di Armando Polito
C’è una cosa che mi dà un fastidio enorme al pari della menzogna, sorella della malafede, ed è l’approssimazione. Nei miei molteplici interventi su questo sito posso essere sembrato troppo precisino e a qualcuno eccessivamente pignolo. Assicuro, però, il lettore che ancora maggiore rigore riservo a me stesso e, non essendo la perfezione di questo mondo, non ho alcuna difficoltà ad ipotizzare che anche io sia fatalmente incorso, ma involontariamente, in qualche errore o imprecisione. In attesa di esprimere la mia gratitudine al benevolo lettore che mi aiuterà a migliorare, oggi voglio prendere due piccioni con una fava: fare un esempio concreto di qualcosa che, secondo me, non va e fare nello stesso tempo onore alle mie ripetute affermazione sulla eccessiva benevolenza di alcuni recensori. E lo faccio, sia chiaro, non da quel recensore di professione che non sono ma da quel comune lettore, per quanto scalcinato, che presumo di essere.
Fino ad ora chi ha seguito la lettura di alcune poesie di Francesco Castrignanò (per chi ha interesse basterà digitare questo nome nell’apposita casella di ricerca, così, almeno per questa volta, evito di riportare una serie di links che comincia a diventare troppo lunga …) avrà notato che ho avuto da ridire su qualche dettaglio secondario di natura formale che, comunque, non inficiava l’esito poetico. Oggi la musica sarà totalmente diversa e per eseguirla passo subito al dunque.
Ti éciu rientra nel filone amoroso e, se nei casi precedenti il poeta neretino è riuscito ad estrarre oro, questa volta il prodotto finale, soprattutto nel finale, mi sembra ferro, per giunta un po’ arrugginito. E dire che la prima metà per vivacità di invenzione e d’espressione lasciava ben presagire!
Ho riservato alle note il compito di motivare questa mia impressione negativa, amplificata dal mio convincimento che il dialetto è nativamente più espressivo della lingua e che nel nostro caso, invece, ha dato esiti piatti anche sul piano squisitamente musicale. Il dibattito è aperto e questa sarebbe, oltretutto, un’occasione irripetibile di “vendetta” per qualche mio ex allievo, soprattutto per chi è diventato nel frattempo collega di un ex. Anche lui potrebbe prendere due piccioni con una fava: contestare, con motivazione, la mia opinione e maledirmi nel caso in cui la sua scelta professionale non fosse stata indipendente dalle mie quotidiane “uscite” di tanti anni fa ed ora, a ragione, egli non fosse felice di esercitare quello che per me, insieme con quello del medico, resta, nonostante tutto, il più bel mestiere del mondo. Pronto a cospargermi il capo di cenere, nessuna, una o due volte, a seconda della risposta …
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1 Participio presente da cutulare, da un latino *quatulare, dal classico quàtere (=scuotere) con suffisso iterativo come in italiano ventolare (in dialetto neretino intulàre) da ventare. Il verbo esprime felicemente la civetteria tutta femminile del gesto provocante e il compiacimento della consapevolezza del suo effetto.
2 Dal latino signum est; non è fuori luogo questa espressione che può sembrare dotta e, quindi, frutto del poeta-letterato. Al contrario, essendo locuzione ricorrente nel latino religioso, può essere inquadrata agevolmente nel repertorio latino di uso popolare.
3 Corrisponde all’italiano fiacco. Fiaccu nel dialetto neretino è usato nel senso di cattivo (cce ssi fiaccu!=che sei cattivo!) ma anche in quello di debole (mi sentu fiaccu=mi sento debole, non mi sento bene). In traduzione ho privilegiato il primo significato ma lascio al lettore decidere se il Castrignanò ne ha fatto un uso ambiguo con allusione anche ad un desiderio poco vivo stigmatizzato allusivamente dalla ragazza col suo canto dispettoso. Ad ogni modo, secondo me per fugare qualsiasi dubbio in proposito, il pretendente più avanti, senza mezzi termini, dirà: o prestu o tardu t’aggiu pussidire.
4 Non corrisponde all’italiano rigetto (da rigettare, a sua volta da reiectare, intensivo di reìcere=respingere, formato dal prefisso ripetitivo re-=di nuovo e da ìcere=gettare) perché riggettu deriva (come l’italiano ricetto) da receptu(m), participio passato di recìpere=mettere al sicuro, composto dal prefisso già visto re- e da càpere=prendere. L’uso principe di riggettu è in locuzioni del tipo no sta ttrou riggettu=non sto trovando pace, tranquillità. A differenza del precedente fiaccu mi pare, perciò, da escludere un’ambiguità basata sulla polivalenza linguistica della forma: pace sì (ricetto) ma anche rifiuto (rigetto di altri pretendenti, quasi sviluppo, offensivo, del precedente sacciu ca tu ndi faci tante e tante).
5 Corrisponde all’italiano concetto (diminutivo di concio). La similitudine può sembrare poco calzante dal momento che il tufo è una pietra abbastanza friabile, ma è di uso corrente l’espressione tieni la capu ti cuzzettu=hai la testa dura; il romanesco de coccio, invece, mette in campo coccio che molto probabilmente è da coccia=guscio di lumaca, dal latino còchlea(m); quest’ultimo è collegato con il nostro cuècciulu=conchiglia.
6 Questo verbo mi sembra un po’ esagerato e rozzo, nonostante convenga che il fuoco represso prima o poi doveva esplodere e che la voce era la più “delicata” tra le tante che la dominante mentalità maschilista aveva a disposizione per ribadire la sua concezione dell’amore anzitutto come possesso; e, anche se lei sembra averne fatte di cotte e di crude, non mi pare che questo pretendente infoiato, mostri, pur tenendo conto dei tempi, una delicatezza psicologica da manuale…
7 Vale l’osservazione fatta per pussidire; cioè nella prosaicità di panni vedo una carnalità troppo bullescamente dichiarata, sempre in rapporto a quei tempi. Può darsi, però, che sia io l’arretrato e che abbia capito ben poco dell’universo femminile, passato e presente … O, forse, il mio è solo un miserabile espediente per avere quel contraddittorio che da troppo tempo sto aspettando? Comincio, infatti, ad essere preoccupato: se nessuno contesta, nemmeno parzialmente, una tua (o non tua) affermazione vuol dire che la tua (o non tua) opinione non è degna neppure di considerazione, dovendosi escludere a priori la possibilità che tu (o chiunque altro sulla Terra) sia un genio infallibile.