di Armando Polito
La tecnologia mette oggi a nostra disposizione strumenti preziosi per conoscere e conservare le testimonianze del passato. Indagini impensabili fino a qualche decennio fa sono rese possibili da sofisticatissimi strumenti che trovano nell’informatica il partner ideale per l’elaborazione e la comparazione dei dati, alla ricerca di verità nascoste o offuscate dalle offese del tempo. Da qui le ricostruzioni in realtà virtuale che consentono di rivivere il passato, sia pure con i rischi di spettacolarizzazione che nell’era dell’immagine sono sempre in agguato. E sul piano della conservazione? Il discorso qui è molto più complicato perché coinvolge risorse umane ma, soprattutto, finanziarie. In un paese, come l’Italia, che detiene una parte notevolissima del patrimonio culturale dell’umanità il problema non è stato mai particolarmente sentito, nemmeno quando erano i tempi delle vacche grasse, figuriamoci oggi! Se gli affreschi a Pompei lentamente ma inesorabilmente svaniscono (ma qualcuno è pure svanito in un istante nel nulla…), se ai graffiti antichi si sovrappongono quelli moderni di visitatori idioti, che importa? Ci sono ben altri problemi da risolvere! Se penso ai cassintegrati ed alla schiera di giovani in cerca di un lavoro che non comporti lo sfruttamento schiavistico delle loro competenze, finisco, non guardando alle responsabilità oggettive che stanno a monte della crisi, per essere anch’io d’accordo con questo atteggiamento. Allora, se Pompei è destinata ad andare in rovina, se è fatale che manoscritti e libri antichi siano oggetto dell’attenzione privilegiata dei topi e delle muffe, se un fabbricato antico diventato nel corso del tempo rudere fra dieci anni dovrà essere solo un ammasso informe, perché non procedere sistematicamente almeno alla riproduzione digitalizzata del suo stato attuale? Nell’era del decentramento basterebbe che ogni amministrazione comunale utilizzasse le stesse attrezzature riservate ad immortalare, per lo più, le gesta della maggioranza di turno; gli operatori, poi, potrebbero essere, naturalmente a titolo gratuito, quei numerosi cittadini che in ogni centro danno prova di amore disinteressato per la loro città e per la sua cultura. Ogni riproduzione, ancora, prima di essere immessa in un catalogo generale, dovrebbe essere certificata dalle istituzioni competenti per evitare il rischio dell’intrufolamento di qualche immagine falsa o ritoccata da parte del solito idiota. Tutto ciò comporta preliminarmente l’abolizione di tutti i lacciuoli e le esclusive che attualmente impediscono al privato cittadino di effettuare riprese fotografiche in edifici aperti al pubblico di qualcosa che è, in fondo, patrimonio di tutti. Il consenso alla ripresa, insomma, resterebbe solo nel caso di edificio privato…non in palese stato di totale abbandono.
Per dare spessore concreto al mio discorso prenderò in esame l’epigrafe presente in un ambiente di quella che era la fabbrica della chiesa di Santa Maria della Grotta1, nell’immediata periferia di Nardò.
La mia foto in basso, elaborata per accrescerne la leggibilità, risale al 2006.
L’epigrafe consta di sette linee, delle quali sono ancora agevolmente leggibili le prime quattro contenenti, come vedremo, il nome dell’intestatario e la brava serie di titoli suoi e del suo “principale”; purtroppo le condizioni del manufatto degradano irrimediabilmente nella metà inferiore (molto probabilmente perché più soggetta alle conseguenze di qualche dissennata attività di tiro a segno o, addirittura, di sovrascrittura), proprio quella che doveva contenere le motivazioni che avrebbero potuto darci qualche ulteriore lume sulla storia della chiesa, sicchè pare un colpo di fortuna che nell’estremo lembo destro si sia conservata appena leggibile l’indicazione dell’anno.
Eccone la trascrizione:
J(ESUS) H(OMINUM) S(ALVATOR)2 JOANNES GRANAPHEUS BRU(N)DIS(INUS)
U(NIUSCUIUSQUE) I(URIS) D(OCTOR) PROT(ONOTARIUS) AP(OSTOLICUS) PRA(EPOSITUS) RE(GULARIS) VIC(ARIUS) G(ENERA)LIS HOD(IE)
D(OMINI) FABII CHISII NERIT(ONENSIS) EPI(SCOPI) ET IN GER(MANIA)
HESPERIORI NUN(TII) APOS(TOLICI) HA(N)C ECCL(ESIAM)
……………A REPR……….O
…………..ANTE…….
AN(NO) DOM(INI)3 (?) MDCXL
Va subito detto che molto probabilmente la tendenza all’abbreviazione delle parole fu conservata anche nelle linee ora illeggibili, sia pure in misura ridotta, dal momento che non vi dovevano comparire, come nella parte precedente, titoli ma solo indicazioni circa l’intervento effettuato sulla chiesa.
Traduzione:
GESÙ SALVATORE DEGLI UOMINI. GIOVANNI GRANAFEI DI BRINDISI4,
DOTTORE DI ENTRAMBE LE LEGGI, PROTONOTARIO APOSTOLICO, PREPOSITO REGOLARE, OGGI VICARIO GENERALE
DEL SIGNOR FABIO CHIGI5 VESCOVO DI NARDÒ ED IN GERMANIA
OCCIDENTALE NUNZIO APOSTOLICO, QUESTA CHIESA
…………………
…………………
NELL’ANNO DEL SIGNORE(?) 1640
Lascio al lettore immaginare cosa sarà dell’epigrafe fra qualche decennio e cosa sarebbe stato possibile a quella data ricostruirne senza l’ausilio di una foto più o meno datata.
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1 Il lettore che abbia interesse all’argomento può trovarne ampia e dettagliata notizia in Emilio Mazzarella, Nardò sacra, a cura di Marcello Gaballo, Congedo, Galatina, 1999, pagg. 377-378 e figg. 116-122.
2 JHS è il trigramma, acronimo rivisitato dell’originale greco IHS, abbreviazione di IHSOUS (Gesù).
3 Il dubbio riguarda solo se la formula era riportata in modalità estesa o abbreviata.
4 Nativo di Mesagne, marchese di Carovigno, dottore delle due leggi e protonotario apostolico, inviato a Nardò dalla S. Sede quale vicario apostolico, fu poi fatto nominare vicario generale da Fabio Chigi e l’8 giugno 1635 prese possesso della diocesi. Nel 1636 fu nominato canonico della Cattedrale e nel 1639 preposito.
5 Ordinato sacerdote nel 1634, vescovo di Nardò dal 9 gennaio 1635 al 13/5/1652, non mise mai piede nella diocesi né mai conobbe Nardò, impegnato a Malta come generale inquisitore e delegato apostolico, alla fine del 1640 nunzio apostolico a Colonia con potere di legato a latere. Mentre era a Colonia fu nominato prelato domestico ed assistente al soglio pontificio. Dal 1655 al 1667 fu Papa col nome di Alessandro VII.