di Armando Polito
È questione antica se l’arte, la poesia in particolare, debba assumere connotazione politica, debba, cioè, essere espressione di impegno sociale. Purtroppo, secondo me, si è confusa, e si continua a confondere, la politica con la militanza più o meno disinteressata, più o meno fanatica, in un partito o con la semplice adesione alla sua ideologia (la confusione, poi, è totale oggi che non solo è scomparsa l’ideologia ma, cosa più grave, sono scomparse le stesse idee e sappiamo benissimo quali ideali hanno preso il sopravvento …), dimenticando che l’artista, il poeta in particolare, è, o almeno dovrebbe essere, per definizione un uomo libero o, comunque, in grado di liberarsi almeno ogni tanto dai condizionamenti che gravano su ognuno di noi, per farsi portavoce di valori universali, autenticamente democratici, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione ed opinione politica. Per farlo, se non si è Dante (pure lui era politicamente impegnato) o Foscolo (rinunziò, tra l’altro, all’allettante offerta di dirigere una rivista austriaca per non dover scendere a compromessi con la sua voglia di libertà), è indispensabile compensare con un minimo di talento alcuni peccati che potrebbero esserci imputati. Da chi? Ma dalla critica che, bontà sua, pur non essendo libera … , si scandalizza per qualche difettuccio. Per esempio, negli scorsi decenni (ora non so …) la sinistra a denti stretti ammetteva il valore degli artisti agenti nell’entourage di Augusto e del suo, si direbbe oggi, ministro della cultura (ma anche addetto stampa …) Mecenate: Virgilio e Orazio i nomi più famosi. Lo stesso trattamento era riservato ai maggiori rappresentanti della cultura rinascimentale. Io credo che bisogna far distinzione tra il modesto leccaculo di turno e chi, come ho detto, pur dovendo concedere qualcosa ai condizionamenti del suo tempo, grazie al suo talento, tutto sommato, se li fa perdonare. Insomma un uomo d’arte o di cultura allora per avere fortuna doveva avere innanzitutto talento ed essere in qualche modo disponibile ad assolvere qualche obbligo di gratitudine; oggi, e qualcuno mi dimostri che non è così, tutto dipende solo dal servilismo; tale è quello politico di chi nel suo futuro si vede non come uno statista che ha tentato di passare alla storia per la sua dedizione al bene comune ma come proprietario a sua insaputa di uno o più appartamenti, come prestanome per traffici ed affari poco chiari, come consulente o presidente di questo o quell’altro ente pubblico o privato; tale è quello strettamente culturale di chi ha ottenuto, non si sa come ma certamente non per merito, una cattedra universitaria o una sponsorizzazione della pubblicazione di qualche sua scemenza per la quale il critico di turno, cretino e schiavo anche lui del sistema, ha già da tempo preparato una bella recensione che con parole altisonanti dice, bene che vada, cose contraddittorie. I detentori di tanto talento pensano, magari, o altri hanno fatto credere loro e loro ci sono cascati, di essere dei geni; in realtà sono solo schiavi cretini o cretini schiavi (qui l’inversione non comporta il minimo spostamento di significato …), anche se dal loro appartamento godono di viste mozzafiato, anche se pasteggiano a caviale e champagne, anche se vanno in Ferrari per terra, in executive per aria e in yacht per mare, anche se saranno costretti a prostituirsi a fare il giro delle scuole (o delle emittenti televisive …) per poter piazzare qualche copia in più del loro capolavoro.
Questa premessa era necessaria per introdurre l’argomento di oggi che riguarda la riproposizione e il commento (riservato alle note, mentre a fronte il lettore troverà la traduzione in lingua) di una poesia di Francesco Castrignanò (Nardò 1857-1938): laureato in Lettere e in Lingue, professore, calligrafo, giornalista, storico, diresse il giornale La sentinella e fu autore di parecchie pubblicazioni1. La poesia presa in esame è tratta da Cose nosce, la cui prima pubblicazione risale al 1909.
Il peccato originale di Nardò, cioè l’essere stata edificata in un luogo malsano, per il poeta costituisce solo un pretesto per delineare a rapidi tratti una storia scandita da fatti negativi dovuti agli uomini (guerre, tirannia del Guercio di Puglia) o alla natura (peste, terremoti), sicché tutto il componimento è un progressivo inno alla libertà e il dettaglio finale sul fisco costituisce una lezione, semplice ma efficace, di educazione civica di fronte alla quale gli evasori fiscali di oggi si farebbero una sonora risata, mentre è vano sperare che gli amministratori di turno si facciano, una volta tanto, l’esame di coscienza. Dalle fosche tinte iniziali, dunque, si passa ad una visione che, anche se non è aulica, rientra nel diffuso clima di ottimismo postunitario. Poi venne la stagione fascista e sarebbe certamente antistorico e scorretto definire il Castrignanò come il cantore neretino del fascismo solo per tre opuscoletti dedicati a Mussolini (gli ultimi tre della nota 1, rispettivamente del 1928, 1930 e 1934). Se si è onesti bisogna pure ammettere che il regime godette per molto tempo del favore popolare e che la sparuta schiera di oppositori che già aveva pagato un alto tributo alle sue idee di libertà si rimpinguò di botto solo quando apparve evidente che la situazione, a cominciare da quella militare, stava precipitando. E quasi tutti si affrettarono a salire sul carro del vincitore, anzi a scendere da quello dello sconfitto, esibendo molto spesso l’atteggiamento disinvolto del gatto che dopo una caduta maldestra, per nascondere la vergogna, fa finta di niente …
Il Castrignanò morì nel 1938 ed è inutile starsi a chiedere quale atteggiamento avrebbe assunto nei confronti del regime se fosse vissuto ancora qualche anno e quale posto potrebbe occupare nel quadro all’inizio delineato. Leggiamo, perciò, questa poesia semplicemente come un bozzetto del tempo che fu, il cui pregio maggiore è, secondo me, quello di stimolare a fare il confronto con il nostro.
Per evitare qualsiasi influenza e condizionamento interpretativo (chiedo scusa per averlo, forse, fin qui maldestramente fatto), le note (sono mie anche quelle che corredano il testo originale) e l’eventuale commento saranno prevalentemente di natura filologica. La trascrizione del testo è, come doveva essere, fedele, anche se non condivido alcune grafie; per esempio, non tanto l’assenza del segno dell’aferesi (gne, mpantanati, nticamente, zziuni, lluntanandu) quanto la non puntuale geminazione della consonante iniziale : buta, tutti, bona, chiantare, manca, tuecchi, turri, barbari, butu, saggiatu, bene, bire, santa, cui fa da contraltare l’inopportuna applicazione in ccu. Comunque, Cose nosce venne tenuto in conto dal Rohlfs nella realizzazione del suo vocabolario dei dialetti salentini, che registra accanto alle voci raccolte sul campo anche quelle di attestazione letteraria. Non è qui il luogo per spiegare le mie perplessità e riserve su questa scelta; dico solo che, ogni volta che troverete nel vocabolario del maestro tedesco una parola contraddistinta dalla sigla L29, sappiate che è stata tratta proprio da Cose Nosce.
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1 In morte di Giuseppe Garibaldi (2 giugno 1882), Tipografia Garibaldi, Lecce, 1882
Le orientali di Victor Hugo: saggio di traduzione, Tipografia nazionale, Trani, 1884
Antonio Caraccio: cenno biografico-critico, Tipografia Garibaldi, Lecce, 1895
Fiori di neve: versi, Tipografia neritina, Nardò, 1897
Cose nosce: poesie dialettali, Tipografia Neritina, Nardò, 1909 (ristampato dal figlio Corrado per i tipi di Leone Editore, Nardò, 1969)
L’alleanza dei popoli, Tipografia Bortone, Lecce, 1915
Per il 1° cinquantenario dell’unità d’Italia, Mariano, Galatina, 1911
Patria mia: rime, Vergine, Galatina, 1923
(in collaborazione con Assuntina Antico, Giovanni Calò e Salvatore Castelluzzo) Il libro degli acrostici: a turisti d’Italia, Fratelli Carra, Matino, 1926
Lo Czar e il chimico, novella in versi e liriche sacre, Vergine, Galatina, 1926
A Benito Mussolini, Mariano, Galatina, 1928
L’acquedotto pugliese e il duce: canzone in dialetto neritino, Mariano, Galatina, 1930
Omaggio d’un settantenne a Mussolini: 25 marzo 1934, Gioffreda, Nardò, 1934
La storia di Nardò esposta succintamente, Mariano, Galatina, 1930
Versi, Mariano, Galatina, 1935
2 Ho usato impropriamente questa voce per contrapporre la depressione in cui sorge Nardò (appena 37 metri sul livello del mare) alla modesta altitudine (appena tre metri in più rispetto alla città) della zona Pagani (Paiàni in dialetto neretino) diventata ormai un quartiere periferico. Quanto all’origine dell’etimo non ho notizia alcuna e, ignorando l’esistenza o meno di fonti documentarie, qui posso solo avanzare delle ipotesi:
1) dal latino pagani, plurale di paganus (da pagus=villaggio)=campagnolo, contadino; in tal caso il toponimo alluderebbe alla contrapposizione tra coloro che abitavano entro le mura cittadine e coloro che in modo non occasionale risiedevano a qualche km. di distanza in zona, allora, rurale , molto probabilmente pure selvatica.
2) da pagani in contrapposizione a cristiani, e ciò alluderebbe ad una specie di comunità religiosa a se stante e diversa da quella ufficiale, cosa di cui non c’è traccia nelle fonti. Lo stesso se si dovesse pensare ad un’occupazione temporanea da parte di Saraceni abituati, però, solo a fare razzie ad allontanarsi. Nardò subì un’invasione saracena agli inizi del X secolo.
3) Pagani potrebbe alludere alla nobile famiglia napoletana Pagano, legata ai sovrani angioini ed aragonesi; i primi dominarono a Nardò dalla seconda metà del XIII secolo, i secondi (Acquaviva d’Aragona) verso la fine del XV secolo; sotto il regno (1458-1494) di Ferdinando I d’ Aragona (Ferrante), Tommaso Pagano, morto nel 1480, fu primo siniscalco del Regno di Napoli.
Solo negli ultimi decenni il nucleo abitato di Nardò ha cominciato ad espandersi in direzione dei Pagani sfruttando quasi totalmente gli ampi spazi rurali tra le case di villeggiatura (casìni) preesistenti. Il Castrignanò osserva che sarebbe stato più opportuno costruire il primo nucleo in questa zona, riflessione che anche il cittadino comune fa oggi, per quanto riguarda la successiva espansione della città, nei suoi discorsi, senza, però, introdurre la giustificazione storica che il poeta non trascura, corrispondente al rispetto di un’antica legge: ogni città tende a sorgere dove l’acqua è abbondante e facile da emungere. Oggi i Pagani fruiscono dell’acquedotto, ma in passato il fabbisogno idrico venne soddisfatto con le cisterne prima e con i pozzi artesiani poi. Il cittadino ha perciò ragione a non mettere in campo una giustificazione che non esiste più ed a fare le allusioni che da che mondo è mondo si fanno nei riguardi dei piani regolatori, soprattutto quando, a torto o a ragione (non sempre agevoli da dimostrare incontrovertibilmente l’uno o l’altra) si crede di essere rimasti vittima, diretta o indiretta, di favoritismi. L’avrei detto anche se non avessi avuto la fortuna di vivere ai Masserei, zona, anch’essa ormai troppo densamente popolata per i miei gusti …
4) Registrato nel vocabolario del Rohlfs solo come testimonianza letteraria. Impossibile per me dire se si tratta di un’invenzione del Castrignanò o se effettivamente la voce era di uso popolare; chiara è, comunque, la sua derivazione da mberda (=merda), per dissimilazione da mmerda. Oggi la voce in uso è mbirdisciàre forma frequentativa di un inusitato *mbirdare.
5 Participio passato di struscire, corrispondente all’italiano struggere.
6 Da s– privativa+pricare=seppellire; su pricare vedi
https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/03/28/pricare-una-parola-senza-etimologia-definitiva-come-lei-anche-se-una-di-quelle-avanzate-nello-stesso-tempo-fa-e-non-fa-una-piega/
7 Participio passato di saccarire, da saccare (a Nardò, però, si usa la variante siccare)=seccare. Per spiegarci saccarire, apparentemente strano infinito presente da saccare, bisogna ipotizzare una forma aggettivale *saccale da un originario aggettivo sostantivato *saccu (dal citato saccare) diventato poi siccu per evitare confusione con saccu=sacco; da *saccale, poi, *saccalire e, infine, saccarire.
8 Oggi si usa fèutu; fieu è registrato dal Rohlfs con la sigla L29.
9 Sull’etimo di Arnèu vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/25/riflessioni-sulletimologia-di-arneo/
10 Qui, sembrerà strano, ma debbo fare i miei complimenti all’autore (è preoccupante se parlo con i morti?) per aver saputo fondere e conciliare fino a correttamente confondere due esigenze filologiche: la diàstole (vale a dire lo spostamento dell’accento in avanti per esigenze di rima con tantu) e l’evoluzione del toponimo dal greco Τάρας/ Τάραντος (leggi Taras/Tàrantos) al latino Tarèntum (o Tarèntus)/Tarènti. Non a caso in alcuni centri di Terra d’Otranto la variante in uso è Taràntu.
11 Il Rohlfs registra solo un citate con la sigla L28 che si riferisce al poema di Giuseppe Marzo De Gadhipuli a Marte, Gallipoli, 1903 e le varianti cetate e cità tratte sempre da opere con velleità letterarie, il che ripropone il consueto problema di affidabilità documentale dell’uso popolare, tanto più che tutte (a parte cità) sono, come l’italiano letterario cittade, dal latino civitate(m).
12 Fiata (dal francese antico fieé, a sua volta da un latino *vicata, da vicis=vicenda) è uno dei classici esempi di parola di uso letterario entrata nell’uso corrente (o viceversa?).
13 Si tratta di Giangirolamo Acquaviva, conte di Conversano e signore di Nardò, per il quale vedi
https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/08/16/lolocausto-di-nardo-un-tributo-doveroso-ai-suoi-martiri-a-363-anni-dalla-loro-tragica-fine/
https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/08/20/20-agosto-1647-lolocausto-di-nardo-seconda-parte/
14 Nei tempi passati era un flagello (naturale!, non come l’Ilva …) ricorrente. Ma non sempre il male viene per nuocere: nel 1528, per esempio, le truppe francesi al comando del capitano Lautrec non completarono l’opera di occupazione di Nardò perché preferirono fuggire costrette proprio dalla diffusione della peste. E nello stesso anno morì di peste a Napoli Belisario Acquaviva d’Aragona dal 1516 duca (prima ne era stato marchese) di Nardò. Una triste esperienza analoga patita in epoca successiva (XIX secolo?) ha dato vita al toponimo Impestati (in dialetto neretino ‘Mpistati, per cui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/05/29/toponomastica-li-mpistati-un-caso-simile-a-via-scapigliari/
15 Nonostante il terremoto del 20 febbraio 1743 (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/02/20/lo-tsunami-che-nel-1743-colpi-il-salento/), oggi Nardò è classificata come zona sismica 4, cioè con pericolosità sismica molto bassa
16 La locuzione dialettale d’artrimonti se non è genuina è un’abile costruzione del Castrignanò realizzata con l’incrocio tra la forma (d’oltremonti) che, al pari di oggi, era la più diffusa ai suoi tempi (un esempio per tutti: Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia N. 44 del 21 Febbraio 1894: Del diritto parlamentare aveva fatto studio particolare traendone abilità ad opportuni riscontri, per dare lume ai sopravvenienti casi, col ricordo di altri nostrani, cogli esempi e coi canoni che ci vennero d’oltremonti quando vi ebbe una Costituzione simile alla nostra) e la variante d’altremonti di qualche decennio anteriore (di cui son riuscito a trovare due sole ma importanti attestazioni, delle quali molto probabilmente il nostro deve aver letto le rispettive opere (Niccolò Morelli di Gregorio, Pasquale Panvini, Biografie degli uomini illustri del Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1825, pag. 453: Ed ora il gusto oltramontano ci conduce agli stessi errori. Salute allo spirito filosofico di altremonti che à introdotto così strane censure!; Filippo M. Pagani, Istoria del Regno di Napoli, Tipografia San Giacomo, Napoli, 1839, v. III, pag. 163: … il re di Spagna e Massimiliano, per impedire che fosser venuti d’altremonti aiuti a Carlo, rotta avrebbero la guerra in Francia …).