di Marco Cavalera
Le pietre raccontano storie millenarie di epoche remote in cui l’uomo raccoglieva i doni della terra e combatteva contro gli animali battaglie quotidiane per la sopravvivenza, mentre le donne svolgevano le faccende domestiche e, come oggi, nutrivano di amore materno la prole.
L’Uomo di Neandertal, il predecessore di Sapiens, non era molto diverso dall’uomo moderno; la corporatura più bassa e tozza gli consentiva di svolgere lavori più fisici che intellettuali.
La forza fisica l’aveva ereditata dall’Homo heidelbergensis ma, allo stesso tempo, aveva sviluppato un cervello più grande che gli permetteva di comunicare, usare il fuoco e scheggiare la dura pietra che utilizzava per molteplici attività. Aveva evoluto anche una buona capacità di pianificazione delle operazioni, ossia poteva immaginare che da un ciottolo informe di materia prima si potevano produrre tanti strumenti di più ridotte dimensioni.
Circa 70mila anni fa una lunga stagione calda stava gradualmente lasciando il posto ad una molto fredda e rigida. Neandertal, avvezzo a non subire i mutamenti della natura, non aveva sofferto particolarmente questo cambiamento climatico. Anche la corporatura si era adattata al clima più freddo con un accorciamento degli arti superiori e inferiori.
Prima che il suo ramo evolutivo si estinguesse definitivamente, aveva convissuto una decina di migliaia di anni con il nostro predecessore Homo Sapiens. Ci fu convivenza, non promiscuità.
Sarebbe mai riuscito l’uomo moderno, autodefinitosi impropriamente Sapiens Sapiens, a convivere con i membri della stessa specie oltre 10mila anni?
Immaginiamoci se fosse esistito già 40mila anni fa: altro che 10mila anni (secolo più secolo meno) di vita in comune, sarebbe riuscito ad eliminare il suo coinquilino in pochi decenni, così come è successo – ad esempio – alle tribù indigene della foresta amazzonica o dell’Africa equatoriale.
Ma la presunta superiorità intellettuale dell’Uomo (in)Sapiens in(Sapiens) ha colpito, a distanza, anche i suoi più antichi antenati. L’arma è stata la più micidiale: l’oblio della Memoria attraverso la distruzione di interi siti archeologici in nome di un progresso che è regressione della civiltà umana, incapace di guardare al futuro (consumo sfrenato di risorse naturali) e ugualmente miope nei confronti del passato.
Facciamo un passo indietro nel tempo di 70mila anni. Nel deserto roccioso e boschivo della penisola salentina, Neandertal aveva scelto Salve.
Il territorio, infatti, presentava tutte le caratteristiche che gli garantivano una sicura sussistenza: ruscelli di acqua dolce, caverne e ripari sotto roccia con vista mozzafiato, tanta selvaggina. Elefanti, iene, rinoceronti, cervi e altre specie di mammiferi ed ungulati scorrazzavano su e giù tra canali e pianori, facendo letteralmente impazzire il povero neandertaliano. La madre dei suoi figli aspettava impaziente l’arrivo del “marito” con la succulenta cena.
Grotta Montani a Salve, così denominata in epoca moderna per il diffuso affioramento di roccia (“munti”), era nel Paleolitico Medio un ottimo rifugio per neandertaliani. Si trattava di un complesso di cavità costituito da un ambiente centrale, da cui si diramavano quattro cunicoli lunghi e stretti, all’interno dei quali il nostro ominide si riparava dal freddo e consumava i pasti.
Il primo ambiente aveva un’enorme apertura rivolta verso il mare, ampio e bene illuminato dalla luce del sole che entrava copiosa nelle ore centrali del giorno. Qui Neandertal scuoiava gli animali e scheggiava meticolosamente nuclei di selce, giunta fino all’estrema propaggine del Capo di Leuca da chissà dove attraverso chissà quali scambi e baratti, da cui ricavava strumenti di pietra di piccole e medie dimensioni che utilizzava per le sue attività quotidiane.
Rinvenire tracce, dirette o indirette, del passaggio dell’Uomo di Neandertal è come trovare un ago in un pagliaio. Nel Salento meridionale, ad esempio, sono state individuate alcune cavità frequentate dai primi uomini della Preistoria salentina: grotta del Bambino a nord – ovest di Santa Maria di Leuca, grotta del Cavallo e di Capelvenere presso Nardò.
Grotta Montani, 40 anni fa (nel 1973), fu oggetto di scavi archeologici che avevano messo in luce una notevole quantità di strumenti in selce e calcare utilizzati da Neandertal, associata ad un numero elevato di frammenti di ossa alcuni dei quali appartenenti ad elefanti, rinoceronti, iene, cinghiali e conigli. Prelibate prede che, probabilmente, insieme ad altre peculiarità come la presenza di sorgenti di acqua dolce per dissetarsi e distese boschive per la raccolta di frutti spontanei, hanno contribuito alla scelta del luogo.
Migliaia di anni dopo sono state altre caratteristiche geo-morfologiche ad attirare l’uomo: la sabbia dorata finissima e il mare turchese limpido, paragonati a celeberrime isole esotiche dell’Oceano Indiano.
Sul pianoro che sovrasta la grotta – recentemente – sono state realizzate delle abitazioni in funzione di “case agricole”, “stalle” per animali di grossissima mole, con vista mare mozzafiato.
Alcuni “ambientalisti” hanno ritenuto che le case siano state realizzate come residenze per turisti danarosi, sfruttando dei regolamenti provvisori (da 30 anni) che permettono di costruire “stalle” e depositi di attrezzi agricoli anche laddove non vi sono terreni utilizzabili a questi scopi ma, guarda caso, distanti solo un chilometro e mezzo dalla sabbia finissima e dal mare limpidissimo.
Non dubitando della buona fede dei costruttori, verrebbe a questo punto da pensare che le abitazioni di località Montani siano state realizzate per ospitare la famiglia di Neandertal, con i suoi elefanti e rinoceronti…vissuti però, a Salve, oltre 70mila anni fa.
Bibliografia di riferimento:
Arsuaga J. L., I primi pensatori e il mondo perduto di Neandertal, Milano 2001.
Febbraro N., Archeologia del Salento. Il territorio di Salve dai primi abitanti alla Romanizzazione, Tricase 2011.
https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/18/grotte-nel-territorio-di-salve-lecce/
L’ironia è d’obbligo, Marco ne è esperto ed è interessante leggere e ridere, se pur amaramente, dinanzi a un excursus storico-antropologico di così raffinata fattura. Tale è la capacità narrativa e attrattiva di Cavalera che leggerlo è un piacere perfino quando i contenuti sono scoraggianti come quelli riportati nel suo scritto.
Al tempo di Neandertal si doveva sopravvivere e basta, un po’ come oggi, con la differenza che i cosiddetti ‘primitivi’ lo facevano senza dare particolarmente fastidio agli altri, salve contenziosi alimentari e territoriali, mentre i cosiddetti ‘moderni sapienti’ sembra che spesso ritengano la propria sopravvivenza indissolubilmente legata alla morte o alla rovina di molti loro simili.
La causa di tutto questo sarà forse una dimensione specifica del cervello simile alla fatidica ‘ora X’?
Chissà!
Sta di fatto che i ‘moderni’ non solo, per certi versi, sono sostanzialmente più remoti degli ufficiali trogloditi, vedi il rapporto con l’ambiente, il rispetto dell’armonia della natura, ma per tanti altri superano ogni immaginazione convinti come sono che distruggere siti archeologici sacri e millenari a favore di casacce in cemento vista mare possa far loro guadagnare il piacere di qualche giorno estivo in libertà e in più garantirgli la gloria attraverso il ritrovamento postumo (lo ritengo plausibile solo nel giro di un paio di decenni) di frammenti del loro calcestruzzo, sempre che non sia stato realizzato prevalentemente con sabbia e che la manutenzione dell’immobile sia stata assidua e sostanziosa, o della carcassa tossica di qualche pannello solare, se non addirittura di brandelli di costumi da bagno firmati a testimonianza del gusto gentilizio e delle attività ludiche dell’Homo Risibilis.
Ma grazie a uomini intelligenti e motivati come Marco Cavalera, state pur certi che riderà bene chi riderà ultimo!