LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO DI FINE OTTOCENTO
TERRA TI CARENULE
Le calendule, simboliche deus ex machina della fortuna contadina
e, di riflesso, fiori emblematici dello stato padronale
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
(…) Se, tanto per fare qualche esempio, a calura già esplosa [i contadini] vedevano un campo di grano maturo punteggiato da cespi di papaveri, molti dei quali ancora in boccio, non avevano dubbi: quella era terra néura grascia (terra nera grassa), cioè talmente ricca di succhi e sali minerali da reggere imperterrita il risucchio del sole e non accusare impoverimento neppure in seguito allo sforzo di inchjtùra (riempitura delle spighe). Al contrario, se la stessa accensione di papaveri la notavano prematuramente, cioè sul finire di aprile quando il grano cominciava appena a spigare, il loro giudizio era tassativamente negativo: quella era terra russa subbràna ca fila sperta ma no rrìa a ttissìre (zona di terra rossa a strato superficiale, svelta nel filare ma incapace di giungere alla tessitura), cioè terreno che col sopraggiungere della calura si inaridiva, per cui il seminato – che in prima fase appariva rigoglioso – alla resa dei conti si rivelava rrisicàtu (stento, non florido), compensando la fatica del coltivatore con ccota mazza ti spiche ummàte a mmiénzu (raccolto magro di spighe piene solo a metà).
“Ricitéddhra ca nasce a ttigna / terra a scuppatùre ca no bbole igna” (“Dove il convolvolo nasce a tigna [a chiazze isolate] è terreno dal sottosuolo discontinuo nella composizione, non adatto alla coltivazione del vigneto”), sentenziavano passando d’estate davanti a un campo che appariva solo qua e là punteggiato dalle campanelle bianche del convolvolo, intendendo per discontinuità del sottosuolo la presenza di carisciòle ti critàzzu (tracciati cretosi) che, per essere inserite in un contesto di terra nera, vietavano al terreno la necessaria uniformità nella reazione termica. Impiantando vigneto, ne conseguiva che al momento della vendemmia si registrava lo stesso effetto accusato dalla rada fioritura del convolvolo, cioè la sgradevole alternanza di ceppi la cui uva era già mpassulàta (stramatura, passita) a ceppi con grappoli di ua culirùssa (uva a culo rosso, cioè ancora acerba, non del tutto annerita e quindi lesiva alla mostatura).
La graduatoria di un terreno veniva sempre rapportata alla sua adattabilità all’impianto del vigneto, la cui coltivazione, per essere a lungo termine e comportante un notevole sforzo economico (per almeno tre anni non dava prodotto), di per sé imponeva un’oculata scelta di allogamento, la migliore naturalmente, quella di una terra non soltanto nera, ma profonda e omogenea nella composizione del sottosuolo. Triade qualitativa rivelata dall’allignare spontaneo delle calendule, la cui presenza era indice ritenuto talmente sicuro da assurgere a figurazione antonomastica. Volendo accreditare la massima fertilità di un terreno bastava infatti dire terra ti carénule, rinunciando in partenza a ogni esplicazione aggiuntiva, non esclusa la stessa dislocazione del fondo, la cui precisazione risultava superflua, poiché una volta detto terra ti carénule lo si era implicitamente localizzato nella mappa piuttosto esigua delle terre migliori. Un sintetico modo di dire che, in virtù dei suoi sottintesi, aveva scavalcato i limiti della semplice e pure disamina qualitativa, ponendosi a magica chiave della fortuna contadina e quindi entrando di diritto nel corpus delle propiziazioni, fossero queste agite in forma corale o individualmente.
Quando alla nascita di un figlio maschio il padre contadino, dopo averlo come di uso immerso in un bacile colmo di vino, lo sollevava in alto chiedendo a Dio “Bbinitìcine li razze ca la zappa pisa” (”Benedicigli le braccia perché la zappa pesa”), tutti i presenti si precipitavano a ripetere “Pi’ tterra ti carénule, pi’ tterra ti carénule” (“Per terra di calendule”, cioè per terreno fertile). Augurio che andava rinverdito allorché il ragazzo, ormai cresciuto e quindi giudicato bbuénu a ttinìre lu passu (buono a tenere il passo, ossia a mantenere il normale ritmo di zappatura), veniva per la prima volta condotto a giornata, ossia aggregato a una squadra di lavoranti. “A’ spinchjulàtu nn’àuru scarufatérra” (“E’ cresciuto, è maturato un altro inghiotti terra [zappatore]”), diceva il padre presentandolo ai compagni di lavoro, e mettendogli la zappa davanti ai piedi lo esortava: “Uégghile bbene, ca éte lu pane tua” (“Voglile bene, perché rappresenta il tuo pane”). Sulla lama di quella zappa – che era stata acquistata ad hoc come simbolico inizio di dotazione – tutti gli zappatori presenti si premuravano di sputare, levando la destra in alto e ad ogni sputo ripetendo: “Cu àggia a scarufàre terra ti carénule!…” (“Che abbia a inghiottire [zappare] terra di calendule!…”). L’ultimo a sputare era il padre, ma non sopra la lama della zappa, bensì fra i palmi delle mani che il figlio gli presentava sistemate a coppa in un gesto quasi timido che era di raccolta e di offerta insieme: offerta di se stesso alla volontà paterna e raccolta di un’eredità, anzi travaso di un’identità – sempre quella paterna – della quale la trasmissione di mestiere era il nesso più evidente nonché il punto focalizzante una possibile crescita nell’intesa.
Non era certo la prima volta che il padre gli insalivava le mani: nell’intenso apprendistato eseguito in privativa sul proprio campo, ripetutamente l’uomo era ricorso a quel gesto al fine di abituare il ragazzo a iniziare il lavoro, come di uso, sputandosi fra le mani per addolcire l’attrito fra palmi e manico di zappa; ma quella che nel tu per tu era stata semplice mossa d’insegnamento, eseguita nel contesto del rustico cerimoniale acquistava un significato diverso, tanto più ampio e profondo in quanto fondeva il latente esoterismo dell’iniziazione-propiziazione alla concretezza della vita , il tutto sottolineato dalla frase conclusiva dello stesso padre: “Nférrate a llu margiàle e ccrisci an core terra ti carénule” (“Afferrati al manico della zappa e alimenta, accresci nel tuo cuore il desiderio di possedere terra di calendule”).
Che questo desiderio mettesse radici nel cuore dei giovani zappatori, via via convertendosi in mitico traguardo, si poteva star certi, anzi se ne aveva la prova nel loro maturare atteggiamenti di rispetto verso le calendule, alle quali non chiedevano soltanto aggiornamenti meteorologici (se si schiudevano all’alba cielo sereno; se dopo la levata del sole tempo variabile; se permanevano chiuse temporale in vista), ma addirittura una sorta di tacita complicità, come se dal rapporto con le loro corolle dipendesse il perseguimento della buona sorte.
Per l’uomo di oggi, abituato a configurare la buona sorte nel miraggio di vincite miliardarie – varco al sogno elettrizzante di una vita edonisticamente consumistica -, risulta incomprensibile questo inseguirla a petali di calendule, ma se ci si ferma a considerare come nel contesto della miseria il pensato quotidiano si raccoglieva attorno al recupero dello stretto necessario, si può capire il perché la buona sorte venisse enucleizzata nel concetto dell’abbondanza, peraltro sperabile solo attraverso il possesso colonico di una terra fertile. Un’aspirazione che valutata in parametri odierni – tenendo conto anche del decadimento del reddito agricolo – può apparire irrisoria, ma che per i coltivatori dell’Ottocento rappresentava una conquista ambita quanto difficile – l’estrazione di un biglietto della lotteria, appunto -, non dimenticando che tale conquista si tentava nell’ambito di un contrasto irrisolvibile fra richiesta e offerta, ossia fra la limitata disponibilità delle terre nere e il desiderio di un popolo a stragrande maggioranza contadina. Oltretutto, riuscire in tanta impresa equivaleva a riaffermare vittoriosamente le proprie qualità di coltivatore, essendo arcinota l’oculatezza dei padroni nel dare in colonìa le loro terre migliori. Ne conseguiva che all’oggettivo miglioramento economico si aggiungeva un ringalluzzimento morale che, soprattutto nei giovani, agiva da sprone, rendendoli più sicuri e quindi più intraprendenti. Tanto per cominciare, se erano ancora scapoli, entravano di fatto nel novero dei buoni partiti e potevano puntare a chiedere in matrimonio una ragazza ndutàta bbona (con una buona dote), nella certezza che ai futuri suoceri non sarebbe sembrato vero concedere la figlia a chi vantava lu bbinifìciu ti nna terra néura (il beneficio [prodotto] di una terra nera).
“L’imu fatta zzita cu nnu striu ca tene sucu nìuru…” (“L’abbiamo promessa a un giovane che ha sugo nero… [entrate da terra nera]”), avrebbe detto la madre annunziando alle comari il fidanzamento della figlia, felice se, a conferma delle sue grandi speranze, queste le rispondevano cerimoniose: “Bbinitìca, bbinitìca… asu ti bbona sorte… ca cinca ti striu si la pistìscia intra’a terra néura, carrittòne a ccuécchiu lu spetta!” (“Benedica, benedica… bacio di buona sorte… perché chi da ragazzo si aggira [lavora] fra terra nera, carrettone trainato da una coppia di bestie lo aspetta!”). Replica di convenienza tesa a mascherare l’insorgere dell’invidia, ma che in sostanza rifletteva l’opinione comune circa il progressivo cambiamento di posizione che tale colonìa avrebbe agevolato: vivendo in quel clima di austerità – praticata anche nell’agiatezza come indice di ordine morale – e con l’aiuto di una moglie piccòsa (parsimoniosa, industriosa), nnu culòne ti terra néura (un colono che coltivava terra nera) riusciva sempre a mmuccàre lu cippu (a infilare monete nel salvadanaio), per cui, se non si trovava con figlie in età da marito alla cui dote dover devolvere i risparmi, poteva permettersi di prendere dei terreni in fitto, la cui quota annuale si intendeva a pagamento anticipato e perciò accessibile solo a chi si putìa calàre la manu am pòsciu (si poteva mettere la mano in tasca), cioè disporre della somma ancor prima del raccolto. Una prima mossa di riscatto dalla subalternità che lo portava di fatto a entrare nella categoria dei razzàli (gli odierni coltivatori diretti), ma che pur se significativa come incipienza di un nuovo stato, richiedeva ulteriori conferme di assestamento prima di riscuotere il pubblico riconoscimento, prova lo specifico detto “Prima ca lu chiàmi razzàle spetta e bbi’ ci ale” (“Prima di chiamarlo razzàle aspetta e vedi se merita di essere chiamato tale”).
Meritare la qualifica significava non adagiarsi sulla posizione raggiunta, bensì incrementarla, via via segnando le tappe poste all’interno della categoria e curiosamente espresse attraverso simbolici riporti alimentari: se il razzàle-fittuario continuava, come il colono, a essere definito mangiafàe (mangia fave), quello che riusciva ad acquistare nnu quarche àstricu ti chésia (un qualche impiantito di chiesa), ovverosia un terreno a enfiteusi (di solito si trattava di fondi rustici facenti parte di lasciti religiosi), passava ipso facto a mangiapisiéddhri (mangia piselli), per poi raggiungere – se lo raggiungeva – il prestigioso appellativo di mangiapasùli (mangia fagioli), tributato solo a chi arrivava a possedere terra netta am piéttu sua (terra libera da ogni gravame intestata a suo nome).
Questo non perché i coloni non mangiassero mai piselli e fagioli, o i razzàli, una volta arricchitisi, disdegnassero di mangiare fave, ma perché volendo stabilire una graduatoria in termini di possibilità economiche, tornava facile nonché eloquente fissarne il parametro nel costo delle leguminose, alimento base della vita contadina. I fagioli erano infatti i legumi più costosi, per cui attribuire a un razzàle la caratteristica di cibarsene abitualmente equivaleva a riconoscerlo bbeddhru còmmutu (ben comodo), ossia benestante. Un riconoscimento tanto più importante in quanto schiudeva alla speranza di un successivo avanzamento di categoria, anche se questo, quasi per un’obbligatoria chiusura di cerchio, tornava a essere subordinato al mitico traguardo ‘terra nera’: se un razzàle-mangiapasùli, per fortuita congiuntura – quale poteva essere il dissesto finanziario di un signore, la messa all’asta di un’eredità fonte di contese o le più ricorrenti alienazioni dei lasciti religiosi – riusciva ad assicurarsi l’acquisto, sia pure scaglionato nel tempo, di pezzi di terra nera ammontanti a mille porche ‘ncruciàte (misura traducibile in mille metri quadri, ma più che altro usata a simbolica cospicuità di valore), acquistava diritto al titolo di patrùnu (padrone), ovverosia entrava a far parte della categoria dei ricchi che, pur se debitamente distanziata da quella dei nobili, rappresentava la punta massimale di una possibile escalation contadina.
Era proprio a questo agognato punto di arrivo che intendevano alludere le comari allorché, rispondendo compiacenti all’annuncio del fidanzamento, parlavano di carrittòne a ccuécchiu. Un augurio che non poteva non essere recepito da chi, succube di un protocollo discriminatorio, sapeva quanto il mezzo di trasporto fosse il distintivo primario dell’appartenenza a una determinata categoria e quindi il referente più visibile e più gratificante dell’avvenuto mutamento socio-economico. Per il misero sciurnaliéri (giornaliero) era normale fare chilometri e chilometri a piedi, recando sulle spalle gli arnesi da lavoro o addirittura la legna provvidenzialmente racimolata al margine dei campi, ma nel momento che infrangeva lo steccato della miseria entrando in qualità di colono alle dipendenze di un signore o ricco proprietario, gli suonava vergogna non avere un’asina sulla quale montare e della quale servirsi per il trasporto dei prodotti. Allo stesso modo, passando da colono a razzàle, trovava disdicevole continuare a servirsi di ciùccia e ‘ncine (asina con sellatura particolare comprendente due seggiolini laterali) e affrontava qualsiasi sacrificio pur di adeguarsi alla categoria che ora rappresentava e le cui normative di decoro richiedevano caddhru e ttrainélla (cavallo e carretta). Infine, per i pochissimi che riuscivano a inserirsi nell’area rispettabile dei patrùni, scattava un ulteriore aggiornamento il cui referente di rincaro qualitativo poggiava sull’evidenza di un raddoppio: non un cavallo, ma un tiro a due; non la semplice carretta provvista di un solo sedile a panca, ma un carrettone che, stante la sua lunghezza, permetteva più ordini di sedili e quindi si prestava a quello che il popolo definiva “Passìu ti lu ‘nteru patrunàle” (“Passeggiata dell’intero nucleo familiare del padrone”).
Ricorrendo alla parola “Passìu”, in altre espressioni verbali usata come sinonimo di vagabondaggio, si voleva sottintendere il superamento del concetto “veicolo = mezzo di lavoro”, non più applicabile a chi, dall’alto della sua ricchezza, poteva permettersi più dipendenti ai quali affidare i mezzi di trasporto per le derrate. Nello stesso tempo, anche se all’iniziale acquisto delle mille porche di terra nera ne avesse aggiunte altre diecimila, o se avesse fatto parte di una famiglia di patrùni da più generazioni e quindi con un patrimonio di oliveti, masserie e palazzi equivalente se non addirittura superiore a quello dei nobili, non si sarebbe mai permesso di ricorrere alla carrozza: in virtù di quel protocollo che di ogni strato sociale stabiliva diritti e limiti, sarebbe suonato di scandalo, quello che accusò appunto la classe signorile quando ai primi del Novecento, avvertendo i prodromi di un liberalismo che avrebbe progressivamente portato all’equiparazione sociale, qualche patrùnu si permise di sostituire il carrettone con uno sciallabbà [1], per poi – Ggèsu Ggèsu, no nc’è cchiù mmunnu!… A ddo’ scià spicciàmu ti stu passu?! (Gesù Gesù, non c’è più mondo!… Dove andremo a finire di questo passo?!) – passare audacemente all’acquisto di un bricchi [2], mezzo di appannaggio signorile, pur se di seconda categoria.
Adibiti a esclusivo trasporto persone e in un certo qual modo collegati alla presenza femminile delle padrone, i carrettoni venivano fatti oggetto di accorgimenti estetici da parte dei costruttori, impegnati a differenziarli dai comuni e vari carri agricoli: il terminale superiore delle sponde non era mai pesantemente squadrato come quello dei traini, ma si ammorbidiva in lievi ondulazioni che, a metà carro, per camuffarne l’eccessiva lunghezza, s’interrompevano consentendo alla stessa sponda la fuoriuscita di un fregio, quasi sempre bucherellato e di forma circolare; i sedili non si adeguavano alle rozze panche delle carrette, ma avevano spalliera a traverse e, non di rado, braccioli a volute di ferro; i montatoi non erano a unico staffone ma a più predellini, ribaltabili come quelli delle carrozze; e ad appendilanterna non il rustico chiodo ricurvo infisso sotto l’impiantito, bensì due ganci sistemati ai terminali della sponda posteriore. La nota però più caratteristica – e che maggiormente interessa ai fini del nostro discorso – era la verniciatura, eseguita con criteri, se non certo di sfarzo, quanto meno di riporto alla intesa attestazione di un’opulenza, il cui privilegio si voleva coglibile a primo sguardo: al contrario dei carri dei trajniéri, che pur se decorati conservavano a colore di fondo l’originaria rustichezza del legno, i carrettoni venivano interamente pitturati, di solito ricorrendo a quel verde nerastro che, per essere usato nella tinteggiatura di portoni e cancellate, veniva ritenuto colore da ricchi. Una campitura che nel tutto pari sarebbe risultata monotona se non addirittura lugubre, ma che acquistava innegabile bellezza utilizzata com’era a sfondo di fitte decorazioni floreali sempre mantenute sui toni del giallo. E poiché a costruire questi carrettoni non erano i comuni carpentieri, la cui competenza di fermava ai carri agricoli, bensì gli esperti e raffinati artigiani di Nardò – gli stessi ai quali si doveva il pregiato manufatto delle carrozze signorili -, c’è da credere che il sistematico ricorso alle decorazioni gialle fosse dettato unicamente dalla ricerca di un felice accordo cromatico; ma per i contadini, abituati a giudicare i carri dei trajniéri tanto più belli quanto più imbrattati da un’accozzaglia di tinte, questo mantenersi nel monocromo non poteva avere altra scusa se non un voluto, chiaro e doveroso riferimento alle amate calendule, simboliche deus ex machina dell’arricchimento e, di riflesso, fiori emblematici dello stato padronale.
Che in quelle decorazioni i contadini ravvisassero un allegorico explicitum della fortuna, tanto da convertirle in propizia immersione nell’immaginario di un proprio riscatto, emergeva dal loro premuroso raccogliersi attorno a un carrettone, adunata che camuffavano come atto di doveroso rispetto verso il padrone rriàtu sobbra’a llu fondu a cumannàre (arrivato sul fondo a comandare), ma in realtà vissuta a livello di contaminazione magica: al pari delle donne, che si servivano del grembiule per lucidare le scarpe alle nobildonne reduci da una passeggiata sui viottoli campestri, segretamente devolvendo il gesto a superstiziosa ‘ncuddhràta ti bbona sorte (assorbimento di buona sorte), così loro amavano strisciare le coppole sulle fiancate del carrettone, nell’apparente premura di liberarlo dalla polvere – della quale erano prodighe le strade di allora, fatte di pietrisco e sabbione battuto – ma in effetti intendendo affatturarsi con la ricchezza, rappresentata appunto dal giallo delle decorazioni floreali. Un’azione non equivocabile nelle sue recondite intenzioni se si tiene in conto il ricorso alla coppola, le cui funzioni di copricapo venivano viste a misura di commistione con l’attività mentale di chi la indossava. Non a caso la si soprannominava ccuegghimalòte (raccogli scarafaggi), ncarracintrùni (batti chiodi) e menza capu (mezza testa), chiaramente togliendola al ruolo passivo di innocente spettatrice e facendola entrare di fatto non soltanto in un assunto diagrammatico dei pensieri, ma addirittura in un preciso compito di reggenza, ossia eleggendola a chiave di condizionamento degli stessi.
Negli scarafaggi, insetti oltremodo schifati per il loro prolificare nei cumuli di letame, venivano simboleggiati i cattivi pensieri, le preoccupazioni e i nervosismi, per cui la coppola, stando a diretto contatto con la testa, se ne intrideva, metaforicamente riempiendosi di malòte. Impianto processuale che non si limitava alla dimensione esterna dell’immagine, ma continuando nell’automatismo analogico mediava corrispondenze interne, evolvendosi da semplice oggettivazione figurativa in avvertimento di igiene spirituale: come gli scarafaggi, sguazzando nell’immondizia, venivano ritenuti veicoli d’infezioni, così al male rappresentato dall’inquietudine mentale si attribuiva la capacità di propagarsi per contagio, attraverso la coppola appunto, che per essere culu e ccamìsa cu llu ciriéddhru (culo e camicia col cervello) rappresentava la più potente delle fonti di trasmissione. Di qui un condizionamento psicologico che sul piano comportamentale si concretizzava in un preconcetto rifiuto a servirsi della coppola altrui e contemporaneamente in un senso di scrupolo a prestare la propria, tant’è che se per una qualsiasi svista si addiveniva a uno scambio, nel momento in cui ci si accorgeva dell’involontario errore scattava l’obbligo di chiedersi reciprocamente scusa, come si trattasse di un’offesa. “No ll’àggiu fatta amposta” (“Non l’ho fatto apposta”), si precisava con tono mortificato e, quasi a sdrammatizzare l’accaduto, con la mano ci si spazzolava comicamente i capelli, accompagnando il gesto con una frase in bilico fra il faceto e l’esorcistico: “Sciò, sciò, sciò, ognùnu cu ssi tegna li malòte sua!” (“Sciò, sciò, sciò, ognuno che si tenga i propri scarafaggi!”). Allo stesso modo, se un bambino si calcava per gioco la coppola del padre – o peggio ancora quella di un estraneo -, la madre era pronta a redarguirlo: “Llétila, fìgghiu mia, llètila fucénnu, ca no ppuéti sapìre quante malòte tene!”! (“Toglitela, figlio mio, toglitela di corsa, perché tu non puoi immaginare quanti scarafaggi contiene!”)
In tale dinamica, ossia attestando in parallelo con l’assorbimento la capacità di un rimando, la coppola passava da ccuegghimalòte a ncarracintrùni, assumendo questa volta una complicità non più condotta in termini di subordinazione (succube raccoglitrice di scarafaggi), bensì in funzione di dominio: martello che conficca chiodi.
Per comprendere quanta diversità di base ci fosse nei due appellativi, va notato che, gergalmente, per cintrùni non si intendevano i comuni chiodi (chiuéi) usati in falegnameria e – per la loro compromissione con la chiusura delle bare – simbolicamente agiti come espressione di negativo (chiuéu era un debito, un nemico, una malattia, una pena in genere), bensì i pioli di ferro a gambo quadrato e con larga capocchia forgiata a mano dai fabbriferrai e ritenuti benedetti perché uguali a quelli della crocifissione di Cristo. Adoperati in carpenteria quale massimale di garanzia nel sostegno di una qualsivoglia struttura pesante e quindi emblema della stabilità di un impianto, più esattamente di una perpetrata fissità, nel nostro caso li cintrùni venivano a porsi come controfigura di pensieri saggi, importanti, programmatici, ossia collegati alla sfera di un positivo che si voleva ncarràre (conficcare, spingere) nel cervello al fine di agevolarne il realizzo. Una ‘missione’ da affidare alla coppola naturalmente, eleggendola a segreto ripostiglio di testi evocatori e perciò capace di generare valori d’eco, ivi compresa quella forma di suggestione che la stessa presenza del teste scatenava entrando – automaticamente – in simbiosi col preordino intenzionale.
Va da sé che la specificità di tali testi era in rapporto all’obiettivo da raggiungere, per cui nello svariare degli interessi e più ancora per quella caratteristica mentalità popolare totalmente refrattaria alla concezione di un aiuto a fonte univoca, all’interno della coppola – tra fodera e tetto – spesso veniva a crearsi un habitat di presenze oggettuali i cui campi di riferimento potevano dirsi in netta opposizione. Accanto alla medaglietta sacra (la spiràgghia), riconosciuta tramite di celesti protezioni, o nascostavi da una moglie desiderosa di convertire il marito bestemmiatore, trovava bellamente posto lu pasùlu spiùru (il fagiolo bianco ibrido) le cui anomale macchie scure, ritenute spruzzi escrementizi del diavolo, assicuravano a chi lo portava addosso la benevolenza degli spiriti maligni, dicat il loro aiuto nel realizzo delle covate aspirazioni di ordine materiale. Il tralcetto di gramigna annodato tre volte, al quale ricorrevano le madri per proteggere i figli da infidi trameggi femminili, si trovava a tu per tu col più classico dei pegni d’amore, cioè la furmeddhra (il bottone) che la ragazza appositamente staccava dal più intimo dei suoi indumenti, raccomandando all’amato: “Intra’a lla còppula ti ll’à ttinìre, intr’a lla còppula” (“Nella coppola la devi tenere, nella coppola”). Di contrasto alla ciocca dei capelli della moglie defunta, che già in sede di veglia funebre il vedovo pubblicamente infilava nella coppola, altrettanto pubblicamente protestando “Intr’a llu cirieddhru mi li mentu cu nno mmi nni pozzu mai scirràre” (“Nel cervello me li metto affinché non abbia mai a dimenticarti”) c’era sempre un pezzetto d’unghia che lo stesso vedovo segretamente rifilava al proprio alluce destro, questa volta mentalmente ripetendo: “Cu nno mm’aggia a cchiamàre prima ti lu tiémpu” (“Ché non abbia a chiamarmi prima del tempo”). La ciocca di capelli infatti poteva generare un’affatturazione con la morta, la quale – facendo di quella presenza memoriale una forma di richiamo – avrebbe potuto provocare nna sicutàta a ppassu spiértu (un seguito a passo svelto = morte del marito in breve tempo). L’unghia invece, incarnando il simbolo della continuità, anzi della crescita, valeva a ristabilire il diritto alla vita del superstite, un proseguimento nel cammino terreno – come la crescita dell’unghia appunto – reso più esplicito dalla chiamata in campo del piede destro, antonomastica immagine di consapevole inizio, in questo caso di coraggiosa svolta.
La più importante svolta per un vedovo era quella di passare in seconde nozze, decisione spesso inevitabile, pur se sempre difficile: la donna ca si itìa mannare ti nnu cattìu (che si vedeva chiesta in moglie da un vedovo), pur se ormai zzita fatta ca àuru no spittà (zitella matura che aspettava proprio quell’occasione), si facìa cara a bbinnìre (si faceva cara a vendere), accampando mille scuse – troppo vecchio, troppo povero, incomoda presenza di figli – e più che altro facendo valere il timore di non essere tinùta bbona (tenuta bene), in quanto – diceva – “A lli spaddhre ti nnu cattìu pirdùra sempre sursu ti màsciu” (“Alle spalle di un vedovo perdura sempre il sorso di maggio”, ossia l’affetto per la prima moglie), il che avrebbe reso il suo matrimonio no llicrézza t’àjara ma muérsu ccuétu an terra pi bbisuégnu (non allegrezza di aia ma tozzo raccolto a terra per fame). Tutta una furba tessitura per costringere l’uomo a pronunciare esplicite promesse, a suggello delle quali – si sapeva – le avrebbe consegnato la coppola (in questa occasione soprannominata menza capu), autorizzandola a bruciarla quale segno di annullamento del passato, più esattamente di scardinamento del legame affettivo con la prima moglie.
Dopo quanto si è detto, va da sé che in rapporto alle calendule la coppola agiva da ncarracintrùni, e non soltanto per quel suo raccogliere la polvere dalle fiancate del carrettone, ma perché fra i testi ospitati nel suo interno c’era sempre una carénula. Capitava spesso, infatti, di vedere un contadino entrare furtivamente in un campo non suo al semplice scopo di cogliere una calendula e sistemarla all’interno della coppola che poi si ricalcava sulla testa con gesto imperioso, quasi di inchiodamento. Un’operazione ai nostri occhi patetica per la sua ingenua pretesa di ipotecare il futuro, ma alla quale gli interessati concedevano ampia fiducia in virtù di quella combinatoria che veniva a stabilirsi fra azione dimostrativa e processo evolutivo della stessa: se lo spiccare della calendula già di per sé valeva a metaforica appropriazione della terra, il metterla a contatto con la testa, dicat con la ricorrenza del pensiero, stabiliva un prolungamento dell’azione magico-simbolica, tenendo presente che il fiore sarebbe rimasto nella coppola per mesi, forse per anni, teste prezioso di un’aspirazione – avere in colonia terra buona – che andando alla radicalità dei segni poteva, con la forza di richiamo esercitata dalla sua presenza, convertire il sogno in realtà.
[1]
Sciallabbà (deformazione del francese char-à-bancs): rustico biroccio che nella versione salentina – un solo sedile a due posti – era ad uso privato. Solo verso il 1920, quando i signori più ricchi o più emancipati, per essere entrati in possesso dell’automobile, ne fecero svendita, venne corredato di un’altra panca e usato quale mezzo di trasporto pubblico popolare.
[2]
Bricchi (dall’inglese break): carrozza a carattere utilitario, nella versione salentina decappottabile attraverso due mantici a forma quadrata e con unico ingresso a tergo. Anche questa passata in mano ai noleggiatori dopo l’avvento dell’automobile. Poteva trasportare otto-nove persone.
Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994
(Capitolo Li mànuretiSantuItu, pagg. 173-184)