di Armando Polito
Il titolo di oggi potrebbe sembrare il grido disperato, tra l’implorazione e la minaccia, di un alcoolizzato al quale hanno appena finito di sottrarre la bottiglia che aveva svuotato a metà da pochi secondi con due gesti che a lui erano parsi sorsetti, appena un assaggino per iniziare bene la giornata…
Non sono un fine intenditore di vini, tanto meno un fanatico delle etichette per il quale l’apertura di una bottiglia è un rito accompagnato da uso di calici particolari, immersioni (se non si prendono bene le misure) del naso, sciacquamenti di bocca che per poco non sembrano gargarismi, fino alla diagnosi finale che per aggettivi usati e sostanze evocate susciterebbe l’invidia del più accreditato sommelier.
Mi piace, però, bere il vino e, soprattutto quando sono in compagnia di persone simpatiche (meglio se astemie, così di vino me ne tocca di più …), non in misura modica, anche perché, se è genuino, cioè senza additivi e conservanti, lo sopporto benissimo (al massimo mi addormento …), almeno questo dicono gli altri; se l’avessi detto io magari avreste sospettato che anche mentre scrivevo queste righe non fossi tanto sobrio …
Vengo al dunque e dico che l’esclamazione del titolo non è legata ad un tentativo di sottrazione del prezioso liquido da parte di qualcuno premurosamente interessato alla mia salute, anche perché l’ultima bevuta degna di questo nome, fatta con mio cognato Giuseppe, risale a più di venti giorni fa; quindi, puru ci m’era fattu a stozze1,a ‘st’ora era già sbafatu2 (anche se mi fossi ridotto ad essere ubriaco fradicio [alla lettera: a pezzi], a quest’ora gli effetti sarebbero già svaniti).
In ballo ci sono valori molto più elevati e solo apparentemente astratti, visto che il vino viene celebrato, giustamente, a destra e a manca come un fatto culturale e la cultura non è certamente una cosa astratta come ritiene la politica capra (nel senso sgarbiano, ma, comunque, chiedo scusa alla bestia pure per lui) quando afferma che con la cultura non si mangia.
Tuttavia quella politica non ha tutti i torti ad affermarlo in un mondo in cui la demeritocrazia è il criterio imperante e la professionalità ha lasciato il posto all’ignoranza, alla superficialità, al pressappochismo, al clientelismo da una parte ed al leccaculismo dall’altra.
La stampa certamente non si sottrae a questa decadenza, per colpa, anzi grazie (visti i tempi che corrono e che ho sinteticamente prima stigmatizzato) a sedicenti giornalisti senza un pizzico di umiltà che dovrebbe spingere chiunque ad informarsi prima di fare certe affermazioni (veramente in rapporto a quanto sto per dire sarebbe bastato anche un pizzico di bruto intuito …).
Nel numero, fresco fresco, di luglio di Bell’Italia edito da Giorgio Mondadori a pag. 66 leggo: “…Da non perdere La Festa te lu mieru (6-8 settembre) a Carpignano (a 26 km.): lu mieru (il nero) è il vino in dialetto locale; info: 333/3.13.97.98, www.festatelumieru.it”.
Per l’autore del testo, dunque, mièru non sarebbe altro che il corrispondente dialettale di nero. Qui in Salento probabilmente anche i bicchieri di vetro più scadente e pure quelli scheggiati sanno che mièru è dal latino meru(m), neutro sostantivato dell’aggettivo merus/mera/merum che vuol dire puro, schietto; i Romani, infatti, bevevano il vino (vinum) dopo averlo annacquato, mai puro. Farlo per noi (anche se i nostri vini potrebbero tranquillamente sopportare un taglio del genere, purché la percentuale di acqua fosse ragionevole …) equivarrebbe ad un sacrilegio e perciò, ad evitare equivoci, chiamiamo mièru quello che in italiano si chiama vino …
Un esempio eloquente della distinzione fra il vino annacquato (mixtum) e lo schietto (merum) si ha in Marziale (I-II secolo d. C.), Epigrammata, III, 57: Callidus imposuit nuper mihi caupo Ravennae,/cum peterem mixtum, vendidit ille merum (A Ravenna un oste astuto poco fa mi ha venduto vino schietto mentre glielo avevo chiesto annacquato). Mi pare già qualcuno chiedersi se questo Marziale non fosse un fessacchiotto o un pazzo a lamentarsi per il fatto che l’oste gli aveva venduto vino schietto per annacquato. Gli sarebbe costato troppo sudore annacquarsi quello puro una volta giunto a casa? Le cose, però, stanno così: il vino di Ravenna non era molto quotato essendo ricavato da viti meno esposte al sole rispetto a quelle spagnole, siciliane o cipriote: perciò il vino schietto che se ne ricavava era addirittura più debole di quello annacquato proveniente da zone più calde, tanto che lo stesso Marziale nell’epigramma precedente aveva scritto: Sit cisterna mihi quam vinea, malo, Ravennae,/ cum possim multo vendere pluris aquam (A Ravenna preferirei avere una cisterna (di acqua) più che una vigna, potendo vendere l’acqua ad un prezzo molto più elevato (del vino).
La distinzione tra mixtum e merum continua nel latino medioevale, del quale non riporto, per brevità, alcuna testimonianza; dico però che probabilmente proprio al medioevo risale la nostra abitudine di bere vino schietto.
So benissimo che chi scrive il testo per una rivista, soprattutto per una destinata, come Bell’Italia, a lettori non solo italiani avrà l’obbligo, al pari di tutto il corpo redazionale e del direttore, di conoscere l’inglese ma non il latino, né arcaico né classico né medioevale (lo so, ma mi pare discutibile …); credo però che abbia quello di documentarsi da fonti attendibili per tutto ciò che non rientra nelle sue conoscenze e competenze e che, comunque, debba essere in grado di consultare i vocabolari dialettali, strumenti di lavoro fondamentali in una redazione che aspiri a pubblicare una rivista che sia ad un livello appena superiore a quello di un semplice dépliant. In questo caso, poi, al di là dei metaforici bicchieri salentini, il cui suono, comunque, si sarebbe dovuto ascoltare, sarebbe bastato digitare in qualsiasi motore di ricerca mieru per avere la risposta3, scartando, è ovvio, l’omofono verbo giapponese (!) che significa sembrare4.
Naturalmente la loro parte, tutt’altro che trascurabile, di colpa ce l’hanno pure tutti coloro che avrebbero dovuto controllare prima di dare l’autorizzazione alla pubblicazione.
Sono consapevole di aver suscitato probabilmente in qualcuno la tentazione di andare a comprare, non fosse altro che per un controllo, un numero della rivista e so, in tal caso, di aver contribuito paradossalmente, al pari delle solite, melense recensioni, a farle pubblicità. Confido, però, nell’intelligenza della maggior parte del lettori di questo sito, ai quali basterà e, per quelli che nutrono in me cieca fiducia, avanzerà l’immagine che segue.
Un’ultima cosa: non presumo di entrare nel cervello di qualcuno ma, siccome ho basato la mia professione (per chi non lo sapesse quella di un modestissimo insegnante di latino e greco) e, in fondo, tutta la mia vita sulla (ri)valutazione dell’errore, a cominciare dal mio, non posso fare a meno di formulare un’ipotesi circa la genesi di questa bestialità destinata, al pari di tante altre, ad andare in giro per il mondo: molto probabilmente una certa analogia fonetica tra miéru e nero e lo zampino del negramaro5 (mi riferisco solo al nome, non ad un eventuale abuso della sostanza che esso indica …) hanno creato il cocktail indigesto che mi ha ispirato il titolo di oggi.
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1 Nel dialetto neretino stozze è una forma di plurale femminile, usato solo in questa locuzione, di stuèzzu (al plurale normalmente stuèzzi). Per stuèzzu il Rohlfs non propone alcun etimo, ma credo che la voce sia corrispondente all’italiano tozzo (di etimo incerto) con prostesi di s– intensiva.
2 Il Rohlfs al lemma sbafare rinvia a spafare dove non compare proposta etimologica; tuttavia la presenza nella definizione di sfogare può far pensare che per lo studioso tedesco quest’ultimo non sia un semplice sinonimo ma la voce originaria dalla cui deformazione sarebbe nato sbafare. E alla fine, quasi a confermare il mio sospetto, c’è un “cfr. il calabrese e napoletano sbafare=sfogare”. Nel Vocabolario delle parole del dialetto napoletano, che più si scostano dal dialetto toscano, Porcelli, Napoli, 1788, v. II, pag. 80 il lemma è trattato come appare nell’immagine sottostante:
Viene proposta, dunque, l’origine da afa, ma è di ardua spiegazione sb– iniziale. Ricordo che in italiano esiste sbafare (mangiare o bere abbondantemente e con avidità), voce di origine onomatopeica. Nel dialetto neretino sbafare assume lo stesso significato della voce italiana, ma può essere usato anche in senso meteorologico [lu cielu ha sbafatu=il temporale è passato, alla lettera il cielo si è divorato (le nuvole), cioè le nuvole sono scomparse]. Se veramente questo secondo sbafare ha lo stesso etimo del primo, la nostra locuzione a ‘st’ora era già sbafato significherebbe alla lettera a quest’ora sarebbe passato molto tempo dalla bevuta e, quindi, sarebbe come dire a quest’ora avrei già smaltito la sbornia.
3 Per esempio, in http://www.dialettosalentino.it/mieru.html e, chiedo scusa per l’autocitazione, in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/16/lu-mieru-il-vino-12/; per i libri, in http://books.google.it/books?ei=a6vdUZD6GYrVtQbjooCwDQ&hl=it&id=fAvaAAAAMAAJ&dq=mieru&q=merme#search_anchor
5 Per l’etimo vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/10/gnorumaru-negro-amaro-negramaro/