di Armando Polito
Avrei potuto intitolare questo post Quarantaquattro indovinelli leccesi in una raccolta di fine Ottocento, ovvero cerchi una cosa e ne trovi un’altra, ma dovevo pure nel mio piccolo far qualcosa, nel generale sensazionalismo che caratterizza oggi ogni titolo, per tentare di carpire l’attenzione di qualche lettore in più …
Fra poco il ragno e il pescatore dovranno cercare un altro nome per il loro attrezzo di lavoro perché il significato informatico di rete ha preso il sopravvento su quello originario, sicché il prevalere nell’uso del concetto virtuale o astratto sul concreto li costringerà forse (in verità ad essere costretto sarà solo l’uomo …) per evitare equivoci, a dare un nome diverso a quell’oggetto antichissimo che consente loro di guadagnarsi l’insetto e il pane.
Ci sono analogie macroscopiche tra la rivoluzione di Gutenberg e quella informatica. Anzitutto la diffusione della cultura, anche se nella prima rivoluzione essa ha avuto un carattere che può essere definito “locale” se paragonato al planetario della seconda grazie, proprio, alla rete. Nonostante l’invenzione della stampa, poi, il libro continuò per secoli ad essere, e non solo per il costo, un oggetto destinato a pochi privilegiati; nell’arco di un decennio credo che il processo di digitalizzazione, già avviato di recente anche in Italia (buona ultima …) e che mi auguro continui, metterà a disposizione di chiunque, e a costo zero, tutto il patrimonio custodito nelle biblioteche e negli archivi; sarà solo quello libero dal diritto d’autore, ma chiunque comprende come esso rappresenta la parte più cospicua del patrimonio librario e documentario accumulato nei secoli.
Nel frattempo bisogna destreggiarsi tra links e motori di ricerca, ricorrendo magari ad espedienti empirici per compensare i difetti che questi ultimi, nonostante tutto, ancora presentano. Insomma, il fattore umano resta fondamentale e la serendipità una dote da cui, soprattutto in questo campo, non si può prescindere.
Così i ritrovamenti casuali sono dietro l’angolo e ad uno di questi è dedicato il post odierno.
Tutto è nato da un riferimento contenuto nel Vocabolario del Rohlfs (che per me, se non si è capito, è una specie di Bibbia, che, però, rispetto certamente ma nella quale non credo a prescindere, perché non sono disponibile a rinunciare all’esercizio, per quanto umile, del mio senso critico) in cui con la sigla L9 viene registrato: Luigi Maria Personè, Etimologie neretine. Contenuto nella rivista Gianbattista Basile , anno II, 1884, p. 85-87 [Piccolo saggio che riguarda 15 vocaboli del dialetto di Nardò].
Chi si occupa di questi argomenti può immaginare il livello di eccitazione raggiunto dopo tale lettura e la mia affannosa e speranzosa ricerca di quel numero della rivista. Sembrava tutto fatto quando l’ho trovato all’indirizzo http://archive.org/search.php?query=gIAMBATTISTA%20Basile
Purtroppo non solo alle pagine 85-87 ma in tutto il numero non c’è ombra del saggio che cercavo. Ho esteso la ricerca agli altri numeri presenti in rete credendo ad un errore di data ma anche in questo caso il saggio è risultato irreperibile.
In compenso ho trovato sempre nello stesso numero alle pagine 93-96 quanto segue (il testo originale a sinistra, la mia trascrizione in italiano a destra con le note che mi hanno consentito di aggiungere qualche riflessione).
CONTINUA
seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/16/indovinelli-leccesi-sotto-lombrellone-23/
terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/17/indovinelli-leccesi-sotto-lombrellone-33/
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1 È una delle innumerevoli metafore della scrittura contenute in altrettanti proverbi popolari di territori diversi, di chiara origine contadina. Questa metafora, però, è di origini molto antiche. Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo) ci ha tramandato (Etymologiae, VI, 9) un frammento di una commedia di Tinto Quinzio Atta, morto nell’80 a. C.: Vertamus vomerem in cera mucroneque aremus osseo (Volgiamo il vomere nella cera e ariamo con uno stocco di osso). E ancora: il verbo exarare (composto di arare) è usato nel senso traslato di scrivere da Cicerone (Ad Atticum, 12,1: undecimo die postquam a te discesseram, hoc literularum exaravi=dieci giorni dopo essermi allontanato da te ho scritto queste letterine) e da Plinio il giovane (Epistulae, 7, 4, 5): id ipsum, quod me ad scribendum sollicitaverat, his versibus exaravi (ciò che mi avevi sollecitato a scrivere l’ho scritto in queste righe); l’altro composto perarare, sempre nello stesso senso traslato, è in Ovidio (Metamorphoseon libri, IX, 563: talia perarrans manus=la mano che scrive tali cose). Tale uso continuerà fino all’epoca medioevale. Chi non ha sentito almeno una volta la locuzione scrittura bustrofedica? Si tratta del modo di scrivere antico alternativamente da destra a sinistra e da sinistra a destra. Bustrofedico è dal greco βουστροφηδόν (leggi bustrofedòn)=voltando come i buoi; la voce, a sua volta, è da βουστρόφος (leggi bustròfos) e questo da βοῦς (leggi bus)=bue+στρέφω (leggi strefo)=volgere. Lo conferma, ove ce ne fosse stato bisogno, il già citato Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo), Etymologiae, VI, 14,7: Versus autem vulgo vocati quia sic scribebant antiqui sicut aratur terra. A sinistra enim ad dexteram primum deducebant stilum, deinde convertebantur ab inferiore, et rursus ad dexteram versus; quos et hodieque rustici versus vocant (I versi poi comunemente così chiamati poiché gli antichi scrivevano così come sia ara la terra. Infatti guidavano lo stilo prima verso destra, poi spostandosi in basso i versi cambiavano direzione e poi procedevano di nuovo verso destra; anche ora i contadini li chiamano versi).
Ѐ tempo ora di passare ad un argomento diverso, anche se sempre in tema. Dopo scrittura bustrofedica chi non ha sentito parlare (almeno qualche lettore con qualche anno alle spalle e che abbia frequentato il liceo classico …) di indovinello veronese? Si tratta di un testo considerato, anche se non concordemente, uno dei primi documenti dell’italiano delle origini rinvenuto nel 1924 da Luigi Schiaparelli nel recto del foglio 3 del codice LXXXIX custodito nella Biblioteca Capitolare di Verona [nell’immagine sottostante il dettaglio che ci interessa, in cui il testo occupa le prime due righe; la terza contiene una formula di benedizione in latino che nulla ha a che fare con l’indovinello: Gratias tibi agimus omnip(otens) sempiterne D(eu)s=Rendiamo grazie a te, Dio onnipotente sempiterno].
Se pareba boves alba pratalia araba et albo versorio teneba et negro semen/seminaba
La versione in italiano corrente sarebbe: Teneva davanti a sé i buoi (le dita della mano), arava bianchi prati (la carta) e teneva un bianco aratro (la penna d’oca) e seminava un nero seme (l’inchiostro).
L’interpretazione appena riportata fu fornita da Vincenzo De Bartholomeis con l’aiutone (non era ancora nato il famigerato aiutino …) di una studentessa del primo anno della facoltà di Lettere dell’Università di Bologna (mi fa particolarmente piacere ricordare il suo nome perché nei testi ufficiali compaiono solo i grandi nomi i quali troppo spesso si dimenticano che senza l’aiuto, magari inconsapevole, ma non è questo il nostro caso …, col cavolo avrebbero conseguito un certo risultato: la ragazza si chiamava Liana Calza) che alla lettura di quel testo colse le somiglianze con un indovinello popolare che aveva imparato da bambina. E in Antonio Gianandrea, Canti popolari marchigiani, Loescher, Torino, 1875 a pag. 302 si legge: Campo bianco, somenta nera,/due ne guarda e cinque ne mena (i due, questa volta, sono gli occhi e i cinque le immancabili dita). La metafora, però, quando il testo veronese fu interpretato, aveva addirittura trovato già da parecchi anni la sua celebrazione poetica moderna nella poesia di Giovanni Pascoli Il piccolo aratore (vv. 1-4) facente parte di Miricae (1891): Scrive… (la nonna ammira): ara bel bello,/guida l’aratro con la mano lenta;/ semina col suo piccolo marrello:/il campo è bianco, nera la sementa (marrello è un originale diminutivo di marra e metaforicamente rappresenta il pennino). Per farla completa, poi, il Pascoli l’aveva pure ripresa, questa volta in latino, in Sosii fratres bibliopolae (1899), I, 1-4: Vere novo sonuit domino dictante taberna/interior: librarioli data verba sedentes/figebant calamis, et in albis nigra serebant/
membranis, fragili quodam cum murmure sulci (All’arrivo della primavera la parte più interna del negozio risuonò (della voce) del padrone che dettava: i copisti seduti fissavano con le penne le parole dettate e seminavano sostanze nere su bianche pergamene, con un certo fragile mormorio del solco).
Quello che ci ha trasmesso Girolamo Congedo (è il nome dell’autore, del quale dirò dopo, della raccolta) è, dunque, una tessera di un gigantesco mosaico. E una sua quasi impercettibile variante va aggiunta, tratta da Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, XXIII, 1907: Cinque su’ li stantuli e unu lu pinnente,/janca è la terra e niura la simente [Cinque sono i sostegni (le dita della mano; stàntulu, comunemente usato per stipite, è diminutivo dell’italiano obsoleto stante) e uno il pendente (nell’aratro il vomere, metaforicamente la penna), bianca è la terra (il foglio di carta) e nera la semente (l’inchiostro)].
2 La soluzione, come si legge è cassa da morto, in leccese (ma anche in alcune zone del Brindisino e del Tarantino) chiaùtu (a Nardò, però, è usato còndula, che secondo il Rohlfs è dal latino cùnula=culletta, diminutivo di cuna=culla). Quanto a chiaùtu, così il Rohlfs: cfr. il calabrese tavùtu, siciliano tabbutu, spagnolo ataùd, spagnolo antico atabud, dall’arabo tabût. I due etimi non mi convincono. Comincio da quello proposto per chiaùtu: le difficoltà di ordine fonetico mi spingono a ipotizzare un collegamento con clavis=chiave, clavare=inchiodare, claudere=chiudere. Quanto a còndula, lasciando perdere il valore diminutivo che si somma alle dimensioni già piccole dell’oggetto (la culla) indicato dal nome primitivo, bisognerebbe ipotizzare la dissimilazione di una forma con raddoppiamento *cònnula, cosa molto improbabile se si pensa che a Nardò l’originario gruppo –nd– rimane sempre tale (quando>quandu e non, come avviene in altre zone, quannu). D’altra parte non mi pare probabile che a Nardò sia stata importata la forma cònnula (attestata nel tarantino a Manduria) con successiva dissimilazione; credo di potere affermare, perciò, che tanto cònnula che còndula potrebbero essere connesse col latino còndere che, tra gli altri significati, ha anche quello di seppellire; solo che la forma neretina avrebbe conservato il gruppo –nd-, quella di Manduria avrebbe operato, come di consueto, l’assimilazione.
3 In aggiunta al commento presente in calce ricordo che marisciàre è usato normalmente nel senso di meriggiare, per cui non escluderei il gioco di parole tra i significati di meriggiare (il biondo delle messi deve tanto al meriggio ed evoca il giallo, colore del sole; l’idea del riposo del meriggiare pallido e assorto di Montale è di là da venire …) e mareggiare.
4 È una sorta di sciarada, figurata nei primi tre elementi (il compasso costituito dalla A, la panca a tre piedi dalla M e la sfera dalla O .
5 Più che un indovinello mi pare una sorta di scioglilingua, al pari di nna pica pizzichica pizzicoca campò sette piche pizzichiche pizzicoche, ma sette piche pizzichiche pizzicoche no campara nna pica pizzichica pizzicoca (in senso traslato: una madre nutrì sette figli, sette figli non nutrirono una madre).
6 È anche una scherzosa, ma ineccepibile da un punto di vista filologico, etimologia di chiavare nel significato che tutti i vocabolari classificano come volgare. Ecco la versione registrata in Indovinelli erotici salentini, a cura di Nicola G. De Donno, Congedo, Galatina, 1990, pag. 30: Ota otandu,/chiava chiavandu,/face ddha cosa,/poi se rreposa (Gira girando, chiava chiavando, fa quella cosa, poi si riposa). Nello stesso volumetto a chiave/chiavistello corrispondono altri indovinelli: pag. 43: Notte era, scuru facia,/lu carottu nu llu vitia,/vo’ nni lu mpizzu e nnu ttrasia (Era notte, faceva buio, non vedevo il buco, vado ad infilarla e non entrava); pag. 60: Fu’ fu’ e la mpizzu (Corro, corro e la infilo); pag. 71: Muggherema de sutta e jeu de susu,/rittu ni la nfilai ntru lu pertusu;/e bbui, signuri, nu ppensati a mmale,/lassàtimelu a mmie lu cutulare (Mia moglie sotto e io sopra, dritto gliela infilai nel buco; e voi, signori, non pensate male, lasciatelo a me il muovere); pag. 95: Jeu ticia trasi,/e iddha num bulia./Poi truvai lu pertusu. La cacciai dopu l’usu (Io dicevo -Entra!- e lei non voleva. Poi trovai il buco. La tirai fuori dopo, l’uso).
7 La carica eufemistica della voce nella sua valenza metaforica oscena è assolutamente geniale, anche se l’autore della raccolta mostra di non essersene accorto …
Almeno con la cassa da morto siamo compagni, gente del sud e gente del nord. Dice “l’advinaja piemontèisa” (notare che in piemontese è femminile l’indovinello):
“Chi ch’a l’ha fà, a l’ha fà për vende, Chi la fa, la fa per venderla
chi ch’a la compra a la deuvra nen, chi la compra non l’adopera
e chi ch’a la deuvra a la s-ciara nen” e chi l’adopera no la vede
Mentre per la chiave il nostro è più pudico:
“Na còsa gròssa come la piòta ëd na galin-a “UNa cosa grossa come una zampa di gallina
ch’a guerna tuta la cassin-a” che custodisce tuttta la cascina”
Lo scioglilingua in piemontese si dice. “dësgagiafilèt” “dësgagé” è il verbo “sveltire” e il “filèt” è il “frenulo linguale”, quindi “sveltisce la parlantina”. Uno molto bello veniva dal gioco delle bocce (che come sai è – era- un gioco molto praticato in piemonte. Ci sono stati grandi campioni di bocce) e diceva:
“Tirje ti ch ‘i tjë tache,e se tjë tache nen tirje pì nen” “Tiragli tu che lo colpisci e se non lo colpisci non tirargli più”
Un’altro che è sia “andvinaja” che “dësgagiafilèt” che doveva divertire i bambini (ci si divertiva con poco) è questo:
“Tre ch’a ven-o, tre ch’a van van, Tre che vengono e tre che vanno
tre ch’a pësco, tre ch’a lësco tre che pescano, tre che scheggiano
tre ch’a fan la barba al vësco; tre che fanno la barba al vescovo;
tre ch’a fan la tricotrà; tre che fanno il lavoro a maglia;
tre ch’a sbato la gioncà; tre che fanno la ricotta;
tre ch’a fiaco, tre ch’a sgnaco, tre che pestano, tre che schiacciano,
tre ch’a giro, tre ch’a tiro, tre che girano, tre che tirano,
tre ch’a fan viro bërliro, tre che fanno il giro che prende in giro,
tre ch’a fan viro bërlà tre che fanno il giro sullo sterco
për fé lese sor curà per far leggere il signor curato
La risposta dell’indovinello sono “j’avije” “le api”. Ma ritengo che fosse soprattutto uno scioglilingaua.
Tanto per sentirci vicini e augurarci BUON FERRAGOSTO
Sergio
Ringrazio per le integrazioni, sempre preziose, e ricambio l’augurio.
A proposito di chiaùtu e còndula:
– per chiaùtu, la commistione con le voci salentine indicanti “chiave” (chiài, chiave) o “chiodo” (chiovu, chiòu, chiuèu) era stato già proposta da Fernando Manno (nel VDS con la sigla L6) negli anni ’50 su un periodico locale;
– per còndula, la derivazione dal lat. còndere “seppellire” (quindi *còndula ?) sarebbe l’unica in tutta l’area romanza (secondo le poche fonti di cui dispongo); mentre è più a portata di mano sospettare una ipercorrezione tipo quella del leccese capanda ‘capanna’ o quella parallela del neritino mbaccare ‘cadere’ (da “ammaccare”). Si avrebbe una sorta di raffigurazione simbolica della bara mentre ‘dondola’ come una “culla” sulle spalle dei portatori.
Caro Fabio, Ignoravo la proposta di Fernando Manno, anzi ti sarei grato se, nel caso tu avessi l’immagine del trafiletto (credo sia tale), me ne mandassi una copia all’indirizzo
polito.armando@libero.it
Comunque, per quanto riguarda la probabile origine deverbale da condere, non posso esibire l’attestazione di un sostantivo conda da cui poi condula, ma tre casi simili (in mente adesso mi vengono solo questi, ma molto probabilmente non saranno i soli): subula=lesina (da cui il neretino ssùghhia) che deriva direttamente da suere=cucire (probabilmente all’origine era suvere), mentre non è attestato un suba; regola da regere, mentre rega, attestato nel latino medioevale col significato di solco e da cui deriva l’italiano riga, è di origine longobarda; tegula=tegola, da tegere=proteggere, mentre tega, attestato nel latino medioevale col significato di bara è chiaramente dal classico theca=involucro, a sua volta del greco ϴήκη.
All’ipotesi del Rohlfs e della culla, per quanto suggestiva, debbo aggiungere, oltre alle perplessità già espresse nel post, l’altra basata sul fatto che mi sembra strano il passaggio dell’originario u di cuna ad o, mentre di solito succede il contrario.
E se còndula fosse, molto più banalmente, la trascrizione dell’italiano “gondola”, che è dal greco medioevale κονδοῦρα, a sua volta dal classico κοντός=corto+οὺρά=coda? Certo, più che di coda corta, nel caso della bara bisogna parlare proprio di coda mozza. Non pensavo di iniziare la giornata toccandomi …
A proposito di chiaùtu e cònnula (errata corrige):
mi scuso del refuso: l’autore non è F. Manno, ma Francesco D’Elia in “Elementi arabi nel dialetto leccese” (1908) che propone, invece dell’arabo, un etimo *chiavuto, quasi fosse ‘cassa chiusa con «clavi»’, cioè con “chiodi”.
Purtroppo il trafiletto è stato tratto prendendo appunti in…biblioteca (!!!).
Puntando l’attenzione sul nesso demo-etno-antropologico circa l’antitesi “culla” – “bara”, invito l’amico Armando a visitare i seguenti link e formulare un suo pensiero a tal proposito
http://www.trecchina.info/m/monumenti/sangiovanni.htm
http://it.wiktionary.org/wiki/naca
Inoltre, dal punto di vista fonetico a Nardò, dati –a ed –e finali, è regolare il passaggio di o chiusa romanza (da vocali latine o lunga e u breve) in ò: vōce > òce, bŭcca > òcca.
Infine, anch’io ero dell’allettante assonanza còndula : gondola, ma non riesco a cogliere l’aggancio dal punto di vista culturale.
Attendo con impazienza.
Caro Fabio, i fenomeni fonetici da te esattamente indicati (a parte un bŭcca per būcca che ti è sfuggito) possono applicarsi certamente a cūna (anche se dovremmo rinunciare ai rapporti col romanzo, visto che gli unici eredi sono incunabolo (non inconabolo) e culla (non colla) che, come sai, è dal latino tardo cùnula. La proposta del Rohlfs supporrebbe la trafila cuna>cunula>*cùnnula>*cùndula>còndula e sarebbe decisiva se si riuscisse a spiegare il raddoppiamento di n.
Lo sai che dopo gondola mi è venuto in mente connus=vulva? Se si potesse provare che è così avremmo una sorta di associazione tra l’idea della nascita e quella della morte. Nel Rholfs la culla nel suo aspetto migliore è associato alla nascita e al sonno del bambino; pure il conno nel suo aspetto migliore sarebbe associato all’idea della nascita e in quello peggiore potrebbe simboleggiare il buio della morte. Riconosco che troppo spesso, forse, mi lascio trascinare dalla fantasia …
Sulla improbabilità “culturale” che condula sia trascrizione di gondola non avrei avuto nulla da eccepire finché non sono andato al primo link da te segnalatomi. E qui l’immagine della connola ricavata da un fusto di albero mi ha riportato a gondola e quella dei cadaveri fatti scivolare nella cavità sottostante a conno. Certo, se Trecchina si fosse trovata nel Veneto la gondola sarebbe tornata prepotentemente alla ribalta.
Per quanto riguarda il secondo link il significato di “bara del Cristo morto” che la voce naca assume a Castelbuono (in provincia di Palermo, ma vedi anche http://it.wikipedia.org/wiki/Naca) costituisce una bella integrazione al mio post in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/17/sul-termine-naca-la-culla-dei-nostri-avi/
e questa volta ritornano, invertite, l’idea della morte e della (ri)nascita.
Interessante è nel secondo link che mi segnali la voce campana connola riportato come sinonimo di culla. Se condula è voce importata si pone un ulteriore problema: il gruppo napoletano nn è frutto di assimilazione (come in quanno da quando) per cui più fedele alla voce di partenza sarebbe la nostra, oppure quest’ultima ha subito quel processo ipercorrettivo di cui parlavi (capanna>capanda) nel precedente commento? Se è così, si torna ad un cunnula da cunula e, poi basta veramente, nd da nnpotrebbe essere stato indotto per influsso di dondolare.
Da morire! …