Il Salento delle leggende.
Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto
di Antonio Mele ‘Melanton’
Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.
Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.
Si chiamava Anna, la mia nonna paterna, e come tutte le nonne è stata, e lo è ancora, un’ispiratrice magnifica del mio benessere spirituale, della mia gioia di vivere, e soprattutto della mia fantasia.
Quando talvolta succede di sentire quell’irrefrenabile voglia di memorie, mi basta pensarla e lei arriva, chissà da dove, invitandomi a sedere sulla vecchia panca di noce, dietro il grande tavolo ovale, pronta a raccontarmi una storia.
Che mondo sarebbe senza la fantasia, forse è meglio non immaginarlo.
La fantasia apre le porte ad un universo di sogni e di gioia, quantunque le fiabe e le storie di tutti i tempi siano anche popolate di personaggi tenebrosi, protagonisti di avventure spesso spaventevoli, e costellate di orchi, di maghi, di draghi, di diavoli e streghe, di fantasmi e spiriti folletti, e di animali che parlano, tappeti che volano, passaggi segreti di castelli che si aprono al semplice suono di una potente formula magica, e ancora di luoghi misteriosi, immersi in notti buie e tempestose, e in cammini inenarrabili, dove il tacito desiderio della nostra disperata speranza si materializza in una tenue luciceddha luntana luntana…
Un rifugio, la fantasia? Forse, ma non soltanto. La fantasia è un modo di essere, una scelta, uno stile di vita. O infine una specie di gioco fatato, che spesso permette di osservare il mondo con l’innocenza e il sorriso di un bambino.
Noi stessi – chissà – potremmo anche essere inconsapevoli personaggi fantastici di un libro mai cominciato e mai finito.
Come quello delle leggende.
Il ‘Salento immaginifico’, che nelle precedenti puntate ci ha accompagnato alla scoperta di tempi e luoghi misteriosi della nostra tradizione, riprende il suo racconto con un viaggio quasi interamente dedicato a Otranto, quale sincero e dovuto omaggio all’antica ‘capitale’ della nostra terra.
Otranto associa in sé atmosfere di storie fantastiche, ed ogni suo luogo può dirsi che richiami all’intrigante fascino di eventi inverosimili e arcani. Come molti vogliono, qui approdò Enea dopo la distruzione di Troia, guidando un manipolo di fedeli compagni alla ricerca di una nuova patria. Secondo gli storici più autorevoli, la descrizione minuziosa dello ”sbarco degli eroi” resaci da Virgilio non lascerebbe infatti alcun dubbio che il preciso punto d’arrivo sia individuabile nel sito idruntino, con buona pace di altre congetturose ipotesi, che indicherebbero, quale possibile alternativa, ora Leuca ora Castro (l’antica Castrum Minervae).
“Avea l’aurora già vermiglia e rancia / scolorito le stelle…” – canta il Poeta – “…allor che lunge scoprimmo / d’Italia i lidi”. E di seguito, Virgilio quasi dipinge l’antico porto naturale di Otranto: “È di ver l’Oriente un curvo seno / in guisa d’arco, a cui di corda invece / sta, d’un lungo macigno un dorso avanti, / ove spumoso il mar percuote e frange: / nei due corni ha due scogli, anzi due torri, / che con due braccia il mar dentro accogliendo / lo fa porto e nasconde, e sopra il porto, / lungi dal lido, di Pallade è il tempio…
Con chiaro riferimento, in questi ultimi versi, al Colle della Minerva, dov’era a quei tempi l’area sacra dedicata alla dea. Proprio quel fatale Colle della Minerva che il 14 agosto del 1480 fu teatro del terribile eccidio perpetrato dai Turchi di Gedik Ahmet Pashà, che portò alla decapitazione di 800 otrantini maschi sopra i quindici anni di età, i quali affrontarono senza esitazione la morte, piuttosto che rinnegare la fede cristiana.
Straordinariamente miracolosa risulta l’epica resistenza del sarto Antonio Primaldo, che fu il primo ad avere la testa mozzata da un colpo di scimitarra e che, nonostante gli sforzi dei carnefici per abbatterlo, mantenne saldo in piedi il suo corpo, finché non cadde l’ultimo dei suoi sventurati compagni.
Com’è noto, i Martiri di Otranto furono poi dichiarati Beati da papa Clemente XIV nel 1771 (al termine di un lungo processo canonico, iniziato nel 1539), e prescelti come Protettori della città.
La famosa Torre del Serpe, un monumento tanto emblematico per Otranto da campeggiare nello stemma della città, è protagonista di un’altra curiosa leggenda, che ha peraltro varie versioni, delle quali riportiamo qui la più suggestiva.
L’antico baluardo difensivo – eretto probabilmente in epoca romana, fatto restaurare da Federico II, e oggi fortemente diroccato – si eleva su un piccolo rialzo della roccia antistante il porto, e per tale strategica posizione fu a lungo adibito a faro. All’interno della sua sommità aveva infatti un grande fanale con una fiamma alimentata da olio lampante, al cui controllo erano adibite a turno alcune sentinelle.
Si narra che la notte di un anno imprecisato (e comunque precedente al 1480, allorché avvenne il tristemente famoso assedio dei Turchi e il drammatico eccidio degli 800 martiri di cui si è detto) il faro si spense improvvisamente. Ad una immediata ispezione, il guardiano scoprì che tutto l’olio della grande lampada si era esaurito con largo anticipo, e senza cause apparenti. Sicché ne rimise nel contenitore un congruo quantitativo, riaccese la fiamma e si appostò, ben nascosto, in attesa di risolvere il mistero. Fu così che, di lì a poco, al sorgere dell’alba, poté scoprire che una serpe, uscita da una crepa del muro superiore, si avvicinò alla fiamma e ne succhiò tutto l’olio, spegnendola nuovamente.
Nel frattempo, dalle scogliere vicine, le vedette avevano avvistato all’orizzonte una temibile flotta di pirati saraceni che evidentemente, nel buio della notte, non avendo potuto scorgere alcun riferimento luminoso della costa di Otranto, avevano proseguito più a nord, attaccando poi il porto di Brindisi. In sostanza, la serpe – quanto meno in quella occasione – aveva salvato la città da una sicura incursione piratesca.
Dall’Adriatico allo Jonio,ed esattamente a Taranto, ci spostiamo per un’altra leggenda che, se fa parte integrante delle specifiche tradizioni di quella città, è altresì assai nota e diffusa, pur con qualche variante, in molti altri luoghi della penisola salentina.
Si tratta dell’usanza, detta del “bambino della pioggia”, dove – come vedremo nella fattispecie, e come, più in generale, si può rilevare in tutta la storia del folclore – sacro e profano, superstizione e religiosità si fondono insieme, integrandosi e fortificandosi. Specialmente nei casi in cui emerge la primordiale necessità dell’uomo di controllare con ogni mezzo possibile (alla bisogna anche magico e trascendente) le preponderanti forze avverse della natura.
Fino a non molti anni fa, nella ’città dei due mari’ e nelle campagne circostanti, i contadini e la gente del popolo, in vista del sopraggiungere di un temporale, usavano esporre un bambino sull’uscio di casa, sollevandolo verso il cielo, e gli facevano gettare per aria tre piccoli pezzi di pane, mentre ad alta voce, da tutti i presenti, saliva la seguente invocazione, più o meno simile a quella che si tramanda in tutte le contrade del Salento: “Òziti, san Giuvanni, e no durmiri, / ca sta visciu tre nùuli viniri: / una d’acqua, una de jentu, una de tristu mmalitiempu! / Ddò lu purtamu ‘stu mmalitiempu? / Sotto na crotta scura, / ddò no canta jaddhu, / ddò no luci luna, / cu no fazza mali a me, / e a nuddha criatura!” (Alzati, san Giovanni, e non dormire, / ché vedo tre nuvole venire: / una d’acqua, una di vento, una di terribile maltempo! / Dove lo portiamo questo maltempo? / Sotto una grotta scura, / dove non canta gallo, / dove non splende la luna, / ché non faccia male a me, / e a nessuna creatura!).
Una domanda, in conclusione, potrebbe sorgere spontanea: “E chi in casa non avesse avuto bambini, come avrebbe fatto? ”. Beh, la risposta è una sola: le leggende non si discutono, si amano.
E’ proprio così, Antonio, le leggende, come le favole, sono piccoli dogmi che inteneriscono e fanno innamorare anche la ragione, tanto le offrono raccoglimento e riparo. E tra quel ‘Si dice…’ e ‘C’era una volta…’ si sta proprio bene! E’ come vedere l’affanno degli uomini dall’alto di una colorata mongolfiera, posizione, questa, che spesso permette d’individuare il senso di cert’agire e la dinamica di un certo essere.
Ed arriva nelle nostre mani il potere come una folata di vento.
Chi scrive, chi racconta, chi crea, può infatti mescolare realtà a fantasia, storia a interpretazione, certo di lasciare navigare il suo messaggio sul tempo, racchiuso nella più splendida delle bottiglie.
Mi scuso con l’autore, ma non credo proprio che Otranto fosse l’approdo di Enea descritto da Virgiliano, infatti gli ultimi studi portano ad individuare la Castrum Minervae nell’attuale Castro. https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=10&cad=rja&uact=8&ved=0CG4QFjAJ&url=http%3A%2F%2Fcucugliato.files.wordpress.com%2F2011%2F03%2Fdandria-scoperta-palladio.pdf&ei=UbYZU_T3Osis7Qa48oHgAg&usg=AFQjCNEzjUsbRTxYyw3w502GZ8zSAOPtEA&sig2=YsZzs4kDQYU5Li9ou4i0eg