di Armando Polito
Nonostante il nome carciofo (Cynara cardunculus scolymus L. 1 ) derivi dall’arabo kharshūf, questa pianta nella sua varietà selvatica (Cynara cardunculus L.) era ben nota agli Egizi e i Greci e i Romani se ne cibavano. Qualcuno ritiene che la presenza endemica di questa specie selvatica non esclude la possibilità che il carciofo abbia avuto origine, addirittura fin dal I secolo d. C., anche in Italia, proprio dalla sua domesticazione.
Dopo aver detto che carciofo in dialetto neretino è scarciòppula2 e che alle testimonianze antiche su questo ortaggio dedicherò prima o poi uno spazio infinitamente superiore rispetto a quello riservatogli oggi, passo rapidamente a far onore al titolo.
Scalèra è il nome dialettale del Cynara cardunculus. Il Rohlfs nel secondo volume del suo vocabolario si limita ad invitare ad un confronto con il calabrese scalièru=cardo selvatico. L’illustre studioso, poi, nel terzo invita ad un confronto, questa volta con il greco σκαλἱας (leggi scalìas)=testa di carciofo.
Aggiungo io che la voce σκαλἱας è attestata in Teofrasto (Historia plantarum, VI, 4, 11) e che probabilmente è connessa con l’aggettivo σκαληνός (leggi scalenòs)=irregolare disuguale, scabro (da cui scaleno, detto di un tipo di triangolo, la figura geometrica …), che è certamente dal verbo σκάλλω (leggi scallo)=sarchiare, dalla cui forma iterativa σκαλίζω è derivato il neretino scalisciare (usato nel significato di razzolare e, con riferimento all’uomo, anche al mangiare svogliatamente mortificando con le posate il cibo nel piatto).
Rischio pure io, come il Rohlfs con i confronti proposti, di aggirarmi solo attorno all’ostacolo senza superarlo. Perciò dico subito che scalèra non è altro che la trascrizione del greco ἀσκάληρον (leggi ascàleron) attestato in Ateneo (I deipnosofisti, II, 28), con passaggio dal neutro plurale con valore collettivo al femminile singolare. Lo spostamento dell’accento e il passaggio dal neutro al femminile mi fanno pensare ad un intermediario latino *ascalèra (spostamento di accento perfettamente coincidente con il passaggio da η ad ē) neutro plurale con valore collettivo (da cui, poi, il passaggio al singolare di scalèra) attraverso la trafila *ascalèra>*l’ascalera>la scalèra (deglutinazione di a– inteso come componente dell’articolo)>scalèra.
Che poi ἀσκάληρον possa, secondo me, essere considerato come derivato da σκαλἱας con aggiunta in testa di α- (con valore copulativo) e in coda di un suffisso aggettivale, conferma ancora una volta la grandezza del filologo tedesco, ma anche il detto oraziano quandoque bonus dormitat Homerus (ogni tanto pure Omero si appisola) dal momento che ἀσκάληρον è presente nel vocabolario del Rocci, che ai suoi tempi (e pure ai miei, purtroppo …) era quello di riferimento (e lo sarebbe stato per qualche altro decennio).
Se l’individuazione dell’etimo non è stata, tutto sommato, complicata, resta fastidiosissimo per motivi facilmente comprensibili, anche per chi, appartenendo ad una certa generazione (intesa pure come sistema educativo …) in passato qualche volta l’ha fatto, raccogliere le scalere e mondarle. Prepararle, invece, non è affare … spinoso e il successo è assicurato, almeno presso chi ancora non ha le papille gustative devitalizzate dai sapori (?) di oggi.
Per passare dalla scalèra al carciofo dovettero trascorrere probabilmente molti secoli. Nelle foto che seguono, intanto, esibisco orgogliosamente i carciofi (razza indigena … ) del mio orto. Il solito invidioso osserverà che avrei fatto meglio a raccoglierli un po’ prima. Può darsi che abbia ragione, ma ormai è fatta, anzi me li son fatti, alcuni crudi, altri lessi, altri ancora alla sciutèa (la preparazione non coincide minimamente con la ricetta romana dei carciofi alla giudìa).
Molto meno tempo è occorso per passare dal carciofo al Cynar, nato nel 1952 e impostosi prepotentemente sul mercato grazie anche agli spazi pubblicitari sulla carta stampata.
Poi venne mamma tv e, allora, come non ricordare, di fronte a certa pubblicità di oggi che vuole essere subliminale ma che a me appare demenziale e suscita l’effetto opposto a quello che intendeva scatenare, i siparietti del mitico Carosello, sviluppo delle precedenti inserzioni, in cui protagonista era una bottiglia del nostro liquore a disposizione di un rassicurante Ernesto Calindri intento a leggere il giornale surrealmente seduto ad un tavolino posto nel bel mezzo di un infernale (oggi lo dovremmo definire apocalittico) traffico cittadino?
Esiste, oggi, contro il logorio della vita moderna, un novello Cynar che non sia un drastico cambiamento di vita? Ci salveremo procedendo a ritroso, dal Cynar e dai suoi tanti succedanei (tra cui le erbe non propriamente officinali …) al carciofo e da questo alla scalèra?
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1 Cìnàra (o cýnara) è voce attestata in Columella e in Plinio; per quanto riguarda il mondo greco κινάρα (leggi chinàra) è attestato in Dioscoride e Ateneo e κύναρος (leggi chiùnaros) in Sofocle e in Ateneo; probabilmente entrambe sono connesse con κύων=cane (le brattee ricordano i denti dell’animale). Scòlymus è voce attestata in Plinio; per il mondo greco σκόλυμος (leggi scòliumos) è attestato in Esiodo, Dioscoride, Teofrasto e Ateneo. Le due voci ricordate sono usate sempre, nonostante gli scarni dettagli descrittivi, in riferimento a varietà selvatiche di cardo. Cardùnculus è formazione moderna, diminutivo del classico càrduus=cardo, costruito sul modello di fur (=ladro)>furùnculum (=tralcio secondario, che sottrae linfa alla pianta: alla lettera piccolo ladro), da cui, per traslato, l’italiano foruncolo.
2 Appare connesso con la variante araba xarshūf per quanto riguarda la s iniziale, per la parte finale sembra modellata sulla formazione coppa>còppula.