di Armando Polito
L’esortazione del titolo è di altri tempi … ma ha da passà ‘a nuttata!
L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro. Così esordisce la nostra Costituzione da molti considerata per alcuni aspetti superata e da riformare. Tutti, però, sono d’accordo a conservare il primo articolo così come fu formulato senza rendersi conto che, se proprio non si vuole cambiare in L’Italia è una repubblica pseudodemocratica fondata sul latrocinio e gli intrallazzi, non esiste altro rimedio se non darsi da fare per rispettare il primo comma dell’articolo 4 (La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto). Come in questi ultimi decenni sia stato fatto da chi doveva è sotto gli occhi di tutti. La crisi, poi, è stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso troppo pieno di quella melma che ora rischia di travolgerci.
Al di là dell’indecoroso balletto di dati statistici propinatici quotidianamente, al di là di sondaggi che più che tastare il polso alla situazione sembrano tentare maldestramente, anche attraverso i contorsionismi verbali e concettuali delle domande, di ridimensionare l’insostenibilità dello stallo, anzi, della caduta attuale, al di là di economisti più o meno autoilluminati che propongono soluzioni contraddittorie, la tragedia più grande, perché è la madre di possibili sviluppi ancora più nefasti, è la mancanza di lavoro.
E se, relativamente al sacrificio, per un adulto della generazione precedente la mia, per la quale esso era un’attitudine, non sarà certo facile farlo diventare nemmeno un’abitudine, col rischio corrente di passare dal lavoro più o meno sicuro alla precarietà o, peggio, alla disoccupazione, non è difficile immaginare la condizione, anche psicologica, dei più giovani cresciuti ed educati dal consumismo e dai valori subliminali e non sublimi trasmessi da certi programmi televisivi, dal leccaculismo che ha affossato il merito e portato sul miserabile altare del potere disonesti e incompetenti, incapaci perfino di scrivere correttamente un disegno di legge …
Purtroppo è vero che i migliori se ne vanno … all’estero, condannando per responsabilità, anzi irresponsabilità altrui, il nostro paese a non avere un futuro.
Rimane, indomabile, la speranza eduardiana che la notte passerà e ci appigliamo in più alla visione vichiana della storia e al dubbio che il presente probabilmente all’uomo è sempre apparso più spaventoso in quanto vissuto personalmente e non filtrato dal tempo.
E poi, pur dubitando che tutto il mondo è paese, siamo proprio sicuri che anche sotto quest’aspetto il passato fosse migliore e che, invece, non valga il niente di nuovo sotto il sole d’Italia?
Il dubbio lo fa venire la lettura di un’altra poesia di Francesco Castrignanò1, ma è un dubbio che dura poco: se, infatti, le distrazioni giovanili lì ricordate (andare a caccia di uccelli, salire sugli alberi, rubare fichi) possono essere molto forzatamente assimilabili a quelle dei nostri tempi (tv, discoteca, videogiochi … e mi fermo qui) l’importanza dell’istruzione ricordata al ragazzo protagonista della poesia trova sì un corrispettivo, ma amaramente paradossale, nei nostri tempi. Come si fa a dire che la cultura (che è figlia dell’istruzione) è scarsamente considerata quando, per reagire a modo loro ad un evidente complesso di inferiorità, persone pubbliche col pubblico denaro si procurano uno o più diplomi (meglio abbondare, anche se si resta deficienti …), una o più lauree e questo o quel master e personaggi dell’intellighenzia televisiva ne millantano il possesso?
Così, però, la nottata metaforica promette di essere, rispetto al giorno, infinitamente più lunga di quella astronomica …
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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/10/nardo-vista-da-un-poeta-del-primo-novecento-tasse-incluse/
2 Dall’arabo bardaǵ =giovane schiavo; anticamente bardasso era sinonimo di giovane depravato e di tendenze omosessuali; successivamente bardasso (o bardascio) e bardassa nell’uso regionale furono sinonimo di ragazzetto o ragazzetta in genere (senza connotazione spregiativa). Probabilmente il bardascia neretino (che sembra variante di bardassa) conserva, nella sua forma femminile, il ricordo della negatività del significato originario ed è una testimonianza di quello che, in riferimento ad altre voci, ho avuto occasione di chiamare maschilismo linguistico.
3 Dal greco moderno κουκουβάγια (leggi cucubàghia), dal classico κικκαβάζω(leggi chiccabazo)=squittire (della civetta), a sua volta da κικκαβαῦ (leggi chiccabàu), il verso della civetta, di origine onomatopeica.
4) Da fitire, dal latino foetère.
5 Ho tradotto strìnculu con capriccio per brevità; in realtà la voce definisce il riso smodato al quale spesso, senza apparente ragione, si abbandonavano i ragazzini. Sull’etimo di strìnculu vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/19/strinculu-c-metafore-animalesche-o-idiozia-umana/
6 Forse dal campano guagnì=piagnucolare, di origine onomatopeica.
7 Stessa origine di capitombolo (da capo+tombolare, dall’antico tombare=cadere, affine al francese tomber) con sostituzione del capo con il culo e epentesi espressiva di –r-.
8 Dal latino quod velles=quello che tu voglia.
9 Imperativo di minàre (stessa etimologia dall’italiano menàre, che è dal latino tardo minare=spingere un animale a furia di grida e di frustate, a sua volta dal classico minari=minacciare). Minàre nel dialetto neretino è usato solo nel significato di buttar via (aggiu minatu li mundezze=ho buttato la spazzatura) e in forma riflessiva in quello, meno energico, di adagiarsi stanco sul letto o affini (sta vvò mi menu nnu picca=sto andando a riposarmi per un po’) e l’imperativo mena, come in questa poesia, anche come invito a sbrigarsi.
10 Da manisciare (alla lettera darsi da fare con le mani) usato sempre riflessivamente. Corrisponde formalmente all’italiano maneggiare ed ha lo stesso etimo (da mano). Per il suffisso –isciare vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/22/un-relitto-greco-in-latino-in-italiano-e-in-neretino/
11 Mentre l’italiano schioppo è dal latino scloppu(m) di origine onomatopeica, scuppètta appare trascrizione del francese escopette, forma diminutiva con la stessa indicata etimologia di schioppo.
12 Di origine onomatopeica.
13 Da ritiddhicare, forma intensiva dell’italiano titillare (che è, tal quale, dal latino titillare) con sostituzione in testa di t– con r– forse per incrocio con la particella ripetitiva re-.
14 A due km. circa dal centro abitato, sulla provinciale che collega Nardò alla statale Lecce-Gallipoli. Nei paraggi c’è la masseria fortificata Castelli Arene.
15 Zona a 2 km. a sud-ovest di Nardò in cui sorgeva l’abazia di S. Angelo della Salute.
16 La zona, anche questa a circa due km. dall’abitato, prende il nome dalla chiesetta di Santa Maria della Grotta. Per chi volesse saperne di più:
https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/14/note-storiche-e-decrittive-della-chiesetta-di-santa-maria-della-grotta-in-agro-di-nardo/
https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/14/non-ci-sono-alibi-2/
17 Da riccugghire, per il cui etimo vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/16/cugghire-ccugghire-e-riccugghire/
18 Da ddiscitare, che è dal latino excitare=svegliare, con aggiunta in testa della preposizione de.
19 Qui il letterato ha preso il sopravvento con un’improbabile, per quanto riguarda l’uso, traduzione dialettale della nota locuzione latina che dall’originario significato di tavoletta per scrivere, la cui cera è stata rasata (con cancellazione, dunque, di ogni nota prima impressa) è passata ad indicare persona del tutto priva di cognizioni in un dato campo e, estensivamente, testa vuota.