di Armando Polito
Con il titolo non intendo certo offrire la mia disponibilità a pestare l’uva con i miei piedini che sembrano tali se confrontati con le pinne che altri possono esibire. Oltretutto i dolori reumatici (cosa non darei perché diventassero romantici come quelli del giovane Werther!) di cui soffro da tempo mi costringerebbero ad interrompere la prestazione senza sperare, a differenza di qualche manager …, in buonuscita di sorta. Dichiarandomi sempre disponibilissimo, però, alla degustazione del prodotto finito, voglio solo intrattenere il lettore su cinque voci dialettali comparse nel recente post di Mimmo Ciccarese sull’argomento (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/06/riparte-la-vendemmia-nel-salento-la-storia-continua/) e nello stesso tempo fornire la prova scientifica, se così si può dire ed ammesso che sia all’altezza per farlo, di tutta la carica umana di certi “tecnicismi” e “parole chiave” che Raffaella Verdesca nel suo commento ha così magistralmente, come sempre, messo in luce.
Ndiacacanisce (all’autore del post è sfuggito ndiacacacanisce che … per motivi igienici ho sentito il dovere di correggere) nel dialetto neretino sarebbe, se esistesse, sdiacacanèscie=svuotacanestri; il verbo di base è dal latino de=da e vacare=essere vuoto. Nelle nostre voci dialettali, però, vacare ha assunto il significato attivo di vacuare (che in tutta evidenza è suo parente, anche se figlio diretto di vacuus=vuoto)=svuotare. Inoltre, mentre ndiacare (da ndivacare) ha aggiunto in (poi diventato n– per aferesi) a de e a vacare, la voce neretina sdiacare ha aggiunto in testa un ex (come se non bastasse già de …) che per aferesi è diventato s-. Direi, perciò, che ndiacare appare più adatto ad esprimere le implicazioni sentimentali, magari inconsce, del gesto, perché alla lettera significa vuotare (il contenitore più piccolo) di (qualcosa versandola) in (un altro contenitore più grande). Direi che l’amore, la cura, l’aspettativa sono tutte condensate in quell’in.
Cuficiniaturu è per metatesi da cufinisciaturu, alla lettera portatore di cofani. In italiano cofano sopravvive solo come voce automobilistica, mentre in passato in dialetto indicava anche per metonimia (l’oggetto per l’azione) la complessa operazione del bucato; quest’ultimo e cofano sono stati soppiantati, ormai, altra metonimia, da lavatrice. Cofano è dal latino còphinu(m)=cesta (nel bucato il contenitore era di creta), a sua volta dal greco κόφινος (leggi còfinos) con lo stesso significato.
Camiu è deformazione (ma affettuosamente parlerei di regolarizzazione della desinenza …) di camion.
Muscale nel latino medioevale la voce, forma aggettivale da musca=mosca, significa ventaglio. Appare evidentissimo come per motivi semantici non possa essere il nostro. Infatti quest’ultimo è sempre forma aggettivale, ma da muscu=omero, spalla; e muscu è in uso nel Tarantino e nel Leccese, ma non a Nardò che adopera mùsculu, dal quale, per apocope, deriva muscu.
Parmientu corrisponde all’italiano palmento. I vocabolari parlano di etimo incerto per questa voce. Il De Mauro (2000) aggiunge forse dal latino tardo paumĕntu(m) variante di pavimentum=pavimento. A parte il fatto che anche il più scalcinato studente di liceo classico dovrebbe sapere che la e di paumentu(m) non è breve (ĕ) ma lunga (ē), a parte l’altro fatto che di paumentum nel latino “tardo” non esiste neppure l’ombra e, quindi, doveva essere scritto *paumentum (voce ricostruita), c’è da rilevare il terzo fatto: il trattamento del lemma sembra derivato per sintesi1 da quanto si legge nel Pianigiani (1907):
Tuttavia nemmeno la proposta etimologica del Pianigiani doveva essere originale se già Giovanni Flechia nell’opuscoletto Nel 25° anniversario cattedratico di G. I. Ascoli gratulando e augurando all’amico e collega, addì 25 di novembre del 1886, Bona, Torino, trattando dell’etimo di frana e di palmento per la prima voce proponeva la trafila voragine>*voraina>*vorana*vrana>frana; per palmento, invece, rifiutava la connessione tra pavimentum e *paumentum per motivi non fonetici ma semantici, in quanto non si capirebbe come una voce designante uno spazio piano fatto per camminarvi sopra (pavimento) passi poi ad indicare il pigiatoio delle uve e il frantoio delle olive. Per questo egli metteva in campo la radice ridotta (pag-) del verbo latino pàngere=ficcare, da cui si sarebbe formato *pagmentum2 che dal significato originale di incastratura sarebbe passato progressivamente a quelli di materiale inflitto, strumento, macchina. Da *pagmentum si sarebbe passati a *paumentum e poi fino a palmento secondo la trafila indicata dal Pianigiani (compreso il riferimento ad aldace) e di cui, ora, abbiamo appena conosciuto la paternità impietosamente attestata dalla cronologia (1886 contro 1907 …).
Non entro nel merito delle proposte fin qui riportate ma nel metodo sì. Palmento è dal latino medioevale palmentu(m) ampiamente attestato, come vedremo, anche in un testo di riferimento per questo tipo di studio: il glossario del Du Cange.
Delle due l’una: o gli autori che ho citato hanno colpevolmente omesso di consultarlo oppure non hanno considerato attendibile (ma sulla scorta di quali considerazioni?) quanto si legge a pag. 122 del tomo VI:
PALMENTUM Torcular. Italis Palmento, Gallis Pressoir. Charta Roberti Regis Siciliae ann. 1326, apud Ughellum in Episcopis Casertanis: Cum curtibus, salis, cameris, … coquina, puteis duobus, et Palmentis, cum portis, fenestris, etc. Infra : Videlicet in domibus palatiatis, et Palmento uno, et aliis domibus coopertis, etc. Habentur praeterea in Charta Sikelgaitae uxoris Roberti Guiscardi Ducis Calabriae apud eumdem torn. 7. pag. 396. Palmentum, a pedum palmis dictum censet idem Ughellus, quia ibi uvae pedibus premuntur.
Academ. Crusca. Calcatorium. Charta ann. 790. apud Murator. torn. 3. Antiq. Ital. med. aevi col. 561: Cum ipsa casa, quae ibi esse videtur, una cum ipso Palmento, etc.
(PALMENTO. Torchio. Per gli Italiani palmento, per i francesi pressoir [pressa]. Carta di Roberto re di Sicilia anno 1326, presso Ughelli in Vescovi casertani: con cortili, sale, camere, … cucina, due pozzi e palmenti, con porte, finestre , etc. Dopo: cioè in palazzi e un palmento e altre case coperte, etc. Si trovano (le stesse voci) inoltre nella Carta di Sichelgaita moglie di Roberto il Guiscardo Duca di Calabria presso il medesimo (Ughelli) tomo 7, pag. 396. Lo stesso Ughelli ritiene che si disse palmentum dai palmi dei piedi, poiché le uve lì sono premute con i piedi.
Accademia della Crusca. Pressa. Carta anno 790 presso Muratori tomo 3 Antichità italiche del Medioevo col. 561: Con la stessa casa che sembra stare lì, insieme con lo stesso palmento, etc).
Al documento dell’epoca di Roberto il Guiscardo (1025 circa-1085) segnalato dal Du Cange aggiungo che palmentum è voce molto ricorrente anche in documenti del secolo successivo (per tutti quello del 1131 pubblicato in Giacinto Libertini, Documenti per la storia di Caivano Pascarola, Casolla Valenzana e Sant’Arcangelo, Istituto di studi atellani, Frattamaggiore, 2003, s. p.). Si tratta, dunque, di voce latina e non volgare latinizzata, per cui basta e avanza per dire che palmento è dal latino medioevale palmentu(m). Da dove, poi, derivi palmentum è un’altra questione alla quale gli autori già citati hanno dato la loro differente risposta che mette in campo ora la voce palma (Du Cange, anzi Ughelli) ora la radice pag– di pàngere, ora pav– di pavire (Pianigiani, che, però, sicuramente ha copiato da qualcuno che non sono riuscito ad individuare).
Non ha senso criticare, sia pure solo nel metodo, anche se non mi sono schierato per quanto riguarda il merito. Rispetto a quest’ultimo, però, sarei grato se qualche lettore mi facesse sapere la sua opinione sulle due proposte etimologiche che di seguito avanzo:
1) Il nucleo del palmento era costituito dalla grande vasca in cui l’uva veniva pigiata. Tutto, perciò, potrebbe essere partito dalla pila ed essersi formato attraverso la trafila pilare (attestato nel latino medioevale col significato di accumulare in una vasca: Du Cange, op. cit. pag. 321>*pilamentum>*palimentum (metatesi)>palmentum (sincope).
2 Stesso etimo di paramento, cioè dal latino medioevale paramentu(m)=impedimento, ma con recupero del significato del verbo classico da cui deriva (parare=apprestare) e sincope (paramentum>parmentum)>palmentum. Sul rapporto tra i due significati basta considerare l’attuale calcistico parare che può essere interpretato come apprestare e compiere un gesto che mira ad un certo risultato (evitare il gol dell’avversario) oppure come opporre, sempre con lo stesso scopo, un impedimento.
Che abbia ragione Nerino?
* Poeta dei miei stivali, con quel tuo palmento vino ne produci poco …
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1 Direi che i vocabolari sono il testo per eccellenza in cui più spesso si consuma impunemente il reato di plagio con l’alibi della pur necessaria stringatezza. In rapporto, però, agli etimi “incerti” cosa costerebbe anche in termini di spazio, quando qualcuno di questi viene citato, aggiungervi in parentesi tonde il nome del proponente e, possibilmente, la data?
2 Il composto antepagmentum è attestato in Vitruvio (I secolo a. C.), (De architectura, IV, 6) col significato di intelaiatura di porta, mentre Festo (II secolo d. C.), De verborum significatu, nel riportare la voce in una variante al plurale (antipagmenta) ne dà questa definizione: Valvarum ornamenta, quae antis adpanguntur, id est, affiguntur (Ornamenti dei battenti che vengono inseriti, cioè infissi, nelle ante). Nello stesso Vitruvio (op. cit., VII, 5) è attestata anche la voce appaginèculi=ornamenti (per assimilazione da adpaginèculi, composto da ad– e dalla stessa radice pag-). Ne approfitto per ricordare che sempre dalla radice pag– è pagina, che in origine significò filare rettangolare di viti (Plinio, Naturalis historia, XVII, 169), poi, per metafora, colonna di scrittura; perciò non è da escludere che forma rettangolare avessero gli appaginèculi vitruviani. Chiudo la nota ricordando che la stessa radice ricorre nel greco πήγνυμι (leggi pègniumi)=ficcare.