di Francesco Greco
Nel Salento rurale dell’altro secolo, mentre sullo sfondo incombe la guerra di Libia, nel minuscolo universo che era la masseria si intreccia una storia d’amore e di miseria, di uomini consumati dal lavoro della terra e dalle passioni. Tripoli, bel suolo d’amore, richiama nel deserto la meglio gioventù. Alla masseria a sud di Otranto, fra Santa Cesarea e Ortelle, c’è anche Pasquale, che ha messo gravida la bella Maria, detta Ia, la figlia di Peppino “Parmatiu” ormai “valagna” (in età fertile). Non resta che organizzare una fuga d’amore per gettare fumo negli occhi della gente e salvare la faccia. Pasquale e Ia se ne vanno in una pajara (trullo a tolos).
E’ l’incipit di “Poppiti”, romanzo che lo scrittore salentino Giorgio Cretì (nato a Ortelle nel 1933, è morto a gennaio scorso, laureato in Scienze Politiche, ha vissuto a Pavia) pubblicò con “Il Rosone”, la rivista dei pugliesi di Milano nel 1996 e che la scrittrice Raffaella Verdesca e il regista Paolo Rausa hanno adattato come testo teatrale in quattro atti, esaltando il pathos di una storia in cui compaiono molti archetipi della cultura meridiana, dinamiche sociali, rapporti famigliari e interpersonali, usi e costumi, spiritualità, sessualità, ecc.
Il tutto calato nella magia della campagna salentina, fra erbe e malerbe, con la natura dotata di un suo struggente carisma, elevata a elemento portante della narrazione. Sintetizzato, scarnificato, colto nella sua nuda, solare essenzialità, il testo risulta si può assimilare al Neorealismo letterario (verghiano) e cinematografico (De Sica), pregno di una energia e una vitalità da leggere come transfert e prosecuzione di quelle in di cui è pregna una terra selvaggia, un popolo onesto e fiero, scosso dal vento del desiderio, delle passioni (politica, civile, sessuale) che tende alla tragedia (dna magnogreco), una cultura che si regge sull’agorà dei sentimenti, una civiltà con la “c” maiuscola di cui s’indovina tuttoggi lo splendore. Pasquale parte “per conquistare l’Africa”, Ia resta col bimbo da svezzare. Il marito è fatto prigioniero e per mesi non dà sue notizie. Sindaco e speziale non sanno dire niente di più sulla sua sorte. La ragazza soffre la solitudine, “non sono da buttare, che scema!”. Potrebbe avere tutti gli uomini delle masserie, ma a guardarla con desiderio è il vecchio suocero: “Tu mi piaci ragazza e… non come figlia”. “Io sono la moglie di Pasquale, tuo figlio, non dimenticartelo!”.
Quando questi fa ritorno dalla Libia, trova la situazione che meno si sarebbe aspettato. Dopo essera andato a un funerale “nero come l’angoscia che mi porto dentro”: non gli resta che emigrare: “Bandirò dai miei occhi e dai miei pensieri questa terra… Andrò a coltivarne un’altra lontana, quella che con il sangue abbiamo conquistato in Libia, e mia moglie e mio figlio verranno con me a iniziare una nuova vita”.
Dopo la prima a Poggiardo, a casa Rausa (la dimora del grande poeta Fernando Rausa, “Terra mara e nicchiarica”), la compagnia “Ora in scena!” porterà in autunno lo spettacolo a Ortelle, nel contesto di un progetto di valorizzazione dell’opera dello scrittore di Ortelle voluto dal sindaco del paese.
Sono previste anche altre tappe. Pasquale, Rocco, Dorotea, Ia, Cirina, Crocefissa, massaro Rosario e Peppino Parmatiu sono interpretati da Michele Bovino, Florinda Caroppo, Luigi Cazzato, Norina Stincone, Francesco Greco, Maria Orsi, Rosaria Pasca, Tiziana Montinari. Musiche di Pasquale Quaranta (P40) e Lucia Minutello.