Ancora presenti nella vita di oggi
MODI DI DIRE
Espressioni semplici e colorite del linguaggio popolare
di Piero Vinsper
Con modo di dire o, più tecnicamente locuzione o espressione idiomatica, si indica generalmente un’espressione convenzionale, caratterizzata dall’abbinamento di un significante fisso a un significato non composizionale (Casadei, 1994: 61; Casadei, 1995: 335), cioè non prevedibile a partire dai significati dei suoi componenti. Di conseguenza una definizione precisa di modo di dire, (e di espressione idiomatica) non è data né accettata in linguistica. E mi fermo qui e non vado oltre.
In altre occasioni, invece, ho sostenuto che i modi di dire rappresentano il senso realistico di un’espressione semplice, chiara, colorita, spesso arguta e a volte canzonatoria, che va aldilà di ogni metafora, di ogni traslato e di ogni similitudine, o di qualsiasi altra figura retorica.
Non vorrei che il nostro dialetto, dal momento che non è ben coltivato, diventi presto erba secca, arida, incomprensibile; altrimenti dovrei ripetere, così come in griko, ma con dovuta differenza, i glòssama, pedìmmu, ine fonì ine fonì monachà (la nostra lingua, figlio mio, è una voce, una lingua unica, oscura).
Noi tutti sappiamo che, un tempo, i bambini, i ragazzini si riunivano nelle corti a giocare. E lì accadeva di tutto: urla, schiamazzi, pianti, litigi. Però, quando si superava il livello di sopportazione, si presentava nel bel mezzo della corte una matrona e con dire imperioso esclamava: Oru, oru, ognunu a casa loru! Ora, ora, ognuno vada alla propria casa. E i ragazzini, scurnusi e alla spicciolata, abbandonavano la corte e si recavano alla propria dimora.
A volte succede che due persone s’incontrino per strada e, dopo i saluti convenevoli, si mettano a parlare della famiglia, dei figli, dei problemi che li assillano quotidianamente. Si trova a passare un terzo incomodo, si ferma ad ascoltare i loro discorsi, ma quando cerca di intervenire si sente spiattellare in faccia: Talìa, talìa, ca è longa la via! Via, via, perché lungo è il cammino. E’ un modo come un altro per dire: vattene, non è gradita la tua presenza!
Dato che all’inizio si è parlato di bambini, rimaniamo in tema. Una madre, dopo aver allattato il figlio, aspetta che questo faccia l’eruttino. Avvenuto ciò, esclama: Mele e manna e zzuccaru ‘n canna, miele e manna e zucchero in gola! E se c’è qualche altra persona presente senti dire: e a cci nu tt’ama fele!, cioè chi non vuol bene a questa creatura possa sempre avere in bocca l’amaro del fiele.
A un bambino cola il muco dal naso; non sa pulirsi oppure non ha un fazzoletto con il quale soffiarsi il naso. Che fa? Aspira dentro il muco in maniera costante e fastidiosa. Allora si ammonisce: rrufa (gr. rofò, aspirare) ‘Ronzo, ca te sazzi. Inspira Oronzo così ti sazi!
Se il bambino non sta fermo, è irrequieto, scorazza da una parte all’altra, va su e giù da una stanza all’altra, il popolo così si esprime: Tene l’artetica oppure l’have pizzacatu l’apu. Artetica (gr. arthriticòs) vale stare sempre in movimento, mentre quando uno è punto da un’ape scappa da una parte all’altra in cerca di un rimedio al dolore provocato dalla puntura.
Una donna è incinta; ha desiderio di qualcosa, ma per diversi motivi non ha la possibilità di soddisfare ciò. Sarà un frutto fuori stagione, sarà qualcosa che è impossibile trovare o comperare? Allora tòccate ‘n culu ca ti passa ‘u spilu: toccati il sedere, così ti passa la voglia. E’ un modo di dire eloquente che va al di là delle credenze popolari.
M’hai scalatu i fianchi è un modo di dire che spesso è rivolto a persone che ti scocciano, che ti infastidiscono, che sono petulanti e attaccaticce. Lo stesso dicasi di m’hai scurciatu ‘u piricocu (lat. persicus praecoquum) o m’hai scasciatu ‘u pasticciottu. Mi hai fatto scendere giù i fianchi può accostarsi al verso latino del grande Orazio: cum sudor ad imos manaret talos (Lib. I, Sat. 9, vv. 10-11), mentre il sudore mi scendeva giù sin sotto i talloni, cioè colavo sudore dalla testa ai piedi.
E prettamente di derivazione latina è stare una, stare d’accordo. Infatti una è avverbio latino e si traduce insieme; perciò esse una, essere insieme, stare d’accordo con qualcuno.
Nu’ stare una cu ciuviddhri (lat. qui velles ) è non sto d’accordo con nessuno.
Quando, invece, una persona si intromette in un discorso senza che le sia stato richiesto il proprio parere, oppure quando s’intrufola in un contesto sociale, senza essere stata invitata, il popolo dice: E’ thrasutu de spichettu, è entrato alla chetichella. Spichettu, a detta delle camiciaie, è il gherone, cioè un pezzo di tela, a forma triangolare, cucito in basso ai due lati da ambedue le parti della camicia da donna, per dare ad essa maggiore ampiezza.
Se un tizio è indifferente, non parla, sta zitto e non proferisce mai una parola è uno che Nu’ ppate, nu’ ccunta, nu’ mmùscia. Lo stesso discorso vale per ste ‘mpalato comu ‘nu sapale: sta lì impalato come un terrapieno. Sapale, infatti, deriva da saeps, saepis, siepe, quindi saepalis è un terrapieno a confine tra appezzamenti di terreno. E viene spontaneo qui citare il proverbio: li pariti tenenu ‘e ricche e li sapali l’occhi. Cioè uno può ascoltare anche se ci sta il muro divisorio quel che si dice nell’altra stanza e può vedere, senza esser visto, mantenendosi nascosto dietro monterozzoli di terra, ciò che succede tutt’intorno.
Un altro simpatico modo di dire galatinese è: è sciùtu ddèscia ‘a manu a ‘u mortu: è andato a dare la mano al morto. Naturalmente stringere la mano al morto è inconcepibile. Sta a significare, invece, che una persona si è recata al funerale per fare le condoglianze ai familiari del defunto.
L’inverno è alle porte; il freddo, presto, si farà sentire e qualcuno potrà affermare: sta mmi rrizzacanu ‘i carni. Rrizzacare (lat. arrigere) significa drizzare. Se il modo di dire è riferito al cambiamento della temperatura, vale sto rabbrividendo, i miei muscoli, le membra si rattrappiscono. Se, al contrario, riguarda un fatto di ineffabile crudeltà, di scelleratezza, si può spiegare con mi viene la pelle d’oca.
Anche il grande Pietro Cavoti è ricordato nei nostri modi di dire. A una persona che ha i capelli lunghi si dice: mi pari ‘nu Cavoti. Molto probabilmente il Cavoti aveva una capigliatura folta, cascante, non curata, arruffata, tipica dei grandi artisti, che non curano l’apparire ma il fare.
E per concludere, se all’opera segue l’azione, se si fa una cosa in quattro e quattr’otto, se un progetto si porta a termine nel più breve tempo possibile, si dice friscendu mangiandu.
Pubblicato su Il Filo di Aracne