E abbiamo ancora la spudoratezza di dire “cose ti cani” (cose da cani)?

di Armando Polito

rielaborazione personale del celebre cave canem pompeiano
rielaborazione personale del celebre cave canem pompeiano

L’11 del corrente mese mi è capitato, girovagando in rete senza una meta fissa, cosa che faccio molto di rado nonostante tutto il tempo libero a mia disposizione …, di imbattermi nel pezzo che qui riporto:

Una volta scoprii Eduardo De Filippo che parlava con un cane. Eravamo a Bari, davanti al Teatro Piccinni. Con discrezione ascoltai. Sembrava un colloquio amichevole e abituale. L’uomo parlava a bassa voce, fitto fitto.

Il cane ascoltava compreso, scodinzolando. Eduardo chiedeva al cane, un bellissimo esemplare multirazziale, pezzato, con uno sguardo dolcissimo, “A chi sei cane?”. Pensai di non aver capito e drizzai le orecchie, come, del resto, fece anche la bestiola. Eduardo chiese ancora: “Ne’, si può sapere a chi sei cane?”. Il cane rispose con un guaito che era un lamento come per dire: “Caro Maestro, purtroppo non sono cane a nessuno. Mi piacerebbe molto essere cane a qualcuno ma, evidentemente, sono figlio di un Dio minore e, quindi, non sono cane a nessuno”. Eduardo capì, lo accarezzò sconsolato come per dirgli che avrebbe voluto che potesse diventargli cane, ma che non poteva, che non doveva e che la sua vita e il suo lavoro glielo impedivano.

Si allontanò meditabondo verso l’ingresso del palcoscenico e io lo accompagnai, consapevole che quel cane ci avrebbe seguito con lo sguardo triste di chi non è cane a nessuno. Eduardo non parlava e io non mi azzardavo a rompere la sua magistrale pausa di silenzio, poi mi disse: “Quando si nasce cane è meglio nascere cane <a qualcuno>. Solo allora compresi il mirabile dativo di possesso, con il quale sanciva il rapporto strano e bellissimo tra questo umile amico dell’uomo e l’uomo quando l’uomo è onesto. Un rapporto che migliora entrambi i contraenti. Forse perché uno è una bestia.

Michele Mirabella

 

Con tutto il rispetto per Michele Mirabella (a meno che non si tratti di un caso di omonimia), che è stato pure docente, naturalmente universitario, nel nostro Ateneo (coloro che hanno press’a poco la mia età lo ricorderanno come uno dei protagonisti di Quelli della notte, il meritatamente fortunato programma televisivo di Renzo Arbore e, in tempi molto più recenti, come conduttore di Elisir, in cui sfoggiava un linguaggio forbito, quasi ottocentesco dove, però, ribaltando il complimenti per la trasmissione! di Nino Frassica, altro protagonista di Quelli della notte, accoglieva gli interlocutori telefonici con un congratulazioni per aver scelto Elisir!, il che, siccome ben pochi conoscono il significato etimologico (ringraziamento) della prima parola,  non era il massimo della modestia …), ma soprattutto per il cane: in “non sono cane a nessuno” “sono” non è predicato verbale (valore che assume in presenza di un dativo di possesso), ma nome del predicato e “a nessuno” non è dativo di possesso ma dativo di relazione (per chi non ama gli animali in genere, il cane nel nostro caso particolare) o dativo di vantaggio (secondo la logica del cane che non è frutto di presunzione, come spesso succede per noi umani, ma di totale e disinteressata dedizione).

La differenza non è da poco quando un’analisi logica errata di una frase comporta un sostanziale ridimensionamento, per non dire travisamento, del suo significato profondo, cioè delle risonanze affettive, che, poi, sono le uniche che veramente contano, perché quasi istintive e non filtrate dalla razionalità che non è a priori un bene …

Il dativo di possesso (costrutto di origine latina) consente una rapida sostituzione col verbo avere senza mutamento della sostanza del significato. “Mihi canis est” può significare “ho un cane” (se attribuiamo a “mihi” il valore di dativo di possesso; alla lettera: “a me è un cane”, in cui “è” è predicato verbale)  ma può significare pure “per me lui è un cane” (in cui “per me” è dativo di relazione/vantaggio, “è” copula, “cane” nome del predicato e “lui”, naturalmente, soggetto).

Sfido chiunque, poi, al di là dell’ambiguità della frase latina appena esaminata, a trovarmi in tutta la letteratura latina frase in cui il verbo “essere” compaia come (presunto) dativo di possesso e non sia usato esclusivamente nella terza persona singolare o plurale. Se questo è vero (e lo sarà finché quel qualcuno non vincerà la sfida …) la frase del cane del grande Eduardo con il suo “sei” esclude a priori la possibilità che “a nessuno” sia dativo di possesso.

Al di là di questo: mi si potrebbe obiettare che “A chi sei cane?” sia la versione italianizzata di locuzione napoletana (a sua volta derivata dal latino parlato) che troverebbe la sua gemella nel nostro “A cci si ffìgghiu? (A chi sei figlio?) ”. Al momento, però, in tutto il CIL (per i non addetti ai lavori: acronimo di Corpus Incriptionum Latinarum, la più completa raccolta di iscrizioni latine, compresi i graffiti che più di ogni altro documentano, ora come allora,  l’uso parlato della lingua) tale costrutto (col verbo esse=essere, in persona diversa dalla terza singolare o plurale) non è attestato nemmeno una volta. Non credo che io, Michele Mirabella e la maggior parte di coloro che mi stanno leggendo faremo in tempo ad assistere al rinvenimento di qualche graffito pompeiano o di altro luogo che confermi tale ipotesi. Vedo già tutti impegnati in un frenetico toccarsi (forma riflessiva non reciproca …), ma è inutile perché io intendevo solo dire che mentre i graffiti e gli affreschi portati alla luce stanno inesorabilmente morendo d’incuria e di mancanza (o allegra gestione?) dei fondi (che, alimentati dal credo politico che la cultura è sinonimo di ciarpame, orpello inutile anziché splendida opportunità anche economica, nel frattempo hanno subito un dimagrimento che è già cachessia), solo uno col cervello poco funzionante potrebbe aspettarsi, magari in tempi lunghi, altri scavi.

Già in altre occasioni ho avuto modo di dire che latino volgare e forme ricostruite (ancora per i non addetti i lavori: la loro mancata attestazione nella lingua scritta è convenzionalmente indicata con un asterisco che li precede) rappresentano in filologia l’ultima strada, da imboccare solo quando quelle già tracciate non portano alla soluzione del problema.

Se proviamo ad analizzare “A ci si ffìgghiu?” vien fuori: “tu”=soggetto sottinteso; “a chi”= dativo (per ora non dico di che tipo), “sei”=copula; “ffìgghiu”=nome del predicato. Trasformandola con l’intervento di “avere” verrebbe fuori: “Chi ti ha figlio?” e, analizzando, “chi”=soggetto; “ha”=predicato verbale; “ti”=complemento oggetto; “figlio”=complemento predicativo dell’oggetto. Parallelamente: “A chi sei cane?”>”Chi ti ha cane?” e, analizzando, “chi”=soggetto, “ha”=predicato verbale, “cane”=complemento predicativo dell’oggetto.  Nel dativo di possesso, ribadisco, il verbo “essere” ha sempre valore di predicato verbale e non copulativo (“a me è un amico”=”io ho un amico) e se, nell’analizzare una frase in cui compare un presunto dativo di possesso, la sostituzione col verbo “avere” comporta la presenza, come s’è visto, di un complemento predicativo, vuol dire che quel presunto dativo di possesso non è tale nella realtà.   Perciò nella frase eduardiana e in quella neretina il dativo non può essere di possesso e tale diagnosi, oltretutto, lo priverebbe di tutta la carica affettiva che i costrutti dialettali, forse, conservano più dell’italiano.

L’analisi di Mirabella è contraddittoria: da un lato riesce a cogliere magistralmente l’essenza sentimentale dell’espressione, dall’altro rovina tutto con quel “dativo di possesso” che ci sarebbe stato se l’espressione di Eduardo fosse stata “a chi sei, cane?”=”chi ti ha, cane?” (ipotizzando un latino volgare “*Cui es, canis?”), così come “a cci si, figghiu?” diventerebbe “chi ti ha, figlio?” (ipotizzando un latino volgare “*Cui es, fili?”) : una pausa, che nel nostro testo manca, impersonata da una virgola a significare due situazioni sentimentali distanti anni luce.

Insomma, se l’aneddoto riporta il corretto svolgimento dei fatti e la reale sequenza della frase in oggetto, Michele Mirabella (sempre che non si tratti di un caso di omonimia …), già docente di sociologia della comunicazione, non ha capito un tubo, grammaticalmente parlando, di un elemento usato da Eduardo per rivolgere, con un significato non banale (e le idee, tutte umane e purtroppo in noi prevalenti, di possesso e potere tendono a banalizzare e a squalificare tutto …), la sua domanda, per giunta ad un cane …

Un’ulteriore prova della poesia come forma di espressione e di conoscenza superiore alla stessa scienza (?) ?

Mi permetto, poi, di segnalare il link

http://www.vesuvioweb.com/it/wp-content/uploads/Armando-Polito-Il-CAVE-CANEM-di-Pompei-vesuvioweb.pdf

perché attinente all’argomento cane  ed emblematico della nostra idiota intelligenza quando pretendiamo di giocare con le parole, questa volta latine, senza tener conto che esse, quando non sono usate isolatamente, debbono rispondere alle regole della lingua alla quale appartengono e, che quindi, è necessario avere, prima di procedere nel gioco,  una sua conoscenza almeno sufficiente.

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