di Armando Polito
il giorno dopo …
Di fronte a fatti di cronaca nera particolarmente efferati non è raro ascoltare frasi torvamente inneggianti all’introduzione della pena di morte che, secondo me, rappresenterebbe un’involuzione sul piano non solo del diritto ma, più in generale, della cultura e della civiltà. Un’involuzione meno pesante, comunque, è in atto pensando ai tempi della giustizia e alla latitante certezza della pena, nonché ad una legislazione, opera di legislature di diverso colore politico, che sembra favorire più il rapinatore che il rapinato, più il ladro di stato1 che quello di polli.
A proposito di ladri, credo che questi nostri tempi resteranno caratterizzati storicamente dall’insofferenza nei confronti di una classe politica che con l’alibi dell’emergenza tenta mediante bizantini contorsionismi di salvare solo i propri privilegi intonando noiose cantilene in cui le parole chiave, rigore e crescita, costituiscono, per colpa della semplice congiunzione e, un ossimoro, figura retorica estremamente efficace in poesia ma non in grado minimamente, purtroppo, di impedire suicidi per disperazione e fame.
Non mi meraviglierei nemmeno se qualcuno, rubando una delle più squallide espressioni mai sentite e che solo un idiota può considerare frutto di macabra ironia, dimenticando che l’ironia è intelligenza, che l’intelligenza è rispetto e che il rispetto si esercita anzitutto verso se stessi tenendo conto dei nostri limiti e chiedendoci sempre se siamo un pulpito adeguato dal quale far partire una predica, non mi meraviglierei, dicevo, se qualcuno commentasse quei gesti estremi con un In fondo se l’è cercata.
Ancora più vuota di significato appare la parola riforma, poiché, bene che vada, sarà rispettato solo il suo significato etimologico: cambierà l’aspetto, non la sostanza che, ahimé, è sempre quella economica; s’inventerà, per esempio, qualche nuova sigla ma resteranno emolumenti scandalosi per alti, medi e bassi pseudofunzionari la cui unica specializzazione è il leccaculismo per la goduria di questa o di quella parte politica.
E si finge di non vedere la disgregazione sociale in atto non pensando che la perdita della speranza è il terreno fertile non solo per i suicidi ma pure per la delinquenza in genere e, Dio non voglia!, il terrorismo, che in passato ha dimostrato, secondo me, di aver ben poco a che fare con l’autentica rivoluzione e liberazione.
E ci si scandalizza se qualche scalmanato evoca scene degne di piazzale Loreto dimenticando che sono di gran lunga più pericolosi i tanti calmi che non evocano …
Iò li ppindia tutti (io li appenderei tutti) è l’espressione dialettale più gentile tra le tante ricorrenti che mi è capitato di sentire. Non entro nel merito della locuzione perché la mia premessa sulla pena di morte ha espresso senza equivoci il mio pensiero a tal proposito.
Mi soffermerò, perciò, brevemente sulla sua forma.
Ppindìre è il corrispondente neretino dell’italiano appendere, che è tal quale dal latino appèndere, composto da ad=a+pèndere=pesare, soppesare, valutare. Il lettore noterà che ppindìre è parola piana, appendere sdrucciola: si tratta di un fenomeno normale: lèggere>liggìre; bàttere>attìre; pèrdere>pirdire, etc. etc.
Qualche parola sul latino pèndere (paradigma: pendo/pendis/pepèndi/pensum/pèndere): dal suo supino pensum sono derivati, sempre in latino, il sostantivo pensum=quantità di lana che la schiava doveva filare giornalmente (da pensum l’italiano peso), l’aggettivo pensus/pensa/pensum=di peso, pregevole, importante e, infine, il verbo pensare (da cui gli italiani pensare e pesare).
Accanto a pèndere, però, in latino c’è anche pendère (paradigma: pendeo/pendes/pepèndi/pendère=essere sospeso, pendere. È assolutamente evidente la connessione semantica (significato transitivo per pèndere, intransitivo per pendère) e formale (basta considerare il pepèndi in comune) tra i due verbi.
Tale connessione ha fatto sì che l’italiano sia pèndere e non pendère. Tutto questo per far notare come il dialettale pindìre sembrerebbe essere più fedele al latino pendère di quanto non lo sia l’italiano pèndere. Senonchè, mentre in latino le coniugazioni sono quattro (in –àre la prima, in –ère la seconda, in –ere la terza, in –ìre la quarta) , in italiano tre (in –àre la prima, in –ere la seconda, in –ìre la terza), il neretino ne ha solo due (in –àre la prima, in –ire la seconda). I tre passaggi appaiono come una gara di sintesi, di risparmio, di economia in cui il dialetto neretino risulta vincitore indiscusso. Proprio questo processo, però, in cui rientra l’osservazione fatta, riguardo all’accento, circa ppindìre/appendere, rende poco probabile, secondo me, la possibilità che pindìre sia figlio diretto di pendère e addirittura autorizza a pensare ad un latino pèndere variante volgare del classico pendère, il che significherebbe che la confusione dovuta alla connessione semantico-formale tra pèndere e pendère è di origine antica.
Tornando a ppindìre: il suo participio passato è mpisu (per dissimilazione da ppisu), usato anche in funzione di sostantivo nel significato di briccone (facce ti mpisu=faccia di delinquente); è curioso come il significato di briccone sia riferito ad una persona vivente dopo che è stato traslato dal significato letterale di appeso2, cioè di impiccato chiaramente riferito ad un morto. Teorie lombrosiane a parte, facce ti mpisu (e così l’italiano pendaglio da forca) icasticamente esprime un giudizio e nello stesso tempo un edulcorato auspicio di esemplare condanna. Proprio come, secondo me, in iò li ppindìa tutti …
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1 Lo uso consapevolmente non solo come genitivo di appartenenza (ladro che appartiene all’apparato statale) ma anche oggettivo (ladro che deruba lo stato); la colpa, perciò è doppia rispetto al ladro di polli in cui di polli può essere solo genitivo oggettivo …
2 Segue L’appeso (carta dei tarocchi):
Dinanzi alle considerazioni colte, ironiche( qui l’intelligenza di certo non manca, nè tanto meno il rispetto!) e chirurgiche di Armando Polito poco si può aggiungere. Chi più chi meno, tutti proviamo sconforto dinanzi al susseguirsi degli stessi fotogrammi di vita governativa di questo Paese un tempo Bel, ora forse neanche più Paese. Nelle nazioni inglobate nel quadro del sottosviluppo si parla di cruda disparità sociale nella spaccatura tra i ‘Ricchi, ricchi’ e i ‘Poveri, poveri’. Qui da noi, tutt’al più, si può accennare a una sensazionale ripartizione a quattro:
1) I ‘Ladri, ladri’, e Barabba insegna per quanto in lui albergasse una certa morale.
2) I ‘Soliti Pilato’
3) I ‘Grandi Giuda’
4) E ‘I ‘Poveri Cristo’.
E’ lampante la deduzione su chi, tra le quattro categorie, dovrebbe essere impiccato e chi, ahimè, a volte penzola da solo da una disperazione senza via d’uscita.
A questo punto, Armando, sarebbe bello bruciare tutte le forche virtuali e reali per aprire le celle della vera punizione, quella della coscienza, dell’espiazione di un egoismo insaziabile che ha trasformato la splendida Italia delle leggi, della cultura, dell’arte, della Costituzione e della ricchezza in una terra di anarchia, di squallidi teatrini e di bordelli a cielo aperto. Se il mondo ci invidia per il sole, l’unica cosa che finora non sono riusciti a rubare, specialmente al sud, lasciamolo splendere di nuovo perchè a ‘mpennere’ rimangano solo i panni ripuliti d’ogni infamità, ad asciugarsi di tutte le lacrime e gli sputi di quella che Giustizia era ed ora non è più.
Cara Raffaella, le tue parole mettono in campo la corresponsabilità di ognuno di noi ed è certamente un tema da non sottovalutare. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Sì, ma nel frattempo, mentre chi come forse me, certamente te, scaglia un metaforico sassolino, c’è più di uno che da decenni ha scagliato autentiche pietre tombali e continua spudoratamente a farlo. Io sono profondamente convinto che la speranza d’impunità rappresenta il difetto esiziale di qualsiasi forma di potere. È solo questione di tempo, anche se l’Umanità, purtroppo, checché ne pensasse Cicerone, fa poco tesoro del passato e un nuovo, dannato ciclo, prima o poi, stupidamente, ricomincerà. Proprio per questo credo che, nel frattempo, le forche metaforiche e letterali (anche se queste ultime, come ho detto, non strumento di annientamento) rappresentano l’unica speranza di rinnovamento da quel poco di basso che ancora conserva dignità (parecchi suicidi sono espressione di dignità offesa eppur trionfante …) e rispetto (quello autentico, i valori basati solo sulla forma e sulle parole non hanno valore, tanto meno educativo) degli altri, visto che i piani alti sono tutti marci e, mi auguro, prossimi al crollo.
Mi viene in mente anche la ‘mpisa (spesso tradotta in italiano con “appesa”), termine utilizzato dalle maestranze per indicare i primi quattro corsi di muratura che consentono l’imposta della volta (a botte, a stella, etc..).
Questa, più che appesa è fuori piombo, con uno sbalzo che va crescendo ogni corso, ma sempre con il baricentro del concio all’interno della muratura (in modo che non ribalti).
Dato che l’appesa coincideva anche con la prima fase della realizzazione di una volta, si sente tutt’ora la frase “stamu alle ‘mpise” per indicare un lavoro lungo che è ancora agli inizi.
grazie Fabrizio! bella integrazione
Resta da chiarire se davvero mpisu sia da *(a)ppisu, part. pass. di (a)ppèndere, con degeminazione; piuttosto che da *(i)mpisu, part. pass. di (i)mpèndere.
Si osservi che manca nel salent. la voce ppisu nel significato di ‘briccone da appendere’ > ‘impiccato’; a mia riprova, nel dialetto foggiano esistono sia appise che mbise nel significato di ‘appeso’ (infinito: appènne, mbènne), ma solo mbise nell’accezione di ‘impiccato’.
Condivido l’osservazione sul fatto che è piu filologicamente corretto che la preposizione iniziale sia” in” anziché “ad”. Non è rilevante, invece, il fatto che mpisu da solo non significhi “impiccato” ma semplicemente “appeso”. Assume, invece, il significato metaforico (ma non tanto …) di “impiccato” nei nessi che ho riportato, ai quali aggiungo “chiappu de mpisu” (alla lettera cappio di appeso)=cattivo soggetto. Il vocabolario del Rohlfs registra quest’ultimo nesso come voce letteraria (L 34 corrispondente a Emanule Barba, Proverbi e motti del dialetto gallipolino, Stefanelli, Gallipoli, 1902), così come per “facci dI mpisu” (B10 corrispondente a Ciommo Bachisi, Nniccu Furcedda, in Storia di Francavilla di Pietro Palumbo, v. II, Cressati, Noci, 1870) e per “facci de mpisu” (L45 corrispondente a Oronzo Parlangeli, Sui dialetti romanzi e romaici del Salento, in Memorie dell’Iatituto Lombardo di Scienze e Lettere, v. 25, fasc. 3, Milano, 1933). “Facce ti mpisu”, da me riportato e ancora oggi sentito usare a Nardò, ne è la variante neretina.
È probabile che tutti i nessi riportati siano di origine letteraria e che successivamente siano stati adottati dal popolo. Lo studio dei rapporti tra dialetto letterario e lingua parlata è un campo minato ed è difficilissimo individuare certe primogeniture, come ho avuto occasione di dire nei recenti post su Francesco Castrignanò. Grazie per l’intervento.