di Armando Polito
Ebbene, lo confesso, trascorro intere nottate a tentare di dare a qualche mio post un titolo quanto più possibile accattivante, in modo da attrarre il maggior numero di lettori. L’espediente, però, applicato con successo soprattutto da certa (o da ogni tipo di?) stampa, per me potrebbe essere un’arma a doppio taglio, perché, dopo aver dato fondo alle energie migliori (ho in testa una pala eolica e da un’altra parte un pannello solare che ha anche la funzione di nascondere e proteggere le pudenda) per partorire il titolo, rischio di giungere spompato alla stesura del testo e, dunque, di deludere il lettore che, ammaestrato dall’esperienza, la volta successiva diserterà qualsiasi mio post, soprattutto se esso esibisce un titolo strano.
Da qualche tempo a questa parte sto applicando, però, un espediente compensativo, cioè sto facendo scrivere tutto o quasi ad altri e, siccome non sono fesso, le penne di cui mi servo non sono certo quelle di un gallo malandato. Ultimamente, poi, qualcuno se ne sarà pure accorto, mi sto avvalendo della collaborazione (uso questa espressione burocratica per darmi un minimo di importanza …) del poeta neretino Francesco Castrignanò. Intendo dire che lui ci mette volta per volta un suo testo, partendo dal quale, poi, io faccio le mie riflessioni. Profonde o meno, queste riflessioni si chiamano commento ad una poesia? Non lo sapevo e riconosco la mia ignoranza. Quel ci mette precedente andrebbe corretto in ci ha messo perché il poeta è morto nel 1939 e io sono nato nel 1945? Valga per l’ignoranza prima riconosciuta, ma questa volta debbo far presente al mio critico interlocutore che anzitutto un poeta non muore mai, mentre muore il suo commentatore, a meno che non sia lui stesso un poeta (calma, non è il mio caso!); in secondo luogo è come se tra il poeta e il tempo fosse stato stilato un contratto in cui l’uno (il poeta) ha già fornito la prestazione e via via i rappresentanti dell’altro (i vari commentatori di ogni epoca) assolvono alla loro che è destinata a non finire mai. Oltre al top commentatore è inevitabile che ci sia pure più di un commentatore di infimo livello (è, rubando ad altri questo gioco di parola, il tap commentatore) che, per riciclare (speriamo che io sappia fare bene almeno questo …) un linguaggio crozzano-briatoresco, andrebbe stoppato. Io ho incorporati, come ho detto, la pala eolica e il pannello solare, ma non il cartello segnaletico adeguato per fermarmi da solo. Nel vostro interesse, che aspettate a farlo? Nell’attesa, continuo …
La poesia di oggi ha come protagonista un’altra insolita (per quei tempi) figura femminile, insomma un maschiaccio. A scherzare con lei ci si brucia e quando gli scherzi, poi, sono di un certo tipo, si può perfino perdere la vita, perché è una che ha il grilletto facile. Tìcara1 (tigre) la definisce il poeta, che dà lo stesso titolo alla poesia, quasi a farne il nomignolo di questa, altrimenti, totalmente anonima donna.
Il Castrignanò ci presenta, dunque, un’altra originale, soprattutto per i suoi tempi, figura femminile e credo che il merito maggiore di Cose nosce, la raccolta del 1906 da cui la poesia è tratta insieme con le altre precedentemente lette, consista proprio nell’attribuire alla poesia il compito di celebrare fatti non convenzionali e personaggi non conformisti. Tìcara incarna perfettamente la contraddizione esistenziale della donna di quel tempo combattuta tra l’obbligo di apparire come un modello di “virtù” e la preclusione della difesa volontaria, all’occorrenza, di quella “sua virtù” che però era un patrimonio gestito unicamente dal marito o dai maschi della famiglia d’origine. Ticara si ribella ed applica a modo “suo”, senza intermediari, l’istituto giuridico del delitto d’onore, obbrobrio giuridico e prima ancora culturale, che, com’è noto, sarà abrogato solo nel 1981.
Ora sarà facile a qualcuno dire che Tìcara si era accorta che sotto il suo letto c’era un cozzo (corrispondente maschile di cozza … praticamente il mio sosia), ma, cozzo o non cozzo, questa donna mi attizza perché con le sue faciddhe non mi evoca certamente l’immagine di Caron dimonio, con occhi di bragia …
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1 Tìcara rispetto all’italiano tigre presenta epentesi di –a– come in cancarena da cancrena. Sull’omografo in uso in altre zone del Salento col significato di vipera vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/11/ipra-vipera-un-pizzico-di-veleno-si-ma-nelletimologia/
2 Oggi a Nardò è in uso fraciddha, che è da facìddha con epentesi di –r– forse per incrocio con brace. Faciddha corrisponde all’italiano letterario facella, diminutivo di face, anch’esso letterario, che è dal latino face(m)=fiaccola.
3 Corrisponde formalmente all’italiano contare, semanticamente a raccontare, con ulteriore generalizzazione del significato (>parlare).
4 Da cutulare, per cui vedi la nota 8 in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/17/sul-termine-naca-la-culla-dei-nostri-avi/
5 Il Rohlfs rinvia a chiasciune, dove si legge: “nei documenti baresi del secolo XI troviamo plaione: è vocabolo introdotto dai longobardi, cfr. il friulano bleón<blaione nei documenti dell’Italia settentrionale del secolo IX; ha la sua origine nel germanico antico blahe e plahe=grossa tela”.
6 Deverbale da scazzicare, per cui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/05/07/scazzicare-parente-di-calcio-chi-lavrebbe-mai-detto/
7 Corrispondente all’italiano (in)curiosito, con aggiunta di suffisso con valore intensivo e metatesi cur->cru– che ha agevolato la sincope di –io-.
8 Più vicino al latino abscònditus (participio passato di abscòndere) di quanto non lo sia il corrispondente italiano nascosto, che è da inabscònditum.
Continua caro Armando, che alla domenica mattina, trovare il tuo “rovello” è per noi un piacere, e non solo alla domenica…poi da quando hai riportato all’onore del mondo il tuo antico conterraneo, molto bravo, hai fatto un’opera meritoria di ricupero e accresciuto il divertimento che gà era tanto solo nel leggere le tue elucubrazioni, mai oziose, ma molto intelligenti…
Per favore, mi illustri “sìrisa” che nella traduzione rendi con “suo padre”? Grazie
Sergio
Sìrisa nasce da sire+l’aggettivo possessivo enclitico di terza persona singolare –sa usato solo, appunto, in forma enclitica e unica per il maschile e femminile, con nomi indicanti parentela:
pàtrisa o sìrisa=suo padre; sìrisa è da sire, probabilmente di origine normanna (francese antico sire, a sua volta dal latino senior, comparativo di senex=vecchio). Credo che nella voce dialettale sopravvivesse il signicato medioevale legato all’esercizio del potere più che l’originario significato latino legato all’età, anche se in passato, forse, almeno teoricamente la saggezza andava di pari passo con l’avanzare dell’età (a parte i rincoglioniti precoci che ci sono sempre stati e, dunque, il potere, soprattutto politico, era in mano ai vecchi). Oggi le cose in tal senso non sono cambiate, solo che è aumentato esponenzialmente il numero di rincoglioniti precoci che restano incollati alla poltrona per quanto riguarda la politica e i novelli padri che son passati dall’eccesso antico di padre/padrone a quello attuale di padre/bancomat. Come vedi il “rovello” continua pure nelle risposte ai commenti …
màtrisa o màmmasa=sua madre
fìgghiusa=suo figlio; fìgghiasa=sua figlia
fràisa=suo fratello
sòrusa=sua sorella
nònnusa=suo nonno; nònnasa=sua nonna
zìusa=suo zio; zìasa=sua zia
nipòtisa=suo/sua nipote
suècrusa=suo suocero; sòcrasa=sua suocera
nòrasa=sua nuora
scènnusa=suo genero
marìtusa=suo marito
mugghièrisa=sua moglie
caniàtusa=suo cognato; caniàtasa=sua cognata
crussupìnusa=suo cugino (dal latino consobrinus+-sa); crussupìnasa=sua cugina
La stessa cosa succede con parente (parèntisa), con compare e comare, quasi fossero considerati parenti acquisiti (cumpàrisa/cummàrisa) e pure (a conferma della potenza dell’economia …) con padrone e padrona (patrùnusa/patrònasa).
Per il possessivo di seconda persona singolare la forma, sempre enclitica e sempre unica per i due generi, è –ta e per quello di prima –ma.
Mi son più volte chiesto da dove possa essere nato quest’uso. Escludendo le altre forme enclitiche italiane in cui le parti coinvolte non sono, come nel nostro caso, sostantivo e aggettivo (per esempio: dammi), tra le lingue romanze il rumeno è l’unico che presenta qualcosa di simile col suo fenomeno dell’articolo determinativo posposto al nome in forma enclitica. Siccome gli articoli determinativi derivano dall’aggettivo dimostrativo latino ille, è come se in rumeno l’originaria indicazione della qualità dimostrativa fosse diventata parte così integrante del sostantivo da dar vita ad un tutt’uno grazie, appunto, alla forma enclitica. Sarà successo lo stesso per il salentino, tanto più che il possessivo rispetto al dimostrativo mostra concettualmente un’unione senz’altro più stretta (che diamine, indica il possesso!…) col sostantivo?
Se hai tempo, vedi anche https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/12/mamma-nel-dialetto-salentino/
Spero di essere stato almeno chiaro. Un abbraccio.
Sei stato più che chiaro e soprattutto esaustivo e avere “rovelli” è segno di sicura intelligenza…chi non ha rovelli, significa che da tutto per scontato e che ben poco sa…sono andato a vedere, con grande piacere e curiosità anche l’indicazione che mi hai dato per la mamma e ancora una volta ho trovato una comunanza con il piemontese: anche in piemontese “la mare” (la madre) è pure, come per voi, la feccia del vino, dell’aceto e pure del caffé; come vedi, siamo più uniti coi linguaggi locali che con la lingua nazionale…ma la “mare”, la madre, la matrice, quella grande è comune, la lingua latina, poi si aggiungono e si sommano le differenze provocate dalla commmistione con le lingue antecedenti o con quelle cugine prossime, come è per noi il francese….
Grazie e a presto
Sergio