di Armando Polito
Nel nostro tempo le tragedie, di qualsiasi tipo, sono così frequenti che non si fa in tempo ad archiviarne (non in senso giuridico, per quello c’è la prescrizione …) nella memoria una che già l’altra ha offuscato la precedente. Sta succedendo così anche per il naufragio della Concordia ed un secondo (questo, annunciato …) Si salvi chi può! è la vergognosa filosofia ispirante il solito osceno balletto del palleggio delle responsabilità. Così da un lato Schettino appare come un capro (anzi, un coniglio …) espiatorio in virtù del suo ruolo di comandante, dall’altro, piuttosto autoreferenziale, come un martire-eroe che minimizza le conseguenze dell’errore del timoniere e s’inventa la manovra salvifica che porta la nave ad adagiarsi dolcemente sugli scogli anziché inabissarsi poco più al largo. Non manca neppure il solito gustafeste spiritoso (?) che non parla di colpo di timone più o meno azzeccato ma più crudamente di una colossale botta di culo che ha pareggiato (si fa per dire …) il conto con quell’altra subita poco prima dal culo della nave urtando lo scoglio.
Comunque siano andate le cose se io fossi l’avvocato di Schettino concluderei la mia arringa finale con queste parole: – Il mio assistito non ha fatto naufragare la nave, l’ha fatta ‘ccumbire -. Prenderei, così, due piccioni con una fava: metterei probabilmente in difficoltà l’accusa che sarebbe costretta a chiedere un rinvio (fa sempre comodo a tutti … meno a chi ha subito il danno) per farsi una cultura sulla voce mai prima sentita e nello stesso tempo farei un po’ di pubblicità al dialetto salentino.
A chi o a che cosa, secondo voi, la Corte sarebbe costretta a ricorrere per farsi una cultura su ‘ccumbire se non al nostro sito? E a questo punto all’improbabile avvocato di prima subentra un altrettanto improbabile filologo. Ad ogni buon conto la Corte, consultandoci (noi siamo disponibili a consulenze gratuite, noi …), verrebbe a sapere che ‘ccumbìre, in dialetto salentino sinonimo di appoggiare, deriva dal latino accùmbere=porsi a giacere, coricarsi; mettersi a tavola (ricordo che nel mondo romano si pranzava stando sdraiati sui divani); raramente, però, la voce latina è usata con significato transitivo, valore che, però, ha assunto la nostra voce dialettale e in tutto questo valore, naturalmente, dev’essere intesa nel nostro caso, anche perché sennò la botta di culo cacciata dalla porta rientra dalla finestra: la nave non si è coricata da sola, Schettino l’ha messa a letto …
La presenza in latino accanto ad accùmbere anche di incùmbere (da cui l’italiano incombere)=stendersi sopra, di recùmbere=tornare a letto, di succùmbere (da cui l’italiano soccombere)=cadere giù, di procùmbere (da cui l’italiano letterario procombere)=piegarsi in avanti e di discùmbere (da cui l’italiano obsoleto discombere=sedersi a mensa)=sdraiarsi mostrano chiaramente la composizione tra una prima parte (rispettivamente in-, re-, sub-, pro– e dis-) e una seconda costituita dal verbo *cùmbere che, però, da solo non è attestato. È suggestivo, poi, visto l’argomento che ha ispirato il tutto, ma avrebbe bisogno di ulteriori conferme, supporre, come in passato si è fatto, che a questo *cùmbere sarebbe collegato il latino cumba o cymba=barca, navicella1, che in epoca medioevale assume anche il significato traslato di sepolcro di pietra di forma allungata; per completezza va detto che altri collegano, probabilmente più correttamente, cumba/cymba al greco κύμβη (leggi kiùmbe)=tazza, piccola barca, voce quest’ultima che altri ancora collegano, sia pur dubitativamente, con κυφός (leggi kiufòs)=gobbo, a sua volta da κύπτω (leggi kiùpto)=piegarsi. Qualcuno inoltre non esclude rapporti tra κύμβη e il latino cupa=coppa e i collegamenti fonetici e semantici tra tutte le voci fin qui riportate sarebbero confermati dal latino accubàre usato con lo stesso significato di accùmbere e formato da ad=presso+cubare (da cui l’italiano covare)=giacere. Ho detto sarebbero confermati perché in filologia (e non solo …) il condizionale in parecchi casi, tra cui questo, è d’obbligo.
Il greco registra pure un verbo ἀκουμβίζω (leggi acumbizo)=sedersi a tavola; esso è attestato in Gregorio I Magno (papa del VI secolo), Dialoghi, III, 1 col significato di sedersi a tavola. È evidentissimo, però, almeno qui, che si tratta della trascrizione del latino accùmbere con l’aggiunta del suffisso –ίζω (leggi –ìzo) per il quale vedi in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/22/un-relitto-greco-in-latino-in-italiano-e-in-neretino/.
Come tra gli umani talora il discendente di un emigrante italiano rientra nella terra dei padri portando con sé qualcosa di loro ma anche qualcosa di nuovo, così un discendente di ἀκουμβίζω sarebbe tornato proprio in terra salentina: sarebbe cumbisturu, nome dato alla stecca di canna che mantiene ferma la tela sul subbio del telaio. Il Rohlfs all’interno del lemma cumpisturu in uso a Galatina, Oria e Manduria, riporta le varianti cumbisturu per Nardò, cumpasturu per Cutrofiano , Galatone e Gaglianoe cumbasturu per Gallipoli e ancora per Cutrofiano, tutte “dal verbo ἀκκουμβίζω=poggiare”. Da notare intanto ἀκκουμβίζω per il corretto ἀκουμβίζω, dettaglio non da poco su cui tornerò dopo. Siccome il suffisso –ίζω nel dialetto salentino evolve (attraverso il latino –idiàre) in –isciàre va fatto un chiarimento fonetico a beneficio del comune lettore che, in generale, non può certo trovarlo, per motivi di spazio, nello sviluppo di un lemma di un qualsiasi vocabolario. Dunque: –ίζω>-idiàre>-isciàre; questa trafila, però riguarda i verbi ed infatti cumbisturu è sostantivo che, fra l’altro, presenta la terminazione –uru tipica dei nomi indicanti strumenti (minaturu=matterello; stumpaturu=pestello, tiraturu=tiretto, etc. etc.). Ora in greco a parecchi verbi in –ίζω corrispondono dei sostantivi: per esempio, a κομίζω=prendersi cura corrisponde κομιστής=accompagnatore. Anticamente, però, –ίζω era –ίδjω, dunque κομίζω era κομίδjω e il sostantivo κομιστής, costituito dal tema del verbo+il suffisso –τής, all’origine era κομίδjτής; poi j è caduto e per un normalissimo fenomeno fonetico la dentale delta (δ) davanti all’altra dentale tau (τ) si è assibilata, cioè è passata a sigma (ς).
Tutto questo per giungere alla conclusione che cumbisturu non sarebbe derivato direttamente dal verbo ma supporrebbe, tutt’al più, un sostantivo intermediario *ἀκκουμβιστής (partendo dall’ ἀκκουμβίζω del Rohlfs non attestato, *ἀκουμβιστής partendo dalla forma corretta ed attestata ἀκουμβίζω) al tema del quale (*ἀκκουμβιστ-, da correggere in *ἀκουμβιστ) è stato successivamente aggiunto (fenomeno mai incontrato prima) il suffisso strumentale.
Mi accingo ora a giustificare tutti i condizionali che ho usato in riferimento all’etimo del Rohlfs. In primo luogo c’è da dire che il suffisso strumentale –uru nel nostro dialetto non è altro che il discendente del suffisso che in latino serve per formare il participio futuro partendo dal supino dal quale si forma pure il participio passato. Sfrutterò questa analogia di formazione dal momento che il supino non è sopravvissuto nelle lingue romanze, ma prima di continuare voglio far notare come il valore finale strumentale ben si accorda con l’idea dell’uso futuro. Così minaturu (alla lettera cosa destinata a menare) deriva da minatu, participio passato di minare=menare; stumpaturu è da stumpatu, participio passato di stumpàre=pestare (per l’etimo di stumpare vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/28/stumpisciare-calpestare/); tiraturu è da tiratu participio passato di tirare, etc. etc.
Se a cumbisturu togliamo il suffisso strumentale -uru rimane cumbist– che suppone un participio passato cumbistu che, secondo me, non pone molte alternative teoriche, non potendo in alcun modo collegarsi al participio passato di ‘ccumbire che è ‘ccumbutu. Le alternative, perciò,secondo me, sarebbero:
1) da cum=insieme+pistu(m), participio passato di pìnsere=pestare. Il passaggio –p->-b- non pone alcun problema se si guarda la variante cumpisturu e se si pensa che a Nardò compare è sì cumpare e cumpà ma anche cumbà.
2) da commistu(m), participio passato di commìscere=mescolare, congiungere, frammischiare. Il passaggio –mm->-mb– non pone alcun problema (si pensi, per restare nell’ambito della stessa radice, all’uso, a seconda delle zone, di mmiscare e della forma dissimilata mbiscare).
La prima ipotesi mi pare, al pari di quella del Rohfs, plausibile sul piano semantico (per pestare qualcosa con qualche altra cosa bisogna appoggiare quest’ultima sulla prima almeno una volta) ma più convincente su quello fonetico in quanto più rispettosa di una tecnica di formazione consolidata. La seconda, invece, mi appare debole sul piano semantico. In conclusione: l’ipotesi etimologica del Rohlfs, secondo me, non regge anche se non mancherà l’occasione di riprendere, ma riferita ad altri casi, la suggestiva immagine delle parole che emigrano ed i cui figli rientrano. D’altra parte, se cumbisturu fosse veramente da ἀκουμβίζω non si capirebbe per quale motivo la geminazione della consonante iniziale si sia conservata in c’cumbìre (che è, come abbiamo detto, dal latino accùmbere, di cui, anche questo s’è detto, ἀκουμβίζω è la tarda trascrizione greca, e tale raddoppiamento si sia, invece, perso in cumbisturu.
Tuttavia nemmeno la n. 1 mi convince completamente, neppure alla luce della variante gallipolina cumpasturu, voce attualmente in uso col significato di stecchino secondo quanto leggo in http://www.gallipolinweb.it/gallipolinwebit/vernacolo/213-vocabolariodialettogallipolino.html
Ciò aprirebbe nuovi scenari mettendo in campo cum+past– [tema del participio passsato (pastus) di pasci=mangiare]+il suffisso strumentale –uru. Ora, siccome è umanamente impossibile dire se è nata prima l’arte della tessitura o l’abitudine di usare lo stecchino dopo il pranzo è altrettanto difficile dire se il significato di stecchino deriva da quello del cumpasturu attrezzo della tessitura o viceversa. Ma nel nuovo scenario, come se gli attori fossero pochi, aleggia la presenza del vocalismo gallipolino per cui come sergente/sirgente diventa sargente così compasturu potrebbe essere da cumpisturu, il verbo pasci andrebbe a farsi benedire e ritornerebbe in auge l’ipotesi n. 1.
Senza dire che qualche pazzo potrebbe pure sostenere che i conti tornano, visto che Schettino è quasi l’anagramma perfetto di stecchino …
A questo punto è meglio tornare al punto di partenza: non so se ‘ccumbìre salirà alla ribalta della cronaca giudiziaria o, addirittura, entrerà come voce tecnica nei manuali di scienza della navigazione. Il mio pensiero finale di oggi, però, va con quell’assoluto rispetto che nemmeno un filo di ironia ha il diritto, paradossalmente, di amplificare, a quelle povere vite che in quella nave, culla di morte, hanno giaciuto, ahimé, per sempre.
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1 È l’opinione di Uguccione da Pisa (XII-XIII secolo) che in Magnae derivationes così si esprime: Cumba et cimba, ima pars navis et vicinior aquis, sic dicta, quod aquis incumbit, unde et ipsa navis, et praecipue parva dicitur (Cuma e cimba, la parte della nave più bassa e vicina alle acque, così detta poiché si appoggia sulle acque, per cui così è chiamata la stessa nave e soprattutto quella piccola).