Medico, naturalista, poeta, letterato, patriota
EMANUELE BARBA
Seppe coniugare l’amore per la cultura con l’amore per la Patria. Impegnò ogni suaenergia nella crescita umana della povera gente e ne condivise ogni affanno e sofferenza.
di Rino Duma
Ci sono pochissime figure elette nel Salento che possono gareggiare con quella di Emanuele Barba. Il gallipolino ereditò dai genitori, gente brava e onesta, i migliori valori e sentimenti umani, quali l’umiltà, la probità, l’impegno, il rispetto e, soprattutto, l’amore per il prossimo. Fu grande assertore e divulgatore dei principi libertari ed educò i giovani a impegnarsi nel lavoro, a migliorare le fortune della propria terra, a battersi per i valori fondanti della società degli umani e a reclamare i diritti indispensabili per una vita dignitosa. Per tutto ciò fu amato e quasi venerato dai gallipolini.
Sin da fanciullo, Emanuele si prodigò con ogni mezzo per creare situazioni di benessere rivolte soprattutto ai ragazzi di strada, che frequentava con regolarità e nei confronti dei quali si sentiva più legato. La sua colazione o merendina, fatta di fichi secchi o di fette di pane raffermo con alici, spesse volte era condivisa con amichetti bisognosi, che non avevano di che sfamarsi.
Il padre Ernesto era un bravo sarto, ma, nonostante s’impegnasse al massimo nel lavoro, non riusciva quasi mai ad assicurare alla famiglia una vita agiata.
La madre, oltre ad allevare con cura i figli e a trasmetter loro la migliore educazione, aiutava il marito nel faticoso lavoro, sostenendolo spiritualmente e materialmente.
Emanuele nacque a Gallipoli l’11 agosto 1819 da Ernesto, uomo laborioso e onesto, e da Pasqualina Manno. Condusse gli studi primari nella cittadina ionica, riportando un’ottima valutazione in ogni disciplina. Il giovane Emanuele aveva un notevole interesse per il sapere, non disdegnando mai di leggere e di nutrirsi di ulteriori conoscenze, per cui pregò più volte il padre di iscriverlo nelle scuole superiori di Napoli o di Lecce. Vi era, però, un gravissimo impedimento: Ernesto non aveva le possibilità economiche necessarie per accontentarlo e se ne dispiaceva non poco di declinare la richiesta del figliolo prediletto. Ma la divina provvidenza era pronta ad intervenire. Appena adolescente, di Emanuele si presero cura due parenti napoletani, dopo le ripetute lamentele espresse dal ragazzo, in occasione di una loro visita a Gallipoli.
Uno era lo zio materno Gaetano Brundesini, che ricopriva l’importante carica di Consigliere della Suprema Corte di Giustizia, l’altro lo zio paterno Tommaso Barba, che era Presidente della Gran Corte. Dopo le iniziali difficoltà di ambientamento, Emanuele frequentò a Napoli le scuole Medie Superiori di Grammatica, dove si distinse come migliore studente, e in seguito proseguì gli studi letterari e filosofici nella scuola del famoso professore Basilio Puoti, poi diventato membro dell’Accademia della Crusca. Anche qui il gallipolino si distinse per dedizione allo studio e intelligenza, tanto da meritarsi la frequenza gratuita per cinque anni nell’ateneo napoletano. Nel 1838 conseguì, a soli diciannove anni, la laurea in lettere e filosofia.
Mai sazio di sapere e di migliorare ulteriormente la sua già brillante preparazione culturale, continuò a studiare e s’iscrisse alla facoltà di medicina nel Reale Collegio Medico-Cerusico, laureandosi nel 1842 con il massimo dei voti e la lode accademica.
La sua prima importante conferenza da medico ebbe come titolo: “Sui mezzi per evitare i falsi ragionamenti in Medicina“. Grazie a questo molto apprezzato intervento, gli fu assegnato l’incarico di assistente alla Cattedra di Anatomia nel Real Collegio.
Se a livello professionale si sentiva pienamente appagato e realizzato, non altrettanto lo era a livello umano, anzi Emanuele era continuamente turbato e tormentato dalle condizioni misere, e a volte disumane, in cui versavano molte famiglie del regno, soprattutto quelle lucane e salentine. Spesso, commentando con amici l’allarmante situazione in cui versavano i ceti popolari, sosteneva appassionatamente l’urgenza di intervenire con un’adeguata politica per migliorare, anche se di poco, le condizioni sociali delle plebi, per poi programmare con molta attenzione una politica tesa ad un definitivo riscatto delle stesse.
“Solo con un’istruzione scrupolosa e mirata, si può combattere l’ignoranza, la sottomissione, l’abbandono, il fatalismo e la rassegnazione. Solo le genti istruite maturano la consapevolezza dei loro diritti e l’impegno per poterne usufruire, sino alla lotta più dura” – era l’opinione ricorrente di Emanuele, in linea con quella del Mazzini.
A Napoli frequentò assiduamente il Caffè Letteriario, dove si ritrovavano eminenti figure, come Luigi Settembrini, Francesco De Sanctis, Basilio Puoti, Carlo e Alessandro Poerio, Bonaventura Mazzarella, Epaminonda Valentino. Qui si discettava di tutto: dalla necessità di garantire il purismo alla Lingua Italiana, alla critica rivolta agli emergenti scrittori e poeti del momento, come il Manzoni e il Leopardi, sino ad interessarsi di politica, di economia e di rinnovamento sociale. Emanuele non mancava mai di intervenire nelle varie discussioni, argomentando con argute e singolari riflessioni, che quasi sempre ricevevano il plauso dei presenti, soprattutto quando il dibattito era improntato su tematiche socio-politiche.
A metà anni ’40, sollecitato dalla nostalgia per la sua città natale, dalla quale giungevano notizie poco buone, decise di rinunciare alle ottime prospettive di vita nella capitale e di far ritorno tra la sua gente. A Gallipoli conobbe e sposò Addolorata Bono, una donna pia e molto premurosa, che gli diede ben sei figli: Ernesto, Carmelo e Gustavo, che divennero bravi avvocati, Ettore medico, Antonietta (non si hanno notizie di lei) ed infine Egildo, che morì all’età di sette anni, colpito da una grave malattia.
A Gallipoli, pur guadagnando il minimo indispensabile per vivere, svolse contemporaneamente due attività professionali: quella di insegnante e quella di medico, che gli occupavano gran parte della giornata. L’aspetto, però, che più di ogni altro merita di essere ricordato è che Emanuele esercitava gratuitamente entrambe le professioni, campando di sussidi comunali e di elargizioni volontarie. Poi, finalmente, fu nominato docente di Scienze e Lettere nel Ginnasio e nella Scuola Tecnica di Gallipoli, e, successivamente, fu Soprintendente scolastico e Assessore delegato alla Pubblica Istruzione della città ionica.
Nonostante i numerosi impegni, continuò ad insegnare, sempre gratuitamente, nelle Scuole Tecniche serali, svolgendo anche le funzioni di Direttore delle Scuole serali festive degli Adulti, istituite dal Governo. Non aveva un solo attimo di risposo. La sera, quando rientrava stanco a casa, sul viso affaticato portava sempre un sorriso di compiacimento per l’impegno quotidiano, svolto con cura e dedizione.
La nomea di valente professore e di ottimo medico ben presto valicò i confini del Salento, tanto che gli furono conferite diverse attestazioni di stima e di solidarietà per lo spirito di abnegazione e di generosità con cui si donava ai bisognosi. Gli fu assegnata dal Consiglio scolastico provinciale di Bari la nomina di professore di letteratura nel Ginnasio di Trani. Emanuele ringraziò di cuore le autorità scolastiche baresi, ma rinunziò all’allettante offerta per non abbandonare la sua gente, che tanto bisogno aveva di cure e di sostegno.
La sua preparazione culturale era talmente vasta da parlare correttamente l’inglese e il francese, ed essere un ottimo conoscitore della lingua latina e un rinomato purista della lingua italiana.
Nel 1848 Emanuele si distinse per l’assidua assistenza prestata ai tantissimi ammalati di febbre tifoidea, epidemia che improvvisamente si diffuse in tutto il Salento per via delle scarsissime condizioni igieniche e la situazione miserevole di vita in cui versavano i ceti popolari più bassi. Il morbo fece una mattanza di vite umane in ogni ceto sociale. Anche il vescovo di Gallipoli, Mons. Giuseppe Maria Giove, accorso al capezzale degli infermi per portare aiuto e conforto spirituale, ne pagò le conseguenze. Nella circostanza, Emanuele fu nominato direttore provvisorio dell’ospedale di Gallipoli e si avvalse dell’aiuto del dott. Emanuele Garzya e dei farmacisti Giuseppe Sogliano e Saverio Greco, nonché di Antonietta de Pace. Grazie al loro intervento furono salvate numerose vite.
Anche successivamente nel 1866, in occasione della diffusione del colera, Emanuele intervenne drasticamente, scongiurando la propagazione e la falcidia del morbo. Non mancarono attestazioni, onorificenze e una medaglia d’oro, conferitagli dall’amministrazione comunale.
In occasione dell’abrogazione della costituzione da parte di re Ferdinando II, Emanuele criticò duramente l’illiberalità del sovrano e si schierò a difesa dei liberali, condividendone gli ideali e le azioni. Per questo fu processato, condannato all’esilio e in seguito incarcerato per tre anni dalla Gran Corte di Terra d’Otranto. In carcere non mancò di propagare le idee liberali ai compagni detenuti, intervenendo, durante l’ora d’aria, con accorati comizi che gli crearono ulteriori punizioni. Sempre in carcere, scrisse e pubblicò il Proclama agli Italiani, che fu distribuito clandestinamente in quasi tutte le carceri del regno.
Dopo il periodo detentivo, crebbe ancor di più in lui il “dovere” di schierarsi al fianco delle classi più umili e più deboli, divenendo il loro strenuo difensore.
Nel 1861, subito dopo l’unificazione del paese, Emanuele avvertì il bisogno di fondare a Gallipoli la Società di Mutuo Soccorso ed Istruzione degli operai. Mai domo di iniziative a favore del popolo, fondò il periodico popolare Il Gallo, su cui venivano trattati i problemi legati agli operai e alle masse popolari.
Per pubblico concorso vinse il posto di Bibliotecario comunale, pubblicando immediatamente un bollettino bibliografico. Ma le sue “imprese sociali” non erano certamente finite. Qualche anno dopo fondò il Museo di Storia naturale e di Archeologia.
Non bisogna dimenticare, però, che Emanuele, oltre ad essere naturalista, medico e patriota, era anche un letterato e un valente poeta, anche vernacolare, di cui si serbano alcuni simpatici proverbi e poesiole. Tra i tanti suoi componimenti, scrisse “Un sospiro di Garibaldi” (versi di ispirazione patriottica, stampati e pubblicati nel 1875) e il “Sonetto all’Italia”.
Non mancò di delineare i tratti biografici dei personaggi gallipolini più illustri. Inoltre, di grande importanza sono alcuni lavori, mai pubblicati, sui Canti popolari e Proverbi gallipolitani e un Vocabolario del dialetto gallipolitano, tradotto in lingua italiana, francese e inglese.
Tra tanti onorificenze e riconoscimenti, Emanuele visse sino all’età di 68 anni, meritandosi le premure dei figli e dei suoi amati gallipolini, ai quali donò l’essenza prima della sua vita.
Il 7 dicembre 1887 si spense serenamente, non prima di aver raccomandato i suoi familiari ed amici di continuare ad adoperarsi per il bene e la felicità di tutti, in particolar degli ultimi.
Così scrisse lo “Spartaco” alla sua morte: “In tempi in cui l’Umanità con uno sforzo titanico aveva dato al mondo una generazione di giganti, Egli lavorò per la Scienza, per la Patria e per l’Umanità“.
Sulla parte alta della camera ardente, gli amici gallipolini affissero il memorabile distico
Nato dal popolo
Per il popolo si adoperò.
Pubblicato su Il Filo di Aracne.
Rino Duma ci fa un regalo e scrive, in forma impeccabile e partecipata, di un nostro illustre e ammirevole conterraneo dell’800, Emanuele Barba.
Grati all’autore siamo tutti, sia coloro che, come me, non hanno mai sentito parlare di questo straordinario personaggio, sia coloro che ne hanno memoria storica.
Mi colpisce il modo in cui Duma crea questa biografia arricchendola di sensazioni personali alternate ad ammirazione e confidenzialità, come a voler riportare in vita il Barba insieme alle emozioni del lettore.
La magia è facile, si sprigiona istantanea dalle parole ‘Umiltà’, ‘Probità’, ‘Impegno’, Rispetto’ e ‘Amore per il prossimo’, diamanti che hanno incastonato la virtù del patriota gallipolino il quale, pur geniale e brillante, niente sarebbe stato senza generosità e liberalità.
A questo punto, una sorta di albero genealogico del buon sangue salentino prende forma suggerendomi nomi conosciuti sulle strade interne e periferiche della Fondazione Terra d’Otranto.
E’ proprio vero che pochi sono gli eletti capaci di gareggiare con la figura di Emanuele Barba?
Probabile, ma se mi guardo attorno, oggi vedo i suoi valori mescolati al sangue delle discendenze di quel ceppo fortunato di uomini.
Ottimo conoscitore della lingua latina e di quella italiana potrebbe essere il nostro Armando Polito, umile assertore e divulgatore dei principi libertari e culturali Marcello Gaballo, Oreste Caroppo e Wilma Vedruccio a rappresentare educatori eccellenti nel migliorare le fortune della propria terra, per non parlare poi di Alfredo Romano, depositario di quell’amore per l’istruzione capace di “…combattere l’ignoranza, la sottomissione, il fatalismo e la rassegnazione”.
Impossibile, a questo punto, dimenticare l’impegno di uomini come Paolo Rausa, ‘valente professore’ pronto a ‘…battersi per i valori fondanti della società degli umani e a reclamare i diritti indispensabili per una vita dignitosa’ attraverso un lavoro d’insegnamento costante, faticoso, generoso e sempre gratuito, in nome delle classi sociali più umili, bisognose e bistrattate, come gli operai, gli extracomunitari e i detenuti.
Quanti ancora potremmo citarne di uomini e donne degni eredi di Emanuele Barba!
Ci riempie di gioia e nuova speranza, allora, constatare che un seme dà sempre i suoi frutti migliori quando vive in una terra ricca di passione. Non ci resta che improvvisarci cultori di meraviglie e raccoglitori di frutti da lasciare alla storia e alle note di un altro Rino Duma del futuro.
La figura di Emanuele Barba mi ha impressionato, sono orgoglioso che il Salento annoveri un personaggio di tanta grandezza. Ma Raffaella Verdesca ha avuto l’idea di elencare una sequela di salentini che rappresenterebbero, a sua detta, gli eredi del nostro Barba. Nell’elenco appare anche il mio nome e la cosa mi commuove. Ringrazio Raffaella per la stima, ma non credo di poter avere questo onore giacché, da quando sono nato, sotto sotto non faccio che cercare pane e cicoria, frisa, pomodoro e rucola e un buon bicchiere di rosato. Per tutto il resto… cu ffazza Ddiu!
P.S. Mi viene il dubbio che Raffaella, nel suo elenco di nomi, abbia dimenticato sé stessa. Sarà che ha tenuto fede a quel nostro detto salentino che recita: Ci se vanta te sulu pare nu pasulu! Ma con Volti di carta, ormai, Raffaella si troverà in qualche parte del monte Olimpo dove le dee fanno a gara a contendersi una qualche mela.
Secondo me Raffaella quando ha citato il mio nome, e solo il mio, non era del tutto sobria …
Astemia dalla nascita, testimone mi sia Pino De Luca! Non ho, purtroppo, il dono dell’ebrezza da nettare d’uva, ma la mortalissima attitudine all’osservazione dei compagni di transumanza terrestre (sempre che esistano i Campi Elisi o i giardini del Paradiso, altrimenti. ..!) Certo si tratta di conoscenze circoscritte, ma ho ragione di credere attente e il più obiettive possibile. La lettura appassionata e lo scambio verbale di idee permettono di concentrare e superare il tempo della frequentazione interiore dell’altro, tanto da poter esserne infinitesimale specchio di pecche e virtù. Questo mi porta, in questa bella circostanza, a essere semplice cronista di fatti ed evidenze. Vada dunque per il raccogliere cicorie e per il non sentirsi sovrapponibili a visioni di merito effettivo, ma così facendo, signori miei, non fate altro che dare conferma della vostra discendenza dalla virtù del Barba e di chi, virtuoso anch’egli ma sconosciuto, ha fatto della propria umiltà il baluardo di ogni qualità.
Non fossi già socia della Fondazione ti nomineremmo “ad honorem”. Credo allora che potremmo investirti del ruolo di “madrina” di questo nostro spazio, che si sta rivelando una bella palestra di vita. Grazie di cuore, cara Raffaella, per le attenzioni che ci dedichi con i tuoi attesi e graditi commenti
Oh cara Raffaella, trovo il mio nome inserito in un elenco impegnativo, bontà tua. Mi piace però la motivazione”migliorare le fortune della propria terra” e mi fa piacere che si legga a distanza un disegno di vita.
Bellissime le parole che tratteggiano la meta, “Non ci resta che improvvisarci cultori di meraviglie…” e qui credo di starci a pieno diritto e…in buona compagnia. Grazie