di Armando Polito
Il taglio politico del titolo non è casuale, anche se gli sviluppi metaforici saranno, purtroppo, più desolanti delle considerazioni amministrative.
Comincio dai primi facendo notare come illuminata ridimensioni e dia, è il caso di dire, una luce diversa alla negatività insita in tiranna, che qui sta sì nel senso di dominatrice assoluta, ma il dominio di cui parlo riguarda (anzi, riguardava) le basi stesse della nostra vita: l’ambiente e le materie prime alimentari, cioè il grano, l’olio e il vino. Sparare così questi quattro vocaboli significherebbe poco o nulla, se accanto ad ognuno di loro non si sottintendesse eccellente. Purtroppo, il trascorrere del tempo e i cambiamenti di carattere climatico, economico-sociale e culturale che esso con la sua inesorabilità ha introdotto ci hanno immessi in una pericolosissima discesa che ci vede attualmente con i freni ormai in fiamme; l’unica speranza di rallentamento in questo precipitare verso il baratro starebbe in una brusca riduzione di velocità cambiando marcia, ma nessuno sembra voler correre il rischio di spaccare il cambio …
Lu Patretèrnu tae li frisèddhe a ccinca no lli rròsica (Il Padreterno dà le frise a chi non è in grado di masticarle) recita un antico proverbio neretino, che in senso traslato vuol dire che spesso la sorte dà le opportunità a gente che non sa sfruttarle.
Così, complice anche un’atavica indolenza, in nome di un disgraziato concetto di sviluppo che costituisce solo la copertura di interessi particolari e loschi, con l’alibi dell’Europa dei burocrati impegnati a stabilire la pezzatura della melanzana da commercializzare, senza minimamente interessarsi degli antiparassitari e degli ormoni usati per farla nascere e crescere, abbiamo consentito, a partire dalla seconda metà del secolo scorso che le autobotti del nord portassero via il nostro vino per tagliare il loro, mentre premi più o meno allettanti sterminavano (grazie anche all’obbligo di non reimpianto se non dopo venti anni) vitigni autoctoni.
Nel frattempo la febbre delle medie e grandi opere si scatenava nello strupro del paesaggio con la costruzione (spesso non terminata …) di nuovi scatoloni urbani ed extraurbani, abbandonando al degrado ed al vandalismo emergenze architettoniche di assoluto rilievo storico ed estetico; con la realizzazione di inutili (per il cittadino onesto …) superstrade quando sarebbe stato certamente meglio, e non solo da un punto di vista finanziario, risistemare la viabilità preesistente.
Poi venne la moda, anzi l’affare della green-energy, pannelli fotovoltaici in primis. Non ho assolutamente nulla contro qualsiasi fonte di energia che sia rispettosa della natura, che, anzi, come quella appena indicata nello specifico prioritario, sia stata sviluppata proprio per salvaguardare l’ambiente o, quanto meno, apportarvi meno danni delle altre.
Solo che il progresso di una civiltà, secondo me si misura anche dal modo in cui si usano le parole; sicché, mentre in passato era perfino superfluo specificare che il nostro ambiente, il nostro grano, il nostro vino e il nostro olio erano eccellenti, oggi si accoppia quasi ad ogni sostantivo un aggettivo che quasi mai mantiene le promesse. Quando poi la locuzione è bell’e pronta, magari in inglese, la frittata è servita.
Per me è emblematico, sotto questo punto di vista, proprio green-energy, perché (mi riferisco soprattutto al fotovoltaico) rappresenta una vera e propria truffa: come si fa, infatti, a definire green un’energy che, a parte il terreno sottratto all’agricoltura, usa i diserbanti per mantenere pulita l’area dell’impianto? come si fa a definire green un’energia che ha favorito solo le multinazionali del settore con megaimpianti installati su terreni che sono costati a loro un’inezia, che, però, per il povero contadino (e come si fa ad incolparlo …), era invece una somma che nemmeno se avesse avuto tre vite avrebbe mai incassato? non sarebbe stato logica elementare incentivare l’installazione dei pannelli sui tetti privati e pubblici senza divorare un territorio rurale che fra uno o due decenni dovrà fare i conti, dopo l’amianto, anche con il silicio abbandonato?
Eravamo fino a pochi decenni fa il paradiso, il granaio, la cantina e il frantoio d’Italia; ancora qualche anno e ne diventeremo il cesso.
Non serve a nulla scaricare la responsabilità di tutto questo su chi ci ha governato e ci governa, finché ognuno di noi nel suo piccolo, a cominciare dalla famiglia (ma pure quando si trova a parlare da solo con se stesso e di se stesso non ironicamente), non si rende conto che il potere può essere buono e santo solo se inteso come servizio per il bene comune (il concetto non è mio ma, cambiate le parole, del buon Machiavelli che di rapporti tra politica e morale credo se ne intendesse).
Lascio da parte l’utopia (che, però, è l’anticamera del sogno e chi non sogna è come se fosse morto prima ancora di essere o di aver vissuto …) e mi rifugio, fa pure rima, nella nostalgia e nell’etimologia di alcune voci ormai morte, proprio come il grano di eccellenza la cui produzione esse avevano scandito.
Non è escluso che più in là io mi occupi del vino e dell’olio, per oggi mi limiterò al grano, quel grano duro, pugliese, per cui la nostra pasta è diventata famosa nel mondo. In attesa della notizia tutt’altro che improbabile che un nucleo dei NAS scopra qualche deposito di qualche salutarissima mistura chimica (magari di provenienza cinese …) utilizzata per trasformare la farina di grano tenero in farina di grano duro, ricordo che in passato la terra veniva arata con mezzi a trazione animale e concimata cu lu rrumàtu1 (il letame), il grano veniva seminato manualmente, a maturazione veniva mietuto con la fagge (falce), raccolto in mannùcchi2 (covoni), che venivano poggiati a formare tanti sieddhi3 (l’azione era detta ‘nsiddhàre4) nel campo stesso, da dove successivamente, caricati sul traìnu5 (carro), venivano accatastati in pignuni (plurale di pignòne, accrescitivo, con cambio di genere, di pigna, con riferimento alla forma) sull’era6 (aia) in attesa della trebbiatura; questa veniva eseguita con l’ausilio di una macchina gigantesca in cui spiccava una cinghia di trasmissione che tanti incidenti spesso mortali ha provocato a danno di contadini che vi si erano imprudentemente avvicinati o, con la sua rottura, ad altri per loro sfortuna trovatisi nei paraggi; la trebbiatura era, come si capisce facilmente, un evento importante per il mondo contadino ma anche per il proprietario terriero e, comunque, uno spettacolo, al quale io ragazzino ero ogni anno ammesso da mia madre che mi tratteneva ad una distanza di almeno cinquanta metri da quelle cinghie.
Già qualcuno starà pensando, chissà perché, al proverbio non tutto il male vien per nuocere … che con me, almeno allora, non ebbe a funzionare …
Da tempo so tirarmi via da solo , quand’è il momento, dalle tante cinghie metaforiche dei nostri giorni; perciò, almeno per oggi, ho finito. Sento una bordata di fischi, quelli che di regola accompagnano i fiaschi; ma, per dimenticare, ho già adocchiato altri fiaschi … speriamo che, quando scriverò il prossimo post, non facciano sentire il loro effetto.
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1 Su rrumàtu vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/12/lu-rrumatu-e-altre-zozzerie-antiche-e-moderne/
2 La variante manùcchiu di Salve e Vernole è dal latino manìpulum (da manus=mano)=quantità che entra in una mano; trafila: manìpulum>*manìplum (sincope)>*manìcchiu (come in còpula>*copla>còcchia=coppia)> manùcchiu. Per il neretino mannùcchiu si può ipotizzare un raddoppiamento espressivo di –n– o, meno bene, un incrocio con l’italiano manna =fascio di spighe, da cui mannello; manna (diversa da quella della Bibbia che ha un’altra etimologia) è dal latino medioevale manna, o mànnua o mànua=fascio di spighe, tutti da manus).
3 Mucchio di una decina o più di covoni (mannùcchi) sistemati con le spighe rivolte verso l’alto. Due sieddhi a San Cesarea Terme erano detti mannucchiàta. Per il Rhofs è dal latino asèllu(m)=asinello; lo stesso studioso invita ad un confronto con ampàri che nella Grecìa indica il cavallo; al lemma ampàri invita ad un confronto col dialettale cipriota ἀππάριν e col cretese moderno ἀππάριον, entrambi col significato di cavallo e dal greco classico ἱππάριον (da ἵππος=cavallo) che significa cavallo di poco pregio e malattia degli occhi consistente nello sbattere frequentemente le palpebre. È evidente che tra l’asinello e il cavallo l’unica cosa semanticamente in comune è che appartengono entrambi alla famiglia degli Equidi e che tra sièddhu e ampàri non c’è alcuna comunanza fonetica. Il sièddhu, perciò, alla lettera significherebbe covoni disposti a schiena d’asino.
4 Da in+sièddhu, per cui vedi la nota precedente. Va ricordato che nel dialetto gallipolino esiste l’omofono ‘nsiddhàre col significato di spruzzare e in quello neretino ‘nsiddhisciàre=piovigginare; entrambe le voci hanno un’origine completamente diversa dal vocabolo agricolo in quanto quella neretina deriva da quella gallipolina con aggiunta del suffisso frequentativo -isciàre (per cui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/22/un-relitto-greco-in-latino-in-italiano-e-in-neretino/) e quella gallipolina da ‘nsiddhu (usato pure a Nardò, ‘nsiddha in altre zone del Salento)=goccia. La voce neretina presenta cambiamento di genere rispetto alla variante ‘nsiddha che è da un latino *uncìlla, diminutivo del classico ùncia che significa dodicesima parte di un tutto e, in senso figurato, un pochino, un pezzetto.
5 Traìnu rispetto all’italiano tràino mostra la conservazione dell’originario accento; infatti se tràino è da trainare, a sua volta dal latino medioevale traginàre/trainàre, dal classico tràhere=tirare, traìnu suppone, sempre da traginàre, un latino *tragìnu(m). Si direbbe che l’italiano tràino, per quanto riguarda l’accento, ha subito l’influsso del classico tràhere.
6 Come le voci italiane area e aia, dal latino àrea(m).
La vostra “era”, in piemontese ha tre scritture e relative pronunce: “era” come la vostra e poi “aira” e “eira”; questo ultimo è il più utilizzato. Comunque abbiamo trovato un’altra parola che ci accomuna
Nell’ articolo si fa un particolare riferimento ai danni ambientali degli invasivi ” specchi fotovoltaici ” ma non si accenna ( ? ) alle altre inquinanti strutture, per l’ energia alternativa, costituite dalle mostruose ed inutili ” pale eoliche ” che rispetto ai ” fotovoltaico ” sono molto più, visivamente , ingombranti e molto meno produttrici di energia elettrica…….senza contare i ripetuti allarmi dei media in relazione alle ” ombre ” che circondano la gestione di queste mostruose installazioni. Fino a prova contrario, esprimo il mio rammarico per il fatto che non vedo , da parte dell’ Associazioni ambientaliste, una seria presa di posizione ………………..che, per me. deve avere come primario obbiettivo l’ ABBATTIMENTO DEI DETTI MOSTRI EOLICI.
Per me pannelli fotovoltaici e pale eoliche si equivalgono. Queste non compaiono solo perché quelli hanno un impatto più devastante sul terreno destinato all’agricoltura (su questa implicazione è imperniato il post), pur essendo altrettanto grave l’impatto sul paesaggio. Per quanto riguarda le pale eoliche in particolare, dopo aver dichiarato che, essendo un inveterato individualista innamorato pazzo della sua libertà, non sono membro di nessuna associazione ambientalista né ho intenzione di esserlo per il futuro, le segnalo il link https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/11/27/perche-gli-olivi-patriarchi-salentini-sono-sculture-viventi/.