di Paolo Vincenti
Ritorno sulla figura e le opere di Maurizio Nocera, docente, ricercatore, scrittore e operatore culturale, di cui mi sono già occupato nel mio libro del 2008 “A volo d’arsapo. Note bio-bibliografiche su Maurizio Nocera” (Il Raggio Verde Editore) e più recentemente in “Nocerancora. Postille bio-bibliografiche su Maurizio Nocera”, e-book interamente pubblicato su www.spigolaturesalentine.it, ora www.fondazioneterradotranto.it.
Questa volta prendo in esame la produzione poetica del noto intellettuale salentino. “La contrada del poeta. Più altri poemetti e poesie sparse”(Il Raggio Verde Edizioni, 2009) è una raccolta in versi che ci offre una preziosa testimonianza su una temperie culturale – che l’autore conosce bene- ed alcuni dei suoi protagonisti che potremmo definire i “Selvaggi del Salento”, prendendo a prestito una definizione data dallo stesso Nocera.
Mi riferisco, prima di tutto, ad Antonio Verri, ma anche all’ “Excelsus Magister” Edoardo De Candia, al “fratello indio magliese” Salvatore TotòFranz Toma, e a buona parte di quella avanguardia culturale salentina che, fra gli Anni Ottanta e i Novanta, rivoluzionò il nostro quasi atrofizzato ambiente letterario (pensiamo, solo per citarne alcuni, ad Antonio Massari, insieme alla sorella Anna Maria, a Rina Durante, a Mauro Marino e Piero Rapanà, a Francesco Saverio Dodaro), attraverso la poesia, la prosa, la pittura e la scultura, le varie sperimentazioni visive e sonore, fino alle più bizzarre ed allora impensabili forme di comunicazione, creando un movimento di uomini e di donne, difficilmente ripetibile.
Una sorta di “libero cantiere culturale”, insomma, che in qualche modo ruotava intorno alla figura di Antonio Leonardo Verri, non a caso definito “battistrada storico delle avanguardie culturali salentine”, e che portò, complice e protagonista di spicco lo stesso Maurizio Nocera, ad una letteratura militante, distante e distinta da quella accademica, ad una letteratura della strada, potremmo dire, germinata da una sensibilità nuova, per certi aspetti originale, figlia dell’ ardita ma stimolante compenetrazione fra studio e vita vera. Alcuni dei protagonisti di quella generazione meravigliosa e di una stagione culturale che ha dato ottimi frutti, oggi sono scomparsi ma ne tiene viva la memoria Nocera, anche grazie a questo fastello di versi ispirati e sinceri, come profumati fiori di campo, che compongono la presente silloge.
A partire dalla prima poesia “I tuoi capelli sono stelle filanti”, dedicata “ad A.”, probabilmente la sua compagna di vita e di lettere, Ada Donno, i cui capelli vengono paragonati a”stelle filanti, cascatelle del cielo”. La seconda poesia è “Antonio Habanero”, dedicata ad Antonio Verri “uomo dei curli e dei sibili lunghi”. E’ Cuba ad offrire l’ambientazione per questo testo, in cui Maurizio sceglie come ideale compagno di viaggio il suo grande amico scomparso, “MenhirAntonio” Verri, e con lui intreccia un ideale dialogo, in una sorta di diario di viaggio in cui riporta impressioni, sogni, fascinazioni, incontri con negre betisse con le quali ballare una tarantella, confondendo la conga o la rumba con la salentina pizzica de core, con le gigantografie di Che Guevara che da ogni angolo guarda e scruta la vita isolana, con i locali di L’Avana vecchia, frequentati da artisti e intellettuali da ogni parte del mondo, ecc. E non potevano mancare, fra il fumo di un sigaro e un sorso di mojto ristoratore, non importa se veri o immaginari, gli incontri con Gregorio Fuentes, l’amico pescatore di Ernest Hemingway, con il poeta Nicolàs Guillèn, nemico della dittatura di Battista, con quell’altro rivoluzionario del “Granma” Camilo Cienfuegos, e con Julio Antonio Mella, fondatore del PCI cubano e compagno di Tina Modotti. “Fuoco Odoacre, fuoco!” è dedicata al pittore leccese Edoardo De Candia “che visse una vita d’inferno e che ora se la ride in Paradiso, ma anche a Francesco Saverio Dòdaro suo complice”, così come al vichingo pittore santo bevitore è dedicata “Fintotontopazzo”, che l’autore chiama “Odoacre”, con il nome che venne usato per lui da Vittorio Pagano, la prima volta, negli anni Cinquanta, e poi da Antonio Massari nel suo libro “Edoardo” (Edizioni D’Ars, del 1998). Questo testo venne pubblicato nella raccolta “Locandine letterarie”, edita dal Raggio Verde nel 2005, mentre il testo successivo, “Edoar Edoar”, sempre incentrato sulla figura del pittore scomparso, “l’eccessivo leccese amato”, fu oggetto di una specifica pubblicazione edita nel 2006. Edoardo De Candia, poeta bohemien, stravagante artista del pennello, “il vichingo di Via Sabotino”, come lo definì il suo grande amico e “scopritore” Antonio Verri, per via della sua bionda chioma e della sua smisurata mole, ebbe una vita non facile. La sua città, Lecce, da vivo non lo comprese e non lo amò.
Nel testo, Nocera parla della di lui passione per la bottiglia, inseparabile compagna di tutta la vita, del suo abituale disincanto, della dolorosa esperienza del manicomio; e soprattutto della sua arte, dei suoi paesaggi, dei suoi nudi di donna. Purtroppo oggi Edoardo, “un cavaliere senza terra”, altra definizione data da Verri in un suo bellissimo scritto del 1988 apparso su “Sud Puglia”, non c’è più. Come non c’è più Antonio Verri e non c’è più un altro appassionato promotore dell’arte di De Candia, Salvatore Toma, “The Great Poet”, come egli stesso amava firmarsi, a cui Nocera dedica il testo successivo “Tu sapevi del nostro atroce destino”. In questo poemetto, la figura del “pellerossa di Maglie”, l’Indio Totò “Fiore del Salento”, viene rievocata in versi che parlano di poesia, di derelitti ed emarginati, del mare salentino, di valli di profumi e acque mielate, di declari infiniti, di sibili sotterranei e colosse Betisse.
Questi versi parlano di diavoli, di briganti e odalische, di streghe, di maghi, di sauri e gufi, di civette cornute, di sigarette in bocca e sorrisi beffardi, il tutto per “Totò Franz, altrimenti detto Totò Toma”. Bellissima e struggente è anche l’altra poesia dedicata ad Antonio Massari, “La contrada del poeta”, nella quale la figura del grande pittore leccese (“il meccanico delle acque”, secondo la nota definizione di Pierre Restany) si intreccia con quella di un altro Antonio, de Sant Exupèry, autore del “Piccolo Principe”, opera molto amata da Massari.
La cifra stilistica che connota la produzione poetica noceriana consiste nel fatto che nei suoi testi, spesso abbastanza lunghi, i versi hanno una certo voluta caduta prosastica e l’inserimento di neologismi o di termini presi dal parlato quotidiano nonché di lessemi ed anche costruzioni tipicamente dialettali spezza la loro cantabilità, ne interrompe la metodicità. “Mommens: angelo normanno” è dedicata “a Norman Mommens e Patience Gray, angeli di Spigolizzi-Presicce”. “Claudia Mesar Lì” ci porta un bellissimo e commovente ritratto della poetessa leccese Claudia Ruggeri, scomparsa prematuramente qualche anno fa. “Il fanalista d’Otranto” è il frutto di una lunga gestazione che ha portato il suo autore a rivedere il testo più e più volte prima di pubblicarlo in un volume, edito nella collana “I poeti de L’uomo e il mare”, diretta da Augusto Benemeglio, nel 2002. “Ho scritto questi versi”, affermava l’autore in quel libro, “perché da anni, nelle lunghe e silenziose notti invernali, quando il freddo trafigge le carni, faccio un sogno dentro al quale numerose sono le immagini del Salento; esse a volte mi svegliano di soprassalto e mi spingono a ‘volare’ ad occhi aperti su quel tratto di costa denominato Palascìa, tra Otranto e Porto Badisco. Questo è un luogo caro alla memoria, perché per lungo tempo l’ho frequentato assieme ad Antonio L.Verri, ed anche assieme a Salvatore Toma. Verri aveva paura di salire sulla torre, a Salvatore, invece, quell’unica volta che venne con noi, gli interessò solo guardare il mare.” “Crepuscolo nel mare di Gallipoli”, tolta dal libro omonimo pubblicato da Maurizio nel 2004 , per la collana “I poeti de L’uomo e il mare’”, è dedicata “ad Anxa messapica prima che romana, ad Augusto Benemeglio che la vide come ‘isola della luce’ e ad Ernesto Barba che l’amò sempre”.
Questo testo costituisce una grande dichiarazione d’amore nei confronti di Gallipoli, poiché il tugliese Nocera ha trascorso molta parte della sua infanzia -adolescenza nella città jonica, da cui proveniva la sua famiglia. Ed anche oggi, egli che vive a Lecce, rimane legatissimo alla “città bella”.
Il richiamo delle sirene gallipolitane ha sempre esercitato una attrazione irresistibile per il poeta Nocera ed i ritorni a Gallipoli sono sempre forieri di belle novità, di piacevoli incontri, di proficui scambi e di ottime ispirazioni. Balenano, nella notte gallipolina, fra il borgo vecchio e la città nuova, fra il Grattacielo e il mare, fra la Fontana Greca ed i bastioni, fra le mura ed il porto, lampi di genio, magiche alchimie che solo gli animi più sensibili riescono a percepire, e sembra che il destino, quel fato stravagante che avvolge la città di Gallipoli con il suo notturno mistero, abbia in serbo chissà quali nuove e coinvolgenti esperienze . Tutto ha un canto a Gallipoli, e Nocera lo avverte fra i palazzi nobiliari e le strette stradine del borgo, fra i vicoli, le corti e i bassi della città vecchia, sulla spiaggia della Purità o su quella della Baia Verde, fra le scuole ed i mille ristoranti, fra i negozi di Corso Roma e Punta Pizzo, o sulle paranze al largo. “Mattanza di pini! Bambini” è una poesia incentrata sull’abbattimento voluto dall’Amministrazione Comunale di Lecce nel 2003 dei pini secolari che si trovavano sul Viale dell’Università, oggi ribattezzato dall’autore “Viale dei pini recisi”, e le immagini della orrenda mattanza si intrecciano, nel testo, con quelle dei bombardamenti anglo-americani in Iraq, in una sequenza quasi cinematografica in cui Lecce e Baghdad diventano teatro di identici eccidi.
“Figli, vostro padre uccidete/ La lama del tenente” è un poemetto di Maurizio Nocera ispirato al noto capolavoro teatrale di William Sheakspeare, “Giulio Cesare”. In questo testo, già pubblicato nel libro omonimo edito nella collana “I quaderni del Bardo” (2004), Nocera si rifà al grande Bardo del Seicento ed al suo famoso dramma, mutuandone temi ed accenti, per svolgere, traendola dalla storia romana, una trama che invece ha del moderno e dell’universale. Il tema è quello della tirannia che, da sempre, nega all’uomo il bene più prezioso, vale a dire la libertà, e quindi del tirannicidio, visto come unica via per restituire ai cittadini i loro più elementari diritti , cancellati dall’oppressione dittatoriale. Solo che, come nell’alto modello di riferimento di Nocera, il tirannicidio, in questo caso, è anche parricidio, ed assume quindi una doppia valenza, fortemente simbolica, colorando con tinte ancora più fosche un quadro già di per sé tetro che, con pennellate forti e decise, l’autore del libro ha saputo comporre.
“Tu figlia non eri ancora nata” è dedicata a Tuglie, l’ameno borgo natìo del poeta. “Gocce di rugiada” e “Illuminato a Galatina” sono testi più brevi, dedicati rispettivamente a “Ciccio e Tore Pappalardi”, protagonisti di un drammatico fatto di cronaca nera avvenuto a Gravina di Puglia qualche anno fa, e a Carlo Caggia, valente intellettuale galatinese, in occasione della sua scomparsa. C’è spazio ancora per “Donna meticcia che dona amore”, “Non poesia per Carmelo Bene”, figura fondamentale e grande passione letteraria di Maurizio, che al genio salentino del teatro dedica anche la successiva “L’arsapo che volò”; ultima poesia, “Terra d’ulivi a Casarano”, dedicata ad un incontro occasionale con una rom di nome Maria. A fine libro, dopo le Note, si trova una Postfazione di Antonietta Fulvio. Maurizio Nocera, “questo vivace Sant’Antonio salentino”, come lo ha definito Mario Lunetta, ci ha saputo regalare un gioiello di sintesi ed alta espressività lirica di cui mi è piaciuto riferire in questa nota.
in “Presenza Taurisanese”, aprile 2013