiamento della consonante iniziale vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/?s=raddoppiamento+consonantico&submit=Search.
5 È il concetto che è alla base della variante leccese criscituru, da criscire (=crescere)+suffisso strumentale.
6 Questa tendenza è confermata dalle varianti lavatu (Galatina), latu (Vernole), liatu (Avetrana), luvatu (Carovigno), luvàite (Ceglie Messapica), luate (Ostuni), luatu (Erchie e Oria), luvete (Palagiano) e llavatu (Alessano e Ruffano).
7 Proprio rinfresco è il termine tecnico usato per indicare l’operazione di mantenimento in vita della pasta madre con l’aggiunta delle dosi opportune di acqua e farina, lo stesso procedimento usato per prepararsi da soli lo yogurt che, guarda caso, è parola di origine turca col significato di impasto.
Ciao Armando,
siamo molto vicini anche in questo caso, salentini e piemontesi, Il lievito in piemontese si chiama “lvà” oppure “alvà” o ancora “levà” e vengono dal participio passato del verbo “levé” che significa “sollevare”; la derivazione latina direi che è indubbia. Mi piace citarti una “andvinaja” indovinello che dice “Cita citin-a ma i levo un sach ëd farin-a” “Sono piccola piccolina, ma (sollevo – faccio lievitare) un sacco di farina)”. Lo trovo molto appropriato, simpatico, d’antan.
Qual è la fonte di “luvàite (Ceglie Messapica)” perchè io ho sempre sentito luate?
G. Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976, v. I, lemma “lavatu”, pag. 288.
Nota alla nota 2:
infatti, l’esito originario di lat. explanare è il salentino šcanare (leggi sc’canàre) che in alcuni parlari ha dato la variante scanare, come lat. *mŭscŭla > lecc. mušca > variante musca ‘mosca’ (anche per influenza dell’italiano “mosca”).
Omettevo (mea culpa) che accanto allo sviluppo salentino in -šc- (quale risultato si s+chj di qualsiasi origine) vi è l’altro esito in -schi-: si confrontino le forme salentine schianare, mùschia, uschiare, raschiare, queste ultime nella forme lecc. ušcare, rašcare con le varianti uscare, rascare (forse le voci con -šc- sono sentite più “rustiche” o “rozze”?).
Mi è difficile risolvere se l’esito in -schj- sia antecedente a quello in -šc- !!!
:) https://www.youtube.com/watch?v=Z0eg2RjVqbw