di Nicola Morrone
Da tempo, ormai, ci occupiamo delle varie problematiche connesse al santuario di San Pietro in Bevagna. Questo piccolo luogo di culto, che meriterebbe certo maggiore considerazione da parte della Curia Vescovile di Oria (in relazione alla sua promozione e all’incremento della sua visibilità sul piano religioso e turistico) ha una importanza che, di fatto, supera quella di molte altre realtà consimili.
Ciò deriva dal fatto che il santuario è il perfetto paradigma del “luogo della memoria”, nel senso che a questa espressione attribuisce lo storico francese Pierre Nora. Questi afferma che un “luogo della memoria” è uno “spazio fisico e mentale che si caratterizza per essere costituito da elementi materiali o puramente simbolici , dove un gruppo, una comunità o una intera società riconosce se stessa e la propria storia con un forte aggancio con la memoria collettiva”.
Il santuario petrino, per questi motivi, si presenta emblematico di questa tipologia. Esistono tre luoghi, a Manduria, particolarmente carichi di significato sul piano religioso. Essi sono la Chiesa Madre, la chiesa dell’Immacolata, e il santuario di San Pietro in Bevagna. Sono i luoghi fisici in cui si conservano i simulacri, rispettivamente, di San Gregorio Magno, dell’Immacolata, e di San Pietro Apostolo, portati in processione in occasione delle varie ricorrenze. Essi sono un po’ la “summa” della religiosità mandurina.
Di questi tre luoghi fisici del culto e della devozione, però, solo il santuario petrino si qualifica come “luogo della memoria”, cioè come luogo (cui sono correlati particolari oggetti) direttamente collegato alla presenza del Santo, nella comunemente acquisita coscienza storico/mitica. Proprio in virtù del leggendario passaggio del Santo, il santuario petrino presenta per la coscienza collettiva quella che P. Nora chiama “eccedenza semantica”, in grado di stabilire e generare delle connessioni con esperienze emotive, mitiche, immaginali, capaci di trasferire nel tempo un contatto con le esperienze e i fatti significativi del passato”.Qual è la differenza tra il santuario sul mare e gli altri due importantissimi luoghi del culto manduriano? Si sa che nella Chiesa Madre si conservano le due statue di San Gregorio Magno. Il santo fu invocato, nei secoli passati (l’ultima volta, a quanto pare, nel tardo ‘700) per liberare Manduria dalla peste. Di questa intercessione si è naturalmente persa la memoria, e attualmente il Santo si invoca, immaginiamo, per altri motivi. Il santo, però, non è mai stato fisicamente presente a Manduria, e il cappellone,in quanto tale, non costituisce perciò un luogo dalla valenza mitica, in grado di stimolare la memoria collettiva. Esso rimane un luogo, dal grande valore artistico, simile a tanti altri luoghi del culto. Allo stesso modo, la chiesa dell’Immacolata, in cui è conservata la statua della comprotettrice di Manduria, non si carica di valenze storiche o mitiche tali da riattivare nella collettività manduriana un meccanismo memoriale condiviso. Nel santuario di San Pietro in Bevagna, invece, è ancora pienamente funzionante il dispositivo memoriale storico/mitico, riattivato di continuo, oltre che dalla memoria diffusa del leggendario passaggio di San Pietro, anche dagli oggetti in esso conservati, nella comune opinione legati comunque al passaggio dell’Apostolo. Ogni volta che i pellegrini e i devoti osservano quegli oggetti (la pietra d’altare, il fonte battesimale, ecc.) riattivano nella loro coscienza il meccanismo memoriale, e dal punto di vista antropologico , ha un ‘importanza del tutto marginale il fatto che gli oggetti osservati siano o meno prove autentiche del passaggio di San Pietro su questi nostri lidi. La loro presenza tra quelle mura ha consacrato per sempre il santuario petrino come “luogo della memoria” di importanza eccezionale soprattutto per la comunità manduriana. Sempre rimanendo sul piano antropologico, tra le problematiche più macroscopiche correlate al santuario petrino c’è quella relativa alla processione per la pioggia, sulle cui origini si deve ancora fare pienamente luce. Non è questa la sede adatta per richiamare gli studi più significativi sull’argomento (Cirese, Jurlaro, Tragni, ecc.), ma ci pare importante sottolineare che, per il momento, uno studio di questa ritualità si potrà condurre solo sul piano sincronico (confrontandola, cioè, con il funzionamento di altre ritualità consimili, caratterizzate dalla presenza dell’elemento arboreo/vegetale), dal momento che un’indagine sul piano diacronico è gravemente ostacolata dalla assoluta mancanza di documenti che possano fare luce su come la processione arborea si è strutturata nel corso della sua storia. Rimane aperta, tra le altre, la questione dell’origine storica di questo complesso rituale. Recentemente, uno storico locale ha affermato , probabilmente con eccesiva leggerezza, che la processione è di età controriformata (posteriore, cioè, al Concilio di Trento, che si concluse nel 1563). Altri affermano che essa è piuttosto recente, addirittura, forse, ottocentesca. Noi riteniamo invece che per questa ritualità non si possa escludere un’origine precristiana, come peraltro adombrato da vari studiosi del fenomeno. L’elemento dominante della processione è il simbolo arboreo, recato un tempo dai pellegrini sulle spalle in segno di penitenza, e al tempo stesso di propiziazione della pioggia. Il tronco, di leccio o di quercia, va quindi letto nella sua duplice valenza di oggetto propiziatorio (aspetto pagano della ritualità) e oggetto penitenziale (aspetto cristiano della ritualità). Ci pare, in sostanza, che non si possa escludere che la processione possa leggersi come un rito pagano, poi orientato in senso cristiano dalla Chiesa Cattolica. Ma uno studio antropologico organico è tutto ancora da fare.