Nigredo, un noir, nel quale regnano le forze arcane, invisibili e ancestrali

“NIGREDO”  di STEFANO DELACROIX

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di Paolo Vincenti

 

“Nigredo”, nel processo alchemico , è uno dei tre stadi fondamentali per ottenere la pietra filosofale, il primo per l’esattezza, e sta a significare “nerezza” e ad indicare la putrefazione o decomposizione; gli altri sono: “albedo” o “bianco”, durante il quale la sostanza si purifica, sublimandosi, e “rubedo” o “rosso”, in cui la materia si ricompone, fissandosi. “Nigredo”  è il titolo dell’ultimo libro di Stefano Delacroix (I Libri di Emil 2013).

Il titolo ci dice già che si tratta di un’opera di magia, mistero, un noir, nel quale regnano le forze arcane, invisibili e ancestrali, che governano la vita degli sciagurati personaggi e del protagonista, Vincent Fernand Daudet, la cui parabola esistenziale è fatta di luci ed ombre, passione ed efferatezza, dolcezza e violenza. Vincent è una sorta di guaritore, più che altro un ciarlatano, fissato con l’alchimia e con la ricerca, naturalmente infruttuosa, dell’onniscienza e della vita eterna.  L’autore del libro, Stefano Delacroix,che vive ed opera a Taranto,  prima ancora che un grande artista,  è un umile artigiano della parola, che conosce la fatica  e il metodo che ci vogliono per dare alla luce un’opera d’arte e che si è dato un severo codice di autodisciplina, favorito forse  dalla formazione che gli viene dal suo lavoro di impiegato di concetto. Solo che, nel “lavoro” di scrittore, egli mette la sua metodicità al servizio di una vena creativa geniale e strabordante, di un talento narrativo che ha già dato prova di sé  nelle precedenti opere, tutte comunque superate da quest’ultima, che si merita certamente la “palma della vittoria” nella carriera di Delacroix e rappresenta il suo capolavoro.

Ambientato nella Parigi del XVIII secolo, alla vigilia della Rivoluzione Francese, il libro si può dunque definire un romanzo storico, poiché unisce ai dati reali una trama fantastica.  Il racconto storico  viene sublimato dalla trasfigurazione artistica e fatti noti  della storia del Settecento vengono visti in una nuova luce in questo libro, quasi rinarrati. La luce che veste i fatti  è quella che filtra dai minimi meandri, dagli angoli più nascosti della storia, dalle bettole più squallide, dalle topaie più malsane, insomma, da quello che è stato definito “il ventre infetto e brulicante di Parigi” descritto magistralmente da Victor Hugo nella sua “Notre Dame”. Compaiono più volte  gli importanti illuministi francesi, come Voltaire, Diderot, Montesquieu, e su tutti Rousseau, del quale vengono riportate ampie citazioni. Ma queste citazioni fanno da contrappunto ai dialoghi molto reali dei protagonisti della storia.  E inoltre compare, centrale nell’opera, la figura di Alessandro,  il Conte di Cagliostro, noto esoterista con il quale Daudet entra in stretta relazione. Il Cagliostro, un personaggio leggendario, per quanto realmente vissuto nell’Europa del Settecento, spregiudicato avventuriero, guaritore ed alchimista, fu fondatore di un ordine massonico chiamato “Rito egizio”. E al rito egizio sono connessi i primordi della scienza alchemica se è vero che nell’antica Grecia, Hermes Trismegisto, fondatore dell’ermetismo, era identificato con il dio egiziano Thot. Le dottrine ermetiche infatti, che comprendevano  filosofia, religione, astrologia, magia e alchimia, venivano connesse all’antica sapienza egiziana i cui sacerdoti invocavano proprio il dio medico-magico Thot, diventato poi  nella religione ellenica Asclepio. E come il dio taumaturgo Asclepio, o Esculapio, un guaritore si professa l’alchimista Vincent Fernand Daudet, il quale comunque abbraccia  solo una branca di questo antichissimo sapere, vale a dire la manipolazione delle erbe. Per l’esattezza, Vincent pratica la “spagiria” , una della quattro arti alchemiche e in particolare quella che ricerca medicamenti dalla natura anche per il prolungamento della giovinezza e della vita. I protagonisti sono calati mani e piedi, sembrerebbe quasi incatenati, al loro microcosmo di miseria e abiezione, nel grande cosmo della storia. Quella storia che non è fatta solo dai grandi condottieri, dai generali e colonnelli, dalle madame e dai nobiluomini con i loro blasoni a sempiterna memoria, ma è fatta anche e soprattutto dai poveri diavoli che compaiono in questa narrazione, dagli umili, dai perdenti, protagonisti anonimi di una vera e propria “epopea della malavita”, come definirei questo romanzo di Delacroix. La storia, ancora, fatta da operai e straccioni, contadini e prostitute, falsari e imbroglioni, da quei “miserabili” già immortalati da Hugò nel suo capolavoro del 1862,  ma ancor di più da Eugéne Sue nel suo romanzo “Les Mystères de Paris” (di un ventennio  precedente), che mi sembra rappresenti il vero modello di riferimento del nostro Delacroix, non solo per l’ambiente di sordidi misteri fornito come base dell’opera ma anche per una certa rivendicazione socialisteggiante che credo sottenda la sua epopea  (“il male è una malattia sociale?”  viene spontaneo chiedersi leggendo le sue pagine).

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“Un viaggio all’inferno”, si potrebbe definire, quello del protagonista Vincent, che mi ha ricordato molto la descensus ad inferos di un grande autore del Settecento, August Strindberg, che ambienta la sua opera  “Inferno” proprio nella Parigi degli stessi anni in cui vive Vincent Daudet. Come il nostro protagonista, Strindberg, in una sorta di allucinato diario di morte, nel mentre narra le proprie peripezie di folle ossessionato da manie paranoiche e suicide, compie i suoi  esperimenti con lo zolfo . Vincent , si parva licet, ricorda straordinariamente anche il  “Faust” di Goethe, nella sua eterna insoddisfatta volontà di sapere: anch’egli figlio di un medico che invece di guarire la gente secondo la missione ippocratica  utilizzava i pazienti per i suoi esperimenti di stregone, continuando ad essere stimato e riverito come il benefattore che non era. L’autore ha scelto con cura i luoghi nei quali ambientare la storia, che si dipana, nelle 256 pagine che compongono il libro, in un tessuto narrativo fatto di spazi, tempi, personaggi, retroterra culturale e  sociale, tutti fortemente  caratterizzati. Ma anche grande importanza viene data ai pensieri più reconditi del protagonista, alla sua travagliata coscienza e alla percezione delle cose, intrecciata con l’esperienza, con il  suo vissuto. Una scrittura colta, forbita, quasi aulica, nelle descrizioni, bassa e spesso triviale nei dialoghi. Una sequenza ininterrotta di colpi di scena  lascia  senza fiato il lettore, soprattutto nelle pagine in cui maggiormente vortica il ritmo narrativo,  con iperrealistiche descrizioni degli ambienti malfamati di una Parigi borderline ( molto più tenebrosa  dunque della ville lumiere cui siamo abituati), alcune derive grandguignolesche  e sprazzi di commovente love story nei momenti di più concentrata tensione drammatica. Bellissima la copertina del libro, opera di Francesco Caforio, fotografo tarantino che segue spesso Stefano Delacroix nelle sue tournè con il gruppo musicale “Rue de Rome”, di cui  Stefano è chitarrista e voce.

Il libro ha già ricevuto positivi apprezzamenti nelle varie recensioni pubblicate. Certo, un lavoro ambizioso, un libro scritto con acume, destrezza e caparbietà da un Delacroix in stato di grazia con il suo  incontenibile, spumeggiante talento narrativo. Il libro si apre con una citazione da Giordano Bruno: “in viva morte morta vita vivo”.“Un romanzo iniziatico”, è stato definito, anche se manca la salvezza finale. Vincent  potrebbe essere riscattato da una profonda sensibilità, dal suo pieno sentimento , se non fosse già stato condannato dalla sua natura ad una vita infima di inganni, furberie e crimini; la sua condanna è scritta nella sua stessa vita.  Infatti, non c’è, in questo personaggio, vero pentimento, come non c’è autentica consapevolezza spirituale. Il suo amore per le scienze occulte lo porta a galleggiare in una sorta di limbo, in una zona grigia in cui non raggiunge mai l’autentica conoscenza, la vera sapienza, nonostante la sua ottima predisposizione allo studio  e le sue doti non comuni di perspicacia e curiosità, e ciò perché le contingenze lo distolgono, in una città mefitica che sembra il regno del mors tua vita mea. Nel gorgo delle sue scatenate peripezie, nella blague di certe  avventure un po’picaresche, egli deve “tirare a campare” e pensa bene di guadagnare raggirando i poveracci, pur sentendosi ad essi solidale, un po’ Rodomonte, un po’ Robin Hood. La sua ribellione faustiana sbollisce presto, insomma, di fronte alla necessità  di sbarcare il lunario, alla diuturna lotta per la sopravvivenza che lo accomuna a tanti altri fratelli di pena in quel frangente storico. Ma certo la comune necessità  non lo scagiona dalle colpe commesse , dai delitti perpetrati, le attenuanti non lo assolvono,  di fronte al tribunale della vita e degli uomini, prima ancora che a quello divino. Solo un raggio di luce, nell’immenso buio  desolante della sua vita, è rappresentato da una deliziosa fanciulla, Sophie, di cui Vincent si innamora. Ma le misteriose vie del destino si ingarbugliano e lo portano lontano da quel suo bene, fino a farlo perdere e sperdere. Quella sola luce, ancora di salvezza, come l’amore refugium peccatorum, brillerà troppo poco per poi estinguersi inevitabilmente nel naufragio di ogni certezza, di ogni punto fermo, nell’erranza di questo derelitto impostore.  Attraverso lo snodarsi delle vicende, possiamo ricordare la storia della Rivoluzione Francese, i suoi prodromi e le sue conseguenze, fino al drammatico epilogo che coinvolge uno dei massimi protagonisti del tempo, Robespierre.  Delacroix si serve del contesto storico per reinterpretare a proprio piacimento alcuni fatti memorabili dell’epoca nella quale è ambientato il romanzo. A chi però volesse accusare l’autore di violentare la storia, Delacroix potrebbe rispondere come, di fronte alle medesime accuse,  Alexandre Dumas, il quale, con fine autoironia, ammetteva di farlo ma aggiungeva che da quegli atti di violenza nascevano bambini bellissimi. E comunque il nostro autore, come tutti gli appassionati di mistero, cospirazioni e dietrologie, inventa strane macchinazioni  dietro gli avvenimenti storici, ma non ne stravolge certo l’esito finale, quello da tutti conosciuto.

Un’opera dalle molteplici letture “Nigredo”, come sfaccettata e multiforme è la personalità del suo autore. Si può leggere come un romanzo di avventure e farsi trascinare dal vortice degli eventi. Come un romanzo fantastico, e seguire le verosimili peripezie dei suoi personaggi. Si può cogliere l’elemento romantico della delicata storia d’amore fra Vincent e Sophie, o ancora si possono cogliere gli aspetti esoterici e mistici del narrato e interpretarlo dunque in chiave simbolica. Mi sembra che calzi perfettamente e sia anche di ottimo auspicio, quanto ebbe a scrivere Ugo Dèttore a proposito dei “Miserabili” sopra citati: “Libro centrifugo, caotico, affastellato, torreggiante –verrebbe da dire spudorato- , in cui troppi elementi si sovrappongono per esprimere la concezione unica e dominante di un’opera d’arte perfetta”; un dramma moderno, aggiungo io, che fa a buon diritto entrare Stefano Delacroix nel novero dei grandi romanzieri contemporanei.

“Anche se il dramma è assoluto”, mi scrive Stefano, “su più livelli,  ciò che rimane sono speranza e fede, e rimane l’amore, sebbene sia stato perduto irrimediabilmente nel tempo” . E con questo messaggio concludo la mia recensione, avendo fatto attenzione a non addentrarmi nella trama e soprattutto a non svelare il finale dell’opera lasciando così ai lettori intatto il gusto di scoprirlo . A Stefano Delacroix l’augurio che questo libro possa ottenere il successo che merita.  Ad Majorem Gloriam Dei et Hermae Trismegisti!

 

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